Traduzione dallo spagnolo di Martha Canfield e, per le prime tre poesie, di Silvia Favaretto
INTERVISTA A LUZ MARY GIRALDO di Martha Canfield
In un vecchio lavoro mio sulla poesia colombiana contemporanea, avevo definito due linee fondamentali rappresentate da Mario Rivero e da Giovanni Quessep. Cosa ne pensi e in quale di queste due linee ti riconosceresti?
Ci sono sicuramente due linee opposte nella lirica colombiana: da una parte, come nel caso di Mario Rivero – considerato dalla critica un poeta di rottura con grande incidenza sulle nuove generazioni – con una poesia spietata, tenera e incisiva, disinvolta, spoglia di retorica, quasi narrativa, e per questo considerata anche come “antipoetica”, si sostiene una visione e un tono molto vicini alla realtà, al quotidiano, alla birberia, alla rovina, agli esseri anonimi, popolari e marginali della città. Anche se lui è stato associato ai Nadaisti e alla Generazione senza nome, può anche essere visto come un poeta insulare, con certi punti in comuni con i nadaisti, in particolare lo spirito irriverente, e anche con la Generazione senza nome per via dell’apertura a nuove possibilità della parola poetica. Io vedo la sua poesia in linea con altri autori colombiani contemporanei quali Jotamario Arbeláez, Armando Romero, Darío Jaramillo Agudelo, María Mercedes Carranza. In tutti loro il disinganno è sdrammatizzato dall’ironia. L’altra linea invece, incarnata da Giovanni Quessep, illustra la tradizione lirica di antica radice colombiana, è quella che si rifà al ritmo dell’emozione e del sentimento, come lui stesso ha affermato diverse volte, “alla lirica dell’anima e dei sogni”. Poesia d’immagini molto visive, di metafore e concetti radicati nel romanticismo, il simbolismo e il modernismo, e nel suo caso specifico con una simbiosi con tradizioni poetiche orientali e classiche, con riferimenti sia alle Mille e una notte sia a Omar Khayyam, Omero, Shakespeare, Keats, Ungaretti, insomma poeti e testi che sostengono gli universali, il ritmo dell’universo e della creazione come sogno guidato, oltre l’immediato. In Colombia questo versante si lega all’intimismo di José Asunción Silva, di Aurelio Arturo, di Fernando Charry Lara. Riconosco nel mio lavoro poetico una maggiore vicinanza a quest’ultima tendenza per quanto riguarda l’intimismo, l’interesse per tematiche universali, il ricorso alla metafora, il piacere del bello, un certo disinganno…
Come vedi la Generazione senza Nome, chiamata anche Generazione di “Golpe de Dados”, per via della famosa rivista fondata da Mario Rivero? Credi che tu fai parte di quella generazione?
Dopo lo slancio ribelle del Nadaismo, che negli anni ‘60 aprì nuove possibilità alla coscienza critica e a un atteggiamento più ludico da parte dello scrittore (il che risultò definitivo per i narratori venuti fuori a partire dagli anni ‘70), e diversamente dai nadaisti, il gruppo di poeti chiamato in un primo momento “Generazione senza Nome” si sganciò da movimenti e proclami e volle restituire alla poesia il valore puramente lirico, che secondo loro era stato messo in crisi dai gesti estemporanei dei nadaisti. In diverse occasioni tornarono su valori più consoni alle concezioni tradizionali, canoniche, restando giustamente importanza agli atti spettacolari e provocatori dei loro predecessori. Così questa generazione, che acquista coscienza di se stessa a partire dagli anni ’70, è costituita da una serie giovani poeti molto diversi tra loro, legati solo dalla spinta generazionale e dal desiderio di costruire nuovi universi poetici. E propiziavano la creazione individuale, non di gruppo: Ecco perché le tendenze oscillavano tra il gusto classico di Quessep (inserito nella generazione in un secondo momento), la preferenza per la lingua colloquiale di Mario Rivero, i modelli spagnoli del ’27 seguiti da Jaime García Maffla, il surrealismo di Henry Luque Muñoz, il culteranismo e il concettismo di Álvaro Miranda, l’intimismo conversazionale di Darío Jaramillo Agudelo, il binomio critica-antipoesia tipico di Juan Gustavo Cobo Borda, l’intimismo riflessivo di Augusto Pinilla, la tendenza avanguardista legata alla riflessione intima di José Luis Díaz Granados, la linea ludico-intimista di Martha Canfield (che divenne anche una delle prime a studiare l’opera in progress di alcuni di questi poeti). In seguito il gruppo si allargò e, oltre ad assumere nuove denominazioni (Generación de Golpe de dados, Generación Desencantada), accolse nuovi protagonisti, come per esempio María Mercedes Carranza, Miguel Méndez Camacho, Juan Manuel Roca, Elkin Restrepo, José Manuel Arango, Harold Alvarado Tenorio, David Bonells, Raúl Gómez Jattin… Formata e riconosciuta ai tempi in cui io ancora frequentavo l’università, è l’ultima generazione poetica importante in Colombia. La sua eterogeneità ha generato, non soltanto il gusto della diversità di proposte, ma anche della singolarità di alcuni dei suoi rappresentanti. Anche se, in senso stretto, considero che erano otto, massimo dieci, i veri protagonisti del gruppo iniziale, dato però che con il tempo andò allargandosi, forse potrei considerarmi anche io parte di questo gruppo. E questo soprattutto per lo spirito dell’epoca, perché storicamente fa parte della rivoluzione del Maggio del ’68, per la costante ricerca, non ultimo per i legami generazionali e di amicizia che mi legano a buona parte di questi autori. Di fatto sono stata inserita in qualche antologia del gruppo.
Quali sono le voci femminili più importanti della poesia colombiana? Come ti senti tu in quel contesto?
Anche se in Colombia c’è molta ingiustizia letteraria nei confronti delle voci femminili in tutti i generi, va riconosciuto che fino a un certo punto sono poche quelle che hanno lasciato una vera traccia, cosa facilmente provata dalle antologie di diverso tipo ed epoca, nelle quali la grande percentuale di voci sono maschili. In ogni caso, della prima metà del secolo XX non si devono dimenticare figure eccezionali come Matilde Espinosa, Maruja Vieira, Meira Delmar, Dora Castellanos, Emilia Ayarza, considerate appartenenti a Piedra y Cielo o a Mito. Tutte loro si muovono tra la tradizione modernista e un ansia di innovazione più contemporanea. Della seconda metà del secolo scorso fino a oggi ci sono diverse voci interessanti, quali Olga Helena Mattei, María Mercedes Carranza, Renata Durán, Anabel Torres, Piedad Bonnett, Luz Helena Cordero, Mery Yolanda Sánchez, Eugenia Sánchez Nieto, Ángela García, e più recentemente Andrea Cote. Non è superfluo ricordare ancora Francisca Josefa del Castillo y Guevara, riscattata tra i protagonisti della letteratura coloniale, divenuta sempre di più oggetto di studio e di riconoscimento. Quanto a me, credo che la mia poesia sia più vicina a quella Piedad Bonnett, per via dell’intimismo domestico, l’immagine metaforica e, da un punto di vista più generale, e cioè pensando alla poesia contemporanea di ogni luogo, per via del tono disincantato, tipico della contemporaneità.
Nella tua poesia noto un’evoluzione da una fase più ludica e insieme intimista, dolce e femminile, verso una fase di maggiore disinganno, dove il dolore sembra essere l’istanza fondamentale. Sei d’accordo? Vedi questa evoluzione come qualcosa di personale o come uno sviluppo normale della peripezia esistenziale?
Mi pare giusta questa percezione della mia evoluzione poetica: femminile, ludica e intimista all’inizio e chiaramente disincantata nei miei libri più recenti, e ancora di più negli ultimi due, ancora inediti. Credo che ci sia senz’altro un’evoluzione personale ed esistenziale, ma credo anche che i colpi della vita, al di là del privato, siano in rapporto con la coscienza della crisi contemporanea e soprattutto con il dolore che vive il mio paese. Riconoscere la decadenza, l’esilio o lo spostamento forzato, la miseria, il crollo delle utopie, la costante incertezza, lascia tracce profonde nel quotidiano vivere (così si chiamerà l’antologia che sto preparando della mia opera: Diario vivir, cioè “Quotidiano vivere”). E anche se uno slogan nazionalista sostiene oggi che «Colombia è passione», e i mass media affermano che un’alta percentuale di colombiani intervistati sono convinti che la Colombia sia popolata dagli esseri più felici del mondo, senza considerare questi sogni o vaneggiamenti, è chiaro che c’è molto dolore e molto distacco, molta morte, molto “falso positivo”, molta creciente, o «fiume in piena», come dice la poesia Álvaro Mutis. Bisogna considerare che la poesia, come ogni atto creativo, è una forma di coscienza, espressione della conoscenza interiorizzata. Se lì si trova la storia personale, c’è anche la storia sociale, quella delle letture e delle affinità, ecco perché i temi e il linguaggio evolvono con l’autore. Nell’istante in cui si scrive è possibile fondere le varietà e le combinazioni di ciò che siamo e di ciò che siamo stati in solitudine e in comunità.
Chi riconosci come i tuoi maestri o le tue fonti?
Riconosco diverse persone come quelli che mi hanno “iniziato”: nella mia infanzia mio padre, che mi regalò libri e mi insegnò che possono essere una vera compagnia; nella mia adolescenza, un’insegnante di letteratura chiamata María Mercedes, che mi fece capire che la vita è proprio là; più tardi ho incontrato Martha Canfield e Giovanni Quessep, e con loro ho imparato ad ascoltare le intuizioni, a riconoscere la potenza vitale e il senso orfico e proteico della parola, l’essenziale. Ognuno mi aprì strade nuove. Martha quella del piacere della lettura e della acutezza critica, il gusto della comprensione e della spiegazione di un testo, di un’epoca, di un autore; Giovanni, quello dei rapporti tra le opere. Grazie a loro sono risalita a diverse fonti che con il tempo si sono diversificate: con Giovanni Le mille e una notte e i racconti fantastici, la Divina Commedia, autori italiani come Petrarca, Giuseppe Ungaretti, Quasimodo, Pavese, Montale, e poi Faulkner, Proust, Jorge Luis Borges. Con Martha altri classici: i greci e i romantici, la scoperta degli autori del boom latinoamericano e poeti come Huidobro e Vallejo, Lezama Lima, Mutis e Paz. Attualmente leggo Anna Akhmatova, Marina Cvetaeva, Wiesława Szymborska, Mahmud Darwish, Michael Ondaatje.
Quali sono i tuoi poeti ispanoamericani preferiti?
Tra le mie letture costanti ci sono: Blanca Varela, Eugenio Montejo, Juan Gelman, Tomás Segovia, Jorge Eduardo Eielson, Gonzalo Millán, Óscar Hann, Idea Vilariño, Ida Vitale, Márgara Russotto e María Inés Zaldívar. Ritorno regolarmente a César Vallejo.
Quali poeti italiani conosci meglio e apprezzi di più?
Dicevo prima che grazie a Giovanni Quessep ho conosciuto Ungaretti e continuo a leggerlo con ammirazione. E grazie a Martha Canfield sono entrata in contatto con poeti italiani contemporanei che ho letto e che m’interessano, tra cui Pasolini, Edoardo Sanguineti, Valerio Magrelli, Paolo Ruffilli, Alessio Brandolini, quasi tutti conosciuti di persona nei loro viaggi come poeti in Colombia. Ma mi interessano pure autori che a partire dalla saggistica e dalla narrativa rimandano a riflessioni sul pensiero e le forme contemporanee, come Gianni Vatimo, Umberto Eco, Italo Calvino, Claudio Magris, Tabucchi, Bufalino, Primo Levi, i quali in qualche modo sono riusciti a costituirsi, accanto ad autori di altri paesi e culture, in fonti di riflessione e di lettura. È chiaro che nella mia formazione letteraria c’è una grande affinità con gli scrittori italiani.
Tu ti sei dedicata a studiare specialmente la narrativa breve in Colombia. Hai scritto anche narrativa breve? Credi che ci debba essere una distanza tra il lavoro creativo e il lavoro critico?
Non ho scritto narrativa breve, anche se in passato ho scritto racconti per bambini pubblicati da varie riviste letterarie. Come studiosa ho cominciato facendo critica poetica e dopo sono passata allo studio della narrativa colombiana e latinoamericana contemporanea senza staccarmi dalla creazione poetica né dalla didattica. Recentemente sono ritornata alla critica poetica. E anche se per diverso tempo ho creduto che la ricerca, l’esercizio critico e la didattica potevano nuocere all’energia della creazione poetica, col passare del tempo ho capito che una cosa alimenta l’altra, se riesci a dare a ogni compito il proprio spazio e la propria dimensione. Le letture critiche, quelle di altre opere letterarie di finzione o di saggistica, tanto quanto quelle poetiche, possono aprire prospettive e nuove visioni del mondo, suscitare dialoghi e interscambi positivi. Il problema sta nel poter godere del lavoro critico o didattico avendo anche il tempo sufficiente per la propria creazione. Forse qui torna il famoso detto che non si può “servire due padroni”, perché qualcuno potrebbe rimanere trascurato, e nel caso della creazione (come nella vita amorosa), questo è abbastanza evidente.
canfieldmartha@gmail.com
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