Scriviamo tutti. Scrive Antonio Cassano, scrivono Platinette ed Emanuele Filiberto di Savoia, ha scritto un romanzo il macellaio del mio paese. Con una differenza: Cassano, Platinette ed Emanuele Filiberto hanno pubblicato con Case Editrici storiche, il macellaio (e io stesso, in passato), con un editore a pagamento, come fa ormai la maggioranza delle persone che scrivono. È il business del libro stampato a spese dell’autore, un fenomeno che molti addetti ai lavori non vedono di buon occhio perché, a loro parere, appiattirebbe e screditerebbe il mondo editoriale. Considerazione che non mi trova d’accordo: in primis, né i libri dei personaggi famosi prima citati, né gran parte di quelli degli sconosciuti che pubblicano a proprie spese, sono letteratura: sono semplicemente scrittura. Inoltre, anche la scrittura è una faccenda maledettamente seria, perché democratica, libera, interclassista, oltre che altamente terapeutica; la scrittura rimane uno dei luoghi migliori per riflettere, esprimersi, interpretare la realtà secondo i propri convincimenti. Chi si stupisce che tante persone scrivano (e pubblichino), e lo sottolinea con una certa disapprovazione, dimostra di non saper valutare dei dati di fatto incontrovertibili. Oggi tutti hanno un minimo di istruzione; ognuno è in grado di fissare in parole scritte le proprie emozioni; ed è comprensibile che si desideri vedere il proprio nome, e il titolo mirabolante che si è scelto, stampati sulla bella copertina di un libro.
Poi c’è la selezione, naturalmente; sono gli onnipotenti gruppi editoriali a fare la cernita fra le opere che compariranno sugli scaffali di una libreria e quelle destinate alla biblioteca del paese, all’edicola dell’amico, alla sede del Comitato di quartiere. Ma il confine così delineato ha (per fortuna) una certa labilità; è già successo diverse volte che libri nati in virtù della pubblicazione a pagamento abbiano trovato spontaneamente il favore del lettori e continuato la loro marcia sino alla grande editoria, finendo addirittura per scalare le classifiche dei bestseller.
Insomma, scriviamo tutti, ma non tutti siamo scrittori.
Tuttavia, questa proliferazione di narrativa, di poesia, di opere comiche e di fantasia, di resoconti di viaggi, di testi teatrali, costituisce la prova più evidente che la scrittura, al tempo di Internet, non è morta. E la letteratura? Abbiamo già detto che è cosa diversa; il paradosso (o quello che appare come un paradosso) è che proprio quando tutti si cimentano a scrivere, la letteratura, secondo molti critici, vivrebbe l’agonia conseguente alla più generale “morte dell’arte”. Da decenni si continua a dire che la letteratura vive una “condizione postuma”. La realtà, per fortuna, si incarica di smentire queste fosche previsioni: la letteratura, in tutto il mondo, continua a regalare capolavori, emozioni, sorprese, novità. La letteratura è viva perché costituisce un genere in continuo divenire, perché, come ha affermato Stanley Fish, è una categoria convenzionale che può ospitare virtualmente qualsiasi testo.
I profeti della catastrofe letteraria non salvano neppure lo scrittore. La difficoltà di essere creativi in un mondo dominato dalla tecnica, la preminenza del virtuale sul reale, il massiccio lavoro di editing sui testi, la crescente importanza attribuita al lettore: è questa la miscela che decreterebbe il depotenziamento dell’autore, anzi, la sua “scomparsa”.
Anche qui, non si può che dissentire: a dispetto della mercificazione dell’arte, dell’invadenza del lavoro di editing, di una certa omogeneizzazione dello stile, la letteratura non potrà mai prescindere dalla specificità dell’autore, dalla sua storia, la sua coscienza, insomma da tutto ciò che è vivo e personale, e dunque irriducibile a una generalizzazione, a un appiattimento verso il basso.
Riassumendo, non c’è nessuna morte dell’arte, nessuna condizione postuma della letteratura, nessuna “morte dell’autore”; o meglio nessuna morte letteraria dell’autore. Perché, e introduco la questione che costituisce il motivo principale di questo intervento, forse la morte dell’autore esiste, ma non nel senso in cui viene intesa nell’odierno dibattito letterario: perché è una morte biologica. Un fenomeno del nostro tempo sul quale nessuno, almeno così mi pare, sta riflettendo, e che riguarda gli autori, i protagonisti della letteratura italiana contemporanea. Persone certamente capaci di produrre opere notevoli, di teorizzare sulla funzione della scrittura, di recensire saggi e romanzi, di discutere su ogni aspetto della produzione umana chiamata letteratura. Insomma, in una parola, artisti fecondi. E sterili, incredibilmente sterili dinanzi alla vita. Quasi tutti single. Quasi tutti senza figli. Domando: è diventata una specie diversa, l’homo scrivens?
Nessuno ha decretato che l’amore-passione dell’artista immerso nel suo elemento non si possa fondere con l’amore-azione che fonda la famiglia, che non evade dal mondo-della-vita, che “crea l’altro come si crea un’opera” (Galimberti). E nessun futuro scrittore nasce con il difetto di fabbricazione di non poter fare dei figli; è dopo, quando si deve mantenere lo status di autore “arrivato” che avviene la mutazione, uno degli esempi più riusciti dell’artificiosità del nostro tempo, della divaricazione tra vitalità intellettuale e creatività umana.
Sì, la morte dell’autore c’è, ma non concerne la teoria del romanzo, non ha a che fare con la produzione letteraria. Riguarda la condizione di uomini che si condannano a rimanere, per certe relazioni sociali e affettive, al di sotto dell’esperienza di vita e di amore di persone che non sanno mettere insieme quattro parole. Entrati nei ranghi, i nostri scrittori diventano tristi, irritabili, litigiosi: è la paranoia del confronto, della pagina bianca, dei tempi di scrittura non rispettati di chi è preoccupato solo del proprio prestigio letterario. E non è questione di “sindrome del secondo libro”, perché non c’è intervista a un autore affermato in cui non emerga immediatamente la terribile ansia per quel che verrà, per il prossimo, atteso romanzo, che, ahimè, potrebbe deludere le aspettative nate dal successo del precedente; (non so se le titubanze di Piperno relative alla sua prossima pubblicazione costituiscano un’eccezione o la conferma di quanto ho appena detto). Il resto? Disinteresse, incertezza, confusione dinanzi a tutto ciò che è naturalmente patrimonio umano. Un modo di pensare che sembra aver spezzato lo scrittore-uomo, facendone uno specializzato, un tecnico in grado di produrre dei risultati, più o meno felice nella sua officina letteraria, ma lontano dalla corrente impetuosa della vita, dalla creatività che trascende il lavoro intellettuale.
Chi nega che per qualsiasi scrittore l’atto di scrivere sia assorbente rispetto ad altre manifestazioni della sua personalità? Citati, nella biografia letteraria di Kafka, sostiene che lo scrittore praghese era così magro perché la letteratura consumava tutte le sue energie. Molti fra i grandi della letteratura erano divorati, anche fisicamente, dal demone della scrittura. Ma ciò non impedì a Calvino, Svevo, Flaiano, Sciascia, Tozzi, Landolfi, Ungaretti, Saba, Quasimodo (e molti altri), di sposarsi, di avere dei figli, di vivere una vita coniugale magari travagliata, ma non limitata alla letteratura. Nessuna retorica della famiglia; oggi più che mai il matrimonio e i figli sono scelte piene di rischi. Ma domando: è possibile immaginare una società che non si basi sull’istituto della famiglia?
Certo, i contenuti della genitorialità non sono gli stessi di un tempo, ed è quasi superfluo precisare che molte altre categorie professionali mostrano di privilegiare il lavoro e la carriera rispetto alla triade ancestrale lavoro-matrimonio-figli. Ma si dà il caso che stiamo parlando di scrittori, di una categoria di intellettuali che dovrebbe essere, per cultura e forma mentis, più votata di altre alla riflessione critica, all’autoanalisi, alla messa in dubbio delle proprie “certezze”. Se gli intellettuali - come il grande Zygmunt Bauman non si stanca di sottolineare - devono aiutare gli individui a guardarsi dai “meccanismi celati sotto false spoglie”, a maggior ragione dovrebbero fare chiarezza sulle proprie scelte di vita.
Agli scrittori propongo quella che Foucault ha chiamato “un’ontologia critica di se stessi”, una riflessione sull’ethos che paiono scegliere, oggi, come principio-guida della loro esistenza. Una verità che funga da motrice per sviluppare non solo l’autorealizzazione intellettuale, ma tutte le proprie potenzialità, superando l’egoismo, il fanatismo, l’eristica, quell’interesse esclusivo per la battaglia delle parole che spesso restringe l’orizzonte esistenziale nel quale si agisce.
“Essere umani”, ha scritto Graham Greene, “è anche un dovere”. La scrittura ha sicuramente una funzione maieutica sulla persona e sulla società, ma credo che sia solo la milizia della vita a svelarci a noi stessi, a darci la misura della nostra umanità più autentica.
armando.santarelli@inwind.it
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