Nelle sere d’estate, in Alta Savoia, restavo per ore con lo sguardo rivolto all’insù, impigliata in quella rete magica dentro la quale scoprivo una magnificenza venuta come d’altrove. Contavo – tentavo di contare – i luccichii, le spade che sfrecciavano nel blu d’inchiostro. Quella rete, quel manto oscuro appartenevano a una potenza superiore a qualsiasi cosa avessi mai potuto immaginare.
Ero un’adolescente, allora, il che non è gratificante per nessun adolescente ma avevo una gran fiducia nelle capacità mentali, forse per colpa di due illusionisti molto in voga a quei tempi in Francia, dal nome improbabile di Myr e Myroska. Quei due magiciens (erano i primi tempi della televisione e bambini e ragazzi a tutto credevano) raccontavano che concentrandosi al massimo si poteva con un solo dito sfiorare una stella.
Da lì, su quelle montagne, altro non mi restava che tentare l’esperimento!
Mentre allungavo il dito, a quella volta stellata e vorace che mi respirava in testa chiedevo: miliardi d’occhi accesi che non posso attingere, mi state anche voi guardando?
E ancora: si potrà stabilire un dialogo con qualcosa o qualcuno lassù? E voi pianeti, in quale lingua state mormorando? Che cosa c’era prima del Big Bang? E prima del prima del prima?
Ma l’esercizio del dito non funzionava: più tentavo di entrare in quel mondo altro più mi accorgevo che il vero mistero si nascondeva molto al di là del dito e della stella e di ciò che con grazia mi si svelava agli occhi. Tutto era troppo bello e l’aggettivo bello, mi si sfaldava sotto la lingua mentre lo pronunciavo. Chi regalava quella bellezza? Forse si trattava di una lunga e misteriosa storia come anchilosata nel tessuto del tempo; di un tempo neutro, quasi ostile esistito molto prima di me, in cui non trovavo il mio posto e che avrebbe continuato ad esistere al di fuori di me…
Del resto, neppure la parola tempo voleva dire granché alla ragazzina che ero, non priva di sentimentalismo trasognato, a cui qualcuno avrebbe dovuto spiegare che poeti scienziati e filosofi – e non solo loro – si erano posti le stesse domande da secoli senza venirne a capo.
Ora, da grande, continuo l’esercizio ma con tutt’altro spirito. Anche perché tante cose sono scese dall’alto. La polvere d’oro degli anni più belli, per esempio. Ho saputo accoglierla in tutto il mio essere. Poi si sa, con le stagioni, altri fatti sono scesi come da lassù. Non meteoriti, no… ma vere e proprie tegole!
Ma non ho mai smesso di desiderare. Di de-siderare.
Forse, questo continuare a desiderare la stella mancante, quella che non potrò mai sfiorare col dito, riattiva il voler stare in armonia con il cosmo e la complessità ch’esso rappresenta.
Oggi mi affido a più pacati pensieri. Considero lo spazio siderale come un’opera d’arte – la più mirabile, certo – e ho imparato ad amare i poeti che cantano l’infinito con telescopio di stupore e un po’ meno gli astronauti che piantano bandiere in troppi alti giardini mai calpestati. Ho imparato ad accettare il mistero così come ho imparato a tollerare l’opacità, gl’istanti d’indicibile, d’accesso al vuoto.
E più passano gli anni, più diffido delle cose che si svelano a prima vista.
Una musica, un libro, un film, quando sono troppo facili, si capiscono in un lampo. Ma subito dopo non fanno più parte di noi.
Viviane Ciampi
Le fotografie ed elaborazioni grafiche (di Lino Cannizzaro e mie) suscitate dal tema Cosmo incrociano la parola di poeti (qualche volta di filosofi, matematici, scrittori ecc. quando la loro parola incontra la grazia della poesia), poiché la poesia come atto creativo è parte integrante del Grande Libro del Cosmo.
Questo connubio tra parola e immagine fa parte di una iniziativa nata tempo addietro con Il linguaggio degli alberi - La fotografia incontra la parola presentata al Festival Internazionale di Poesia - Palazzo Ducale (Genova, giugno 2010). L’intero album on line è rintracciabile su:
progettogeum.org
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