«Le storie sono persone / sedute sulla soglia di casa della mia mente». Comincia così una breve poesia di Sherwood Anderson, l’autore dei Racconti dell’Ohio. E continua dicendo che le storie siedono al freddo e bisogna vestirle. Domenico Vuoto fa esattamente questo. La sua vocazione è quella di accogliere le storie che siedono fuori della sua porta, di vestirle e di presentarle ai suoi ospiti, i lettori. La breve nota biografica non potrebbe essere più chiara: egli “scrive essenzialmente racconti”. Sono convinto che chi frequenta questo genere letterario dev’essere un equilibrista, un funambolo che cammina sulla corda, attento a non guardare mai in basso per evitare cadute. Detto altrimenti: le piccole sbavature ancora accettabili in un romanzo, condannano qualunque racconto al sicuro fallimento; da qui il rischio. Che è poi certamente maggiore trattando, come Domenico Vuoto fa in questo libro, il tema più usato e abusato del mondo, l’amore. Rischio – va subito detto – che qui è scongiurato. Ma poiché, dopotutto, il tema è di quelli che non esauriscono mai le loro possibilità, questi nove racconti presentano un catalogo (cito dall’acuto risvolto di copertina) delle “coincidenze, le germinazioni, i capovolgimenti e i disordini interni al discorso amoroso”. Se si tratta di variazioni che ne esplorano i lati più torbidi o crudeli, di storie poco edificanti, ciò non può essere addebitato all’autore. Egli ha la sola responsabilità, anzi il merito, di trarre dal puro spunto narrativo la ragione dell’agire dei suoi personaggi e di rappresentarne quel momento decisivo che svela un’inaspettata profondità sentimentale, la contraddizione di un comportamento, la crudeltà di un gesto imprevedibile che incrina sicurezze o rompe schemi di pensiero, consolidate abitudini; insomma, un momento breve e irripetibile che segna indelebilmente la vita.
Lo spunto originario di alcune delle sue storie, ovvero il solo, nudo resoconto di esse, Domenico Vuoto potrebbe averlo tratto dalle notizie di cronaca di qualsiasi quotidiano (si veda del resto come questo semplice espediente sia utilizzato narrativamente nell’ultimo racconto, Ferhat): un clandestino perseguitato da una banda di balordi, un caso di eutanasia, un regolamento di conti fra immigrati, uno squallido caso di molestie sull’autobus, un altro di violenza e di morte in una baraccopoli sugli argini del Tevere, un caso di necrofilia. Ma è pur vero che la realtà è una mediocre romanziera. Cos’è allora che fa la differenza? La fantasia? Sì, essa può dare alla nuda cronaca senso significato e prospettiva, arricchirla di sfumature circostanze e particolari. Però la differenza sostanziale è data dalla lingua: ritmo, tono, spessore, sintassi, punteggiatura; in breve: dallo stile. È lo stile a tessere l’arazzo, sono le parole a disegnare i personaggi, a dar loro caratteri e personalità. La cronaca è l’ordito, mentre la trama è la tessitura di quella labile e sfuggente materia di cui è fatta la vita, la stessa, come si sa, “della quale sono fatti i sogni”; o meglio, qui, gli incubi. Già. Eppure, se alcuni di questi racconti sono crudeli non è per scelta dell’autore. Chi racconta non è tenuto ad abbellire o a smussare gli spigoli solo per dare conforto al lettore, o per fornire l’alibi dei buoni sentimenti alla sua cattiva coscienza (sebbene sia certo la virtù dello stile a rendere inquietanti questi racconti, soprattutto pensando a come, in televisione, fatti di cronaca simili a questi siano seguiti con morboso interesse senza battere ciglio). Dunque, nessuna condiscendenza, ma neppure compiacimento; tuttavia, l’acutezza impietosa dello sguardo non manca di compassione per (cito ancora dal risvolto) “l’irreparabile fragilità umana, i rancori e le spietatezze, le delusioni e derelizioni dei personaggi”.
Tzvetan Todorov afferma che una narrazione inizia quando c’è la rottura di un equilibrio e termina quando un ordine si ricostituisce. Se questa regola esiste, mi pare che Domenico Vuoto la contraddica nei fatti, consapevolmente. All’inizio dei suoi racconti nessun equilibrio viene davvero spezzato; anzi, è proprio l’abituale tran-tran, lo svolgersi regolare del tempo di una o più esistenze che l’autore si propone di narrare; solo successivamente, sotto gli occhi dei lettori, qualcosa imprime alla storia una brusca sterzata. Forse non è per puro caso che il narratore inizi il racconto appena prima di quel particolare momento, ma ciò non vuol dire che quanto accade ai personaggi rappresenti uno strappo irreparabile nell’arazzo. Nemmeno nel caso più estremo, come in Ospiti inattesi, nel quale, semmai, è la conclusione a spezzare l’equilibrio di una normalità sociale sempre più distorta e sconfitta. Un clandestino è inseguito dalla polizia e per sfuggirle s’infila in un cassonetto. Niente d’insolito, in questo. Ciò che imprime una direzione diversa alla storia è uno slancio di umana pietà e di compassione del protagonista. E alla fine del racconto è la sua morte, non detta ma lasciata all’immaginazione del lettore, che scompagina l’ordine delle cose. Anzi, proprio la mancata descrizione di essa conferma il non rispetto della regola, perché lascia il lettore sospeso sull’orlo di quel cassonetto, agghiacciato dall’urlo del giovane immigrato e dal suo ultimo pensiero, “inatteso, di quiete”, che andrà “perduto come tutto il resto”.
Esemplare è anche il primo racconto, Macchie. Il tranquillo pomeriggio in campagna di una coppia matura – lui pesca, lei lo guarda o legge – viene via via guastato da piccole incomprensioni, dagli smottamenti sotterranei – impercettibili ma evidenti come le macchie di vecchiaia sulla pelle delle mani – del già instabile terreno del loro rapporto, fatto di “tenerezza” e “struggimento”, ma anche di “sazietà” e “distacco”. Si tratta di un amore stanco, che va esaurendosi. Qualcosa di assolutamente casuale (una carpa pescata che non vuole saperne di morire) innesca un crescendo di eventi che sfocia in una forma traslata d’omicidio. L’insofferenza della donna per l’agonia della carpa, i suoi isterismi, o quelli che l’uomo considera tali, quando lui cerca d’abbreviare l’agonia del pesce schiacciandogli la testa con una pietra – spavento, curiosità, orrore –, lo irritano e ne scatenano la rabbia, spingendolo ad accanirsi sull’animale con furia incontenibile. La donna intuisce d’essere la vera vittima di quella violenza e fugge terrorizzata. A nulla valgono le proteste dell’uomo, il suo pentimento, la ritrovata calma, una nuova tenerezza: tutto fra loro sembra finito. Nessun turbamento dell’ordine prima, nessuna ricomposizione dopo.
Macchie è un racconto in sé perfetto, teso come la lenza da pesca del suo protagonista: niente, non una parola, non una virgola è superflua o fuori posto; insieme a L’amore a lei dovuto, è il miglior esempio dello stile variegato e flessibile di Domenico Vuoto, di come l’acutezza del suo sguardo sappia spingersi nel profondo. E come in esso sono ammirevoli perizia e precisione dei dialoghi, così ne L’amore a lei dovuto lo è l’uso sapiente e mimetico della lingua, per la tensione con la quale, alternando in soggettiva gli sguardi dei due simbiotici protagonisti (una donna e un galletto), conduce al drammatico finale.
Per finire, mi sento di accostare i migliori di questi racconti a Un giorno ideale per i pesci banana e Per Esmé: con amore e squallore di Salinger, e a Colline come elefanti bianchi e Mutamento al mare di Hemingway, per dire tra i moderni solo dei miei preferiti. È poi curiosa la coincidenza dei numeri: Nove racconti è il titolo del libro di Salinger, I quarantanove racconti quello del libro di Hemingway. E nove sono anche i racconti di Domenico Vuoto. Gli auguro di scriverne almeno altri quaranta altrettanto belli.
Domenico Vuoto, Variazioni sul noto sentimento, Palomar, Bari, 2010, pagg. 116, euro 13.
da "Macchie" in Variazioni sul noto sentimento
La stessa lenza che usava da ragazzino. Dieci metri di filo di nailon avvolto su un rocchetto, due ami e un piombo. Solo che allora si apriva un mare davanti a lui.
Le donzelle, i tordi che prendeva. Le prime guizzavano alla luce del sole nella pienezza dei colori che perdevano nell’agonia. Sua madre puliva i pesci nella veranda della cabina affittata per l’estate. Era esperta in questo genere di operazioni. Le mani muovevano un paio di forbici in un recipiente di alluminio ricolmo d’acqua: pochi minuti, e gli animali erano eviscerati: Li cucinava in brodetto. Espressamente per lui, faceva capire. Portava un costume color latte, di lana e intero. Sul ventre, in corrispondenza dell’ombelico, appariva un incavo, una fossetta che attirava il suo sguardo comunicandogli una strana complicata sensazione. Era bella ma non trovava pace, e io che la tormentavo, pensò. Chiuse gli occhi. Qualcosa di bruciante gli saliva alla gola. Li riaprì, fece scorrere lo sguardo lungo la riva.
Nessun altro, a parte loro due. Meglio, si disse.
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