La prima mattina a La Habana mi risveglio ancora intontita per il jet lag. La colazione è invitante e rigenerante: il succo di guayaba, il panino caldo burro e miele e un’omelette fumante mi danno l’energia per iniziare l’avventura.
L’appuntamento è alle 10 da un “chiropratico” dove Denise si sta curando il mal di schiena. Arrivo nell’androne di un palazzo di calle Concordia e vedo un tizio di colore, più o meno della mia età, con un pancione enorme e un lunghissimo sigaro in bocca, bermuda di jeans, scarpe da ginnastica, t-shirt celeste, circondato da decine di persone in attesa che lo osservano con ammirazione e devozione.
Nel suo delirio di onnipotenza, il Doctor Lino parla senza sosta, dicendo frasi di auto-esaltazione tipo “Yo soy el medico más grande de la tierra, yo soy autosufficiente, yo soy salvaje” (selvaggio), “yo soy caballo” (Denise dice che si riferisce agli spiriti che lo “montano”) e intanto tocca con gesti rapidi il “paziente” che gli sta davanti, in piedi, di solito di spalle a lui: Doctor Lino gli tocca la schiena, gli torce il collo, le braccia, gli tocca la pancia, li solleva per il bacino o per le braccia incrociate (come ha fatto con me) e poi gli dà una pacca quando ha finito.
Il tutto dura due minuti scarsi per 1 pesos cubano se sei cubano e 20 pesos (dollari) se sei straniero! Sulle pareti della stanza diverse scritte con testimonianze di guarigioni dai mali più disparati, con date e nomi. Sembra un po’ la cappella votiva del Santuario di Pompei.
Arriva una coppia, lei con una gamba sola, vengono dalla Colombia solo per farsi toccare da lui che già in passato li ha “curati”; altri gli portano fotografie di parenti malati e allora Doctor Lino fa sulla foto gli stessi gesti che fa dal vivo poi aspira il suo sigaro e soffia fumo sulla foto dicendo “Tienes solución, tienes solución!”
Denise attende il suo turno, sostiene che dopo la prima seduta si sente già meglio e che io dovrei farmi curare questo terribile raffreddore ma la mia “visita” mi piace solamente per il modo in cui Doctor Lino mi fa scrocchiare la colonna vertebrale dal collo all’osso sacro, pur nel timore che mi spezzi in due!
Insomma la prima mattina a La Habana è davvero folcloristica, osservo con stupore e curiosità tutta la gente che è lì e il Doctor Lino e penso che il raffreddore è come prima, ma hai visto mai che mi abbia curato qualche altra cosa di cui non mi sono ancora resa conto?
Mi colpiscono alcuni altarini che scorgo dalle porte aperte che danno sulla strada: ci sono foto, frutti, fiori, candele, sigari, rhum o i cibi preferiti dagli Orishas, le divinità cubane. I santeros praticano la predizione del futuro e sono la voce terrena degli Orishas, mentre i babalawos sono oracoli più potenti, una sorta di sommi sacerdoti della santeria. Il santero è un guaritore, un personaggio cui ricorrere per risolvere i problemi quotidiani ma anche quando la medicina tradizionale non dà speranza. Ecco chi è il Doctor Lino! È più facile adesso capire come la Santeria si sposi con lo stile di vita e la mentalità cubana, una religione fatta anche di riti che danno un posto importante a rum e tabacco!
Magia, mistero, superstizione, filtri d’amore e di morte caratterizzano la Santeria, la vera religione di Cuba, trasportata lì dagli schiavi africani.
Denise ha un libriccino dei miti degli Orishas. Gli Orishas sono le divinità, alla loro origine personalità reali dotate di “achè” (potere), trasformati poi in una forza immateriale che non è percettibile agli esseri umani se non quando prende possesso di uno di essi attraverso la cerimonia denominata “hacerse el santo”.
Tra gli Orishas più conosciuti ci sono Changò signore del fuoco e del fulmine, dio della guerra, e Babalù Ayè, divinità dei lebbrosi e delle malattie della pelle. Poi c’è Elegguà (signore delle strade), Obatalà (creatore della terra e dell'essere umano) e Yemayà (madre della vita).
A Cuba ha un ruolo di grande rilievo anche Ochùn, dea dell'amore, della femminilità e del fiume che è stata identificata con la Virgen de la Caridad del Cobre (patrona dell'isola).
Per onorare gli Orishas i cubani fanno feste con musica e balli e una gran quantità di cibo e bevande. Il giorno più importante è il 4 dicembre in cui si festeggia Changò. Nel libriccino di Denise mi appassiona il mito di Ochùn, signora dell’amore e della femminilità, divinità del fiume, simbolo della grazia femminile, amante di Changò. Viveva nel fiume e assisteva le gestanti e le partorienti. Viene rappresentata come una mulatta bella, simpatica, brava ballerina e sempre allegra. Ochùn amava più di ogni altra cosa indossare vesti dai colori brillanti, adornarsi il capo di piume e cospargersi il corpo e i capelli con olii profumati. Ella teneva molto anche alla sua collezione di bracciali e di pettini. "Niente di tutto questo è importante, paragonato alla gioia di tenere un bimbo tra le braccia!" disse tra sé mentre riponeva i suoi tesori all'interno di grandi cesti. Poi si sbarazzò delle vesti colorate, dei pettini, dei bracciali e delle perle e si accontentò di una vita sobria e tranquilla; così, dopo qualche tempo, diede alla luce un bambino e poi un altro e un altro ancora. Non vi era mamma più felice di lei. Quando i suoi figli divennero adulti e si resero conto dei sacrifici della loro madre per loro, le donarono nuovamente i bracciali, le vesti colorate e tutte le sue ricchezze, per ristabilire l'equilibrio.
Il tour del centro Habana è intenso: la città è splendida.
A Plaza de Armas scopro El Templete, il tempietto neoclassico, costruito nel 1828 per celebrare la fondazione della città, che secondo gli storici cubani fu fondata esattamente in quel luogo. Qui c’è la Ceiba, l’albero sacro per la santeria dove gli abitanti dell’Avana si mettono in coda per “dar la vuelta a la Ceiba” ovvero fare tre lenti giri in senso antiorario intorno all'albero mentre ne toccano il tronco esprimendo tre desideri. È un rituale portafortuna a cui non si dovrebbe rinunciare. Per tradizione a chi compie questo rito l'anno successivo tutto andrà perfettamente bene. Se uno dei tre desideri si esaudisce bisogna tornare a La Habana entro un anno per ringraziare e forse questa è la parte più difficile per noi turisti: il mio desiderio si è avverato ma non sono più riuscita a tornare a La Habana.
Davanti al convento di San Francesco c’è una statua in bronzo che raffigura un passante dalla folta barba e dalla lunga chioma, soprannominato “El caballero de Paris” forse perché da giovane aveva lavorato nel ristorante “Paris”.
Il suo vero nome era José María López Lledín, un gentiluomo proveniente dalla Spagna, nato alla fine dell’ottocento, che vagabondava per le strade dell’Avana accettando soldi solo da conoscenti. El caballero discuteva di filosofia, di religione e di politica con le persone che incontrava ed era una persona molto gentile. Dicono che fu ingiustamente detenuto nel Castillo del Principe e che dopo questa brutta esperienza iniziò ad avere dei problemi mentali. Fu così che dopo cinquant’anni di vagabondaggio venne ricoverato nell’ospedale psichiatrico dell’Avana e lì, esalando l’ultimo respiro, disse: «Già non sono più il cavaliere di Parigi. Questi non sono tempi per aristocratici».
La statua, che lo raffigura in un suo tipico atteggiamento, viene fotografata da milioni di turisti che gli toccano la barba come portafortuna. La sensazione, pur non avendolo conosciuto, è quella di trovarsi vicino ad uomo carismatico e degno di rispetto, qualcuno con cui si vorrebbe tanto scambiare quattro chiacchiere ma che oramai si lascia toccare le mani e la barba in un silenzio che racconta tutto.
Dalla plaza mi dirigo verso il Cimitero monumentale Cristóbal Colón, sotto un sole davvero cocente. Il cimitero è una vera e propria città con molte strade così una guida è necessaria per conoscere le storie dei morti che abitano qui. Ad esempio c’è la tomba della signora Amelia Goyri de la Hoz, morta di parto nel 1903 a 23 anni e sepolta con il bambino ai suoi piedi. La leggenda narra che quando la tomba fu riaperta per riesumare il corpo, il bambino fu trovato tra le braccia della madre. Il marito José Vicente Adot, disperato, non sopportò tanto dolore e impazzì: egli si recava al cimitero ogni giorno e bussava sulla tomba gridando: «Svegliati Amelia! Svegliati!». Fece questo per 17 anni finché morì.
Tutta questa storia ha reso leggendaria Amelia che è stata idolatrata come donna del miracolo: i cubani la chiamano la Milagrosa, le offrono fiori e preghiere ogni giorno e la sua tomba bianca, con la statua che la raffigura col suo bambino in braccio, è oramai meta di pellegrinaggi, ricoperta di targhe in marmo o bronzo che la ringraziano per esser intervenuta miracolosamente in casi disperati di partorienti e neonati in pericolo. La Milagrosa riceve fiori e invocazioni più delle altre figure sacre e le autorità della chiesa cubana guardano perplesse e tacciono.
La guida racconta poi di un’altra tomba, stavolta di un ricco signore perdutamente innamorato della sua sposa che le fece costruire un monumento funebre con delle rose intarsiate nel marmo nero e dei vetri colorati da cui entra un raggio di sole che cade proprio sulla bara della donna. L’amore vince su tutto, dice la guida, anche sulla morte.
(Foto di Irene Marcarelli)
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