Dalla raccolta poetica di Anna Elisa De Gregorio, Le rondini di Manet (Edizioni Polistampa, 2010) si liberano armonie di spazi, suoni, colori, gesti e la poesia sembra avere il tocco delicato della danza. Le liriche, disposte secondo un’originale architettura modulare, seguono schemi e simmetrie che, al di là delle partizioni, conferiscono alla raccolta continuità e intima coesione. L’Autrice nel ripercorrere memorie, cogliere segreti, svelare emozioni e stupori ha scelto tre diverse dimensioni: il ventaglio, l’imperfezione e la piccolezza, che associa a tre elementi: aria, acqua e terra.
Il primo tempo (Stanze dei ventagli) è quello legato alla concretezza di un oggetto, il ventaglio, dal latino ventulus, diminutivo di vento, a cui in qualche lirica è associato (“tonache / mosse dal vento in grazia di ventagli”). L’aprirsi e lo schiudersi del ventaglio è come un volo e il suo ondeggiare è volo planante. Il ventaglio, oggetto di seduzione, suggerisce anche remote antichità: i bassorilievi egizi, le cerimonie di palazzo; un oggetto che la storia ci consegna in un misto di profano e liturgico, capace forse di risvegliare con il sapiente gioco della seduzione poetica sconosciute divinità.
Il ventaglio, che ha corpo di vento e scheletro di stabilità, nelle liriche della De Gregorio è spesso legato all’ondeggiare dei capelli o alla luce che ne emana e, con ricchezza e plasticità espressiva, è colto in situazioni figurative e simboliche molto diverse: a volte rubate furtivamente alla quotidianità, altre volte riferite alla riflessione metalinguistica. Esso è diadema tra i capelli, ondeggiare della sabbia sollevata da infradito, ma anche libro che si spagina, disposizione dei suoni di una campana, tastiera di pianoforte che magicamente sfugge alla sua geometria e metafora dei pensieri che con consapevoli gesti seduttivi - gentili e crudeli insieme - si chiudono e si aprono, nascondendo o disvelando.
Se si pensa alla musica si può credere che l’Autrice declini immagini, condizioni e dimensioni in infinite e diverse apparenze, come nelle Variazioni Goldberg bachiane, scomponendo e ricomponendo la partitura. E ciò non solo in relazione al ritmo interno della raccolta e, quindi, alla disposizione delle liriche, ma anche all’armonia interna delle stesse; in alcune poesie si coglie, infatti, un movimento in due tempi, in cui il secondo riprende e dettaglia il fraseggio del primo, come in La piccolezza delle anime, dove la seconda voce rimodula la frase arpeggiata dalla prima o come ne I due imperfetti in cui il motivo annunciato nei primi versi si scioglie nella seconda parte in tonalità minore. Anche i tigli di Tempo variabile si popolano nella ripresa di memorie di balli, a variare la malinconia e l’inadeguatezza accennate nel primo tempo.
Dalla concretezza di un oggetto Anna Elisa De Gregorio trasvola nella seconda sezione (Le stanze imperfette) all’astrattezza dell’imperfezione. Imperfetto è ciò che non è compiuto, oppure ciò che non si compie perché legato al suo iterativo svolgersi nel tempo, o infine ciò che è negazione della perfezione. In qualche caso il prefisso in con valenza privativa è accostato a quello con valore inclusivo (“in-certo” e “in-contrare” in Notti imperfette).
Anche in questa sezione ritroviamo le variazioni di una partitura declinata in una ricca gamma di sfumate tonalità: l’imperfetta corporeità, le consapevolezze non definite nella percezione di antiche storie, come in Profili in San Martino di Lucca, le fragili ipotesi di un incontro per una bambina che affida all’acqua le sue barchette, il labile confine tra vivi e morti, nel tentativo dubbioso di stabilire un foscoliano nodo d’amorosi sensi. E il dubbio, sul limitare dell’essere, è spesso ribadito: già una vela di dubbio o altrove gli sposi straniti di stanchezza e di imprevisti dubbi. E la memoria è inesorabilmente imperfetta, perché le cose si perdono insieme con il peso delle ossa, anche se altrove l’imperfezione può essere appagante, come in Anniversario dimenticato, dove il segreto condiviso … già basta per dare un senso al nostro camminare.
Spetta alla terza sezione, Stanze minime, attraverso la condizione della piccolezza - da associare all’elemento terra - il compito di completare la partitura. Sono insetti, topi, nòccioli di nespole, rondini, violette che raccontano l’armoniosa e preziosa “piccolezza” di chi magari in fuga cerca / liberi spazi verso fine certa, indagando con consapevole saggezza gli abbandoni, gli incontri, le piccole salvezze che segnano la vita o, altrove, la ricorsività del tempo, il dolore che si fa voce a strati leggeri, i freddi rifugi, oppure le reti che allontanano, ma anche il pietoso liutaio che ripara le voci malate dei violini, accarezzandoli con il suo sguardo ormai serale.
E tutto sembra muoversi nell’atmosfera suggerita da Les hirondelles, il dipinto di Manet che dà il titolo alla raccolta. In primo piano due figure femminili, con le vesti agitate dal vento e scomposte da un pennello vibrante che ne esaspera i contrasti, in una dimensione sospesa e concentrata in cui pensieri e ricordi fluttuano nostalgici sullo sfondo di un cielo in cui si leggono, in un soffuso chiaroscuro, misteri e ombre. E su tutto le minuscole rondini che volano a svegliare il silenzio del mondo.
Merita una riflessione la partizione della raccolta in Stanze: luoghi e non-luoghi al tempo stesso, ma topoi ideali in cui e da cui osservare, indagare. Stanze arredate da oggetti che ci accompagnano nella quotidianità, da emozioni, da disperazioni o da frammenti che si recuperano nel fragile esercizio della memoria o dalle suggestioni che scaturiscono dalla visitazione di un dipinto o di una scultura. Luoghi della solitudine e della meditazione e, quindi, della creazione poetica, della rielaborazione e trasfigurazione del vissuto e del reale. La stanza è lo spazio non-spazio che consente alla De Gregorio di porsi in relazione con le foreste di simboli che ci attorniano, dove il vissuto e la concretezza del reale si collegano a un oltre, che può essere il rovescio del reale e la materia prima della poesia. Come in Corrispondeces di Baudelaire in cui La Nature est un temple où de vivants piliers / Laissent parfois sortir de confuses paroles; / L’homme y passe à travers des forêts de symboles / Qui l’observent avec des regards familiers, anche L’Autrice nel suo cammino sente parole insonore, riferendosi agli insetti che popolano la terra, sente i loro sospiri.
C’è nella raccolta una fisicità, spesso sottolineata e insistita, indagata da un occhio a volte surreale od onirico, altre volte fragile o ironico, disincantato o malinconico, lirico o spirituale. La De Gregorio si aggira, poeta-pellegrino, intenta a cogliere o ricordare profumi (del legno, lungo il vicolo, o quelli orientali, o del talco), a ricordare sapori (grandi insalate profumate di sedano) che sono memorie vive o eco silenziosa dell’esserci. Sono rumori, sensazioni captate dalla terra (calpestiamo le stesse foglie, quando novembre lavora sotterraneo custode della vita futura), quella terra umiliata delle città d’asfalto, oppure quella in cui l’erba corta … ogni anno torna nuova e le foglie appena nate trattengono nel loro colore il ricordo del tronco. Perché attraverso la fisicità passano emozioni e perché nelle strade che riescono agli erbosi fossi oppure nelle viuzze che seguono i ciglioni … talora ci si aspetta / di scoprire uno sbaglio di Natura, / il punto morto del mondo, l'anello che non tiene, come canta Eugenio Montale, o il marameo di un pennello stanco.
E i segni sono indagati come entrando in un quadro a coglierne atmosfere, a carpirne segreti, in una percezione sinestetica, anche nelle stanze più umili, quelle poste più in basso, dove vivono gli insetti, compiendo con la parola il prodigio di uno scalpello o di un pennello, ricercando la pittura anche nel fuori, nella terra tramata dagli insetti o nella quotidianità di una cucina, e tutto per spaginare insieme ai libri anche la vita.
I segni, oltre a essere inconsapevoli idee, ci insegnano, tramano per noi percorsi, come gli abbracci dei fiori, di fronte all’inevitabile alternarsi di luci e di ombre (Tempo variabile), e ciò anche rispetto a un futuro sognato, ma sconosciuto e che ci rende muti d’incertezza, oppure a partenze o a nuove presenze, o alla memoria di un’infanzia che scioglie le sue trecce o al burattinaio che non trama destini oscuri, ma è esso stesso barchetta in mano alla sorte.
La solidarietà è un approdo difficile quando il “sé” prigioniero si carica di muti interrogativi, di incertezze, quando l’imprevisto-imprevedibile torna a coglierci di sorpresa (un guizzo verdastro … nasce un’insicurezza che l’erba non conosce) e quando si scopre che in un volo di uccelli è già scritto un programma che manca nel viaggio del pellegrino-prigioniero o si leggono mute attese negli incontri che avvengono nel vento, quelli di due treni in corsa o di due donne in un viale (e lo sguardo afferrava quell’attimo sospeso: era nodo per sempre, ma poi la vicinanza è separata dal vento). Ma se il violino è malato, se da una mano distratta una pianta è gettata nel cassonetto può esserci un liutaio pietoso che guarisce o una mano che nell’attesa paziente di una foglia verde porta con sé ciò che altri ha gettato.
La poesia della De Gregorio è il volo di piccole rondini per svegliare il silenzio del mondo; è come la lucerna di Psiche che osa risvegliare l’amore e “accende” (ma temeraria!) il fondo oscuro dell’anima. E sarà il magico potere della parola poetica, una ragnatela gelata, appoggiata come una spilla a un rovo, a sprigionare tutta la sua luce con l’aiuto di un raggio minimo / di sole, richiamo d’esistenza / già languida, quasi perduta. Già, perché è proprio un raggio minimo di sole che può scuotere dal fondo cupo pensieri, ricordi e il poeta nel disagio del paesaggio / fa il mestiere del vento … togliendo la polvere alle cose.
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