ARIA PIENA
Strega o sibilla – o soltanto una pazza scatenata la donna toccata da folgoranti comunioni o telegrafiche folgorazioni: sola su una pista fatata che la isola non batte peste di strade appestate dal traffico che sale intorno e romba. L’umana frenesia per lei è muta: il fiume infernale delle macchine non la sfiora e neppure la tenta il tranquillo giardino della piazza con le sue panche di pietra, i cespugli d’oleandri. È l’Errante – la felice gaglioffa delle città, segnata e benedetta, segue soltanto i suoi segreti traffici – frenetica risponde alle divine comunicazioni che la tempestano... La sua solitaria ricchezza ha per me un familiare incanto: io so che sul suo capo santo s’intrecciano segnali, intralci si addensano, che non sono materia del diabolista o dell’analista: è l’antico carico del poeta; e lei è il capro che ha preso il mio posto la capra mattissima che gode ora della mia ricchezza – immersa in un bagno di fulgore, piscina di micidiali delizie. Sì, quest’aria piena, della follia – aria piena di segnali, di trame: di fili da snodare, di nodi da sciogliere – di suoni e voci risonanti in una rete fitta come un intrico di fili di fuoco per le dita fredde e istrione che li sfiorano e li allacciano li intrecciano e fanno di tutto il corpo e del cervello elettrizzato un fuso roteante infuocato
(3.IV.80)
SCOMPARSA
Che ne è del diavolo gobbo, ossuto e lussurioso, che se ne andava al galoppo i pomeriggi le sere con la sua inestinguibile sete e in tasca le diecimila lire da spendere in puttanerie? È disperso, chissà se è morto o solo nascosto, come un dio, se giorno per giorno nell’oblio affonda o se riapparirà: il sempre-giovane, nella sua eterna parte di studente, Peter Pan impiegatuccio dell’Inferno; o reso turpe da un’età che più non mente porterà il suo povero corpo di qua e di là replicando fino allo strazio e al ridicolo l’epica fatua di quando era una sventura su due gambe: leggero nonostante il fardello delle ripulse, della ripudiata sua vita trascinandosi dietro la salma volava, in una rapita infelicità, verso certe porticine misteriose della città... Qualcuno giura che il suo spettro svagato vaga ancora per il Corso o per il Tritone, lampeggiante riflesso di allampanato girandolone che trascorre di vetrina in vetrina: sarà stato uno spasmo dell’occhio, l’inganno d’un riverbero di luce di tarda mattina!
(18.V.82)
KOLB DETECF
Si è disteso nel sonno e al sogno ha chiesto di aprirgli un varco dalla vita alla morte? O a dispetto di sé, a sua insaputa si è sottratto a se stesso, con astuta mitezza si è preparato la fuga? Tra il parapetto e il lastrico: due duri termini di pietra dura: dall’uno all’altro ha fatto la carne caduca scivolare, volare – e nello spazio aperto, nel volo: lì si è aperto il passaggio, ha trovato il varco, lanciando la zavorra: la spoglia al suolo. Chissà se si è svegliato da quel suo chiuso in sé, cieco precipitare, preso dal sogno come da un oscuro gorgo che lo avvolgeva, risucchiava, sbucando all’aria, annaspando, obbligato testimone del suo volo mortale – prima che il palpitare vano delle ali immaginarie e il palpito del cuore si arrestasse contro il suolo! O è solo morto in sogno – morto al reale? O era un trucco il turista addormentato? sveglio e lucido invece nel proposito di non svegliarsi più, dissimulato con arresa astuzia, per un riposo azzardato, un mortale azzardo spacciando mosse felpate di fine partita giocate lì dove si spalanca l’abisso che farà della sfinita sostanza che fu Kolb Detecf una salma... Chi eri, che si può dire di te arrivato vagando a morire sulle rive di questo fiume infero? Turista tedesco – 43 anni – uno zaino, un cagnetto – – chi non pensa: un bagaglio da sbandato? – lasciati come segno del passaggio sulla terra; della fine del viaggio – la spoglia in fondo, oltre il parapetto.
(25.VII.88)
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