a Maria
Appartengo a Ikaros e a Peribbia.
Mio padre, Ikaros, volle conoscere il sole troppo da vicino e ne morì. Mia madre, Peribbia, era una delle Naides. Le Naides non nuotano nello stesso mare dove trovò morte Ikaros. Mia madre, da Naides officiante, si muoveva in acqua di fiumi o sorgenti e nella profezia di poesia e musica.
Acqua che salva, acqua che uccide. Niente di nuovo.
Sono la Sposa.
Ammanto la fedeltà dell’attesa dietro la tessitura di un lenzuolo funebre per Laerte, il padre del mio uomo.
Mio.
Mia è di certo l’attesa, non sempre mio è lo Sposo. Non ho conoscenza di questo dato se non in breve spazi di nodi. Ogni cento, mille forse.
In altri nodi, cento mille forse, dico e pretendo di dire che so cos’è l’amore. Naturalmente, mentre dico, divento la creatura che vede il padre che vede il sole, seppure troppo da vicino. Perché dire di conoscere l’amore non può escludere pretesa di ingenuità indecente. L’ingenuità indecente non me la posso permettere ogni volta che voglio.
I pretendenti rantolano qua alla mia porta con offerte prestigiose o minacce: mi copriranno d’oro o di sputi. Di balsamo o sangue.
Mi dicono il miele delle mie braccia, vogliono il luccichio della corona.
Mentono.
Ogni tanto qualcuno più lusinghiero si convince delle sue stesse parole e riesce a accarezzarmi con la voce. Capita.
Allora, e non posso confessarlo neppure ai pensieri, cederei al palpito. I nodi dei giorni sono così difficili da sciogliere. Passano. Macinano. Trascorrono su carni bianche, sul tempo che le sciupa, sul pregiudizio di me granitica e mi fanno mummia vivente con cuore e fegato decomposti in un’anfora separata da me.
Quando mi prende il dubbio che l’attesa non sia altro che paura vestita a festa, indosso oli profumati, sciolgo i capelli, vesto le stoffe migliori e mi stendo sul letto a cui lo sposo ha voluto dare radici.
Celebro come posso, con il ricordo. Persino gli unguenti non mi distraggono dal suo odore. Resto fedele al suo odore. Preferisco il profumo all’immagine di occhi e mani, perché anche il tempo dello Sposo non sarà passato lasciandolo indenne. Forse solo l’odore amato resta.
Il nero blu del suo piglio sarà sbiadito? E la scalata del bianco, che avvicina alla fine, avrà contagiato la barba che mi graffiava di spine e sospiri?
Intanto altri nodi passano sotto le mie mani, il telaio lo esige. Il rovescio del tessuto non permette inganni: i nodi sono imperfetti nel loro porgere la schiena, sospendono fili, accumulano approssimazioni.
Io il dubbio so cos’è. Qua lo sguardo non è innocente: ha cataratte di nebbia, polpastrelli di ciglia consumate, rughe contratte e stanche che in principio erano solo sorrisi.
L’incertezza più dannosa mi raggiunge la notte, si sdraia sul mio petto e lo schiaccia, provoca respiri spezzati. Per quale tremenda epica ho scelto di fermare la vita mia? Dove ho segnato il confine tra la paura e l’amore, perché non ho posato un piede rapido oltre il limite? Ho voluto difendere un’intera stirpe di Spose oppure ho solo anticipato la morte di ossa vecchie nate pudiche e impreparate al salto?
Mi salvo ridendo, i dubbi in fondo non meritano tanta confidenza. Neppure in nome del Per Sempre che mi crocifiggerà.
Accarezzo il corpo supino del telaio e i suoi fili di infinito: attendere, pazientare, aspettare, sperare, rimanere, adempiere, badare, dedicarsi, pensare a, occuparsi, curare.
Faccio un solo passo e carezzo i fili scomposti del dorso, altrettanto infiniti: intervenire, infrangere, violare, sognare, ridere, meditare.
Forse domani muovo un altro passo. Forse domani ti vengo a cercare.
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