FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 15
luglio/settembre 2009

In cornice

 

DIPINGERE LA STANZA DEL POETA

di Nancy Watkins



La stanza del poeta
Che cosa fa un artista che attraverso una sua opera “entra”, per dire così, in una poesia? Interpreta, affianca, o ribadisce e doppia quella affinità e parità sancita da un’antica sapienza? Forse tutto questo in una volta. Considerato il contributo in fiori, figure, porte e finestre chiuse e aperte come per un trompe-l’œil, si potrebbe dire, o potrei dire per parte mia, un po’ scherzando, che si tratta di dipingere la stanza del poeta.
Ho conosciuto molti scrittori e accompagnato con dipinti e disegni alcuni dei loro libri: Teofilo Belz, Gianfranco Palmery, Lucio Persio, Giovanna Sicari, per fare qualche nome. La stanza del poeta è da tempo un mio tema. Un quadro nella mia prima personale si chiamava così, e la storia ha avuto un suo seguito speciale quando, nel 2007, ho fatto la mostra The Poet’s Room (La stanza del poeta) al Keats-Shelley Museum di Roma, nelle stanze dove Keats ha vissuto brevemente ed è morto. Come è stato scritto, richiamandosi al poemetto in prosa di Baudelaire, il poeta dimora in una “camera doppia”. Ho avuto il privilegio di cogliere di prima mano gli eventi della stanza di ogni giorno nell’atto di trasformarsi in quelli straordinari della poesia. L’accadimento quotidiano apparentemente più banale - Keats che esce di casa e si siede sotto un albero - eccolo prendere le ali e volare alto dietro il canto di un vicino usignolo. I poeti di oggi non sono da meno.

Arte e poesia
Arte e poesia sono già per loro natura in profonda relazione. Al meglio, vedo in entrambe come l’intersezione di due linee ideali: una della linee è verticale, punta in alto, punta a sollevare lo spirito, nutrirlo con visioni di bellezza. Per citare Schumann attraverso Kandiskij, il ruolo dell’arte è “mandare luce nel buio del cuore degli uomini”. L’altra linea è orizzontale, riguarda il nostro orizzonte, apre a forti esperienze, mettendo alla prova prospettive e limiti. Si possono provare orrore, vuoto, amore, gioia, pena, tutto a distanza, come protetti da un vetro. L’arte di ogni età ha guardato ad altre forme espressive: musica, poesia, danza... non per incorporarle bensì per instaurare un dialogo o una traduzione. La pittura deve certo restare pittura, ma può arricchirsi con il ritmo, la verità, e sì, il colore della poesia. Tutt’e due, poesia e arte, hanno a che fare con qualcosa che potremmo chiamare “trasformazione”, o metamorfosi, e anche “trasporto”. Di un soggetto mi interessa la natura duale e in particolare la possibilità di coglierlo, appunto, nel momento della sua trasformazione. La serie Entrance (Ingresso), presente nella mostra The Poet’s Room, ne tocca in modo cruciale la condizione e il momento.


This room is full of jewels as a mine,—
Dear valuable creatures, how ye shine!

The Cap and Bells
John Keats


Entrance IV
© 2006 Nancy Watkins
in copertina di
The Poet’s Room


La porta si apre e la prima tantalica vista di ciò che è oltre è rivelata. La porta crea separazione, l’ingresso è uno spazio iniziale, una connessione tra dentro e fuori, tra due mondi. Oltretutto in inglese la parola “entrance” è sia sostantivo che verbo. Il verbo “to entrance” ha in sé il senso di transportare, entrare in trance, essere portato oltre il quotidiano, e innalza il sostantivo “entrance” a tutt’altro livello.
Trasportare è nientemeno che il tanto spesso ignorato ma vero ruolo dell’arte e della poesia.
Nel suo memorabile saggio L’arte come mediatrice tra questo mondo e l’altro, uscito nel numero Nove-Dieci della rivista “Arsenale”, Hector Murena esamina il ruolo centrale e sacro cui l’arte era chiamata nell’antichità, ovvero quello di mediare tra due mondi, e come il suo ruolo sia cambiato attraverso i secoli, arrivando a una emarginazione che vorrebbe renderlo sempre più insignificante. Il paradosso è che quella melanconia e nostalgia irrimediabili, la “ferita sacra” di cui parla Murena e da cui scaturiscono poesia e arte sono presenti oggi più che mai. Ciò che è sempre più nascosto e negato è il possibile ruolo dell’arte a fare da tramite tra i due mondi. Se un poeta ottocentesco come Keats poteva scrivere “quando i portali incantati si spalancano... l’occhio del poeta può raggiungere quelle sale dorate”, per un artista del nostro tempo i “portali incantati” rappresentano un accesso, più o meno vietato, a quelle “sale dorate”.

Titoli
I miei titoli doppi: Specchio-finestra, Fiore-fiamma, ecc. Dualità, tutto è dualità... Nel caso di Specchio-finestra, come è simbolica una finestra che coincide con uno specchio! Non raffigurano forse finestre e specchi i due principali modi di conoscenza? La finestra è necessaria per aprire, affacciarsi sul mondo esterno, ma di pari importanza è guardare dentro di sé, in profondità, nello specchio. Ed ecco che un disegno specchio-finestra è finito in frontespizio a un libro davvero singolare: Sonetti domiciliari di Gianfranco Palmery, che sembrerebbe privilegiare in quella raccolta il momento “specchio”, ma a ben vedere quello specchio porta in sé una finestra aperta e richiusa con pena e fastidio.


Senza più fuoco dentro o fuori o dèmoni
alla caccia – ma nel vuoto, svuotato,
glaciato nello specchio: un esemplare
della specie intento a pulirsi i denti,
ripulire le mascelle da morte
scorie di morte: benevola o nera
la stella (o inesistente), se pure la pensa
sospesa sul suo capo, in canottiera
si specchia e si vede fatuo accidente
del caso – luce opaca di reliquia
ossea: né eroe né saggio né eremita
o eretico cruciato: uno delle schiere
della vita nei suoi gesti pazienti
e ostinati – e il suo ostinato mestiere.

Da Sonetti domiciliari
di Gianfranco Palmery
Il Labirinto, 1994


Specchio-finestra
© 1994 Nancy Watkins
nel frontespizio di
Sonetti domiciliari


Demoni custodi
In Ode on Indolence, Keats parla del suo “demone, Poesia” e crea un trio con Amore e Ambizione. Ho una serie di pastelli che si chiama Guardian Demons (Demoni custodi) e comprende tre lavori che ho unito ai versi di Keats. Va da sé che Demoni custodi echeggia “angeli custodi”. La parola “demone” è interessante per il suo cambiamento radicale nei secoli. Dalla radice greca daimon “dio, genio”, al più fosco latino daemonium, con il significato di “spirito malvagio minore”, fino al generico e ancora familiare uso nei secoli di “diavolo o spirito maligno” e l’altro uso moderno parallelo, trivializzato certo, ma per paradosso più vicino alla radice greca, se possiamo dire affettuosamente di un bambino “che demonio!” o perfino fare un complimento a un cuoco, riconoscendo che “è un demonio con i fornelli!”.
I poeti spesso richiamano le antiche radici e mi piace che l’originale greco riaffiori e si unisca in quella serie con l’energia che gli altri significati di “demone” danno a “custode”. Poi, pensiamo a Keats spinto dal suo amato demone Poesia!


A third time pass’d they by, and, passing, turn’d
    Each one the face a moment whiles to me;
Then faded, and to follow them I burn’d
    And ach’d for wings because I knew the three;
The first was a fair Maid, and Love her name;
    The second was Ambition, pale of cheek,
        And ever watchful with fatigued eye;
The last, whom I love more, the more of blame
    Is heap’d upon her, maiden most unmeek,—
        I knew to be my demon Poesy.

Ode on Indolence
John Keats


Guardian Demons III
© 1993 Nancy Watkins
nel retro di copertina di
The Poet’s Room


Demoni o fiori
Si tratta di accostamenti – coniugare il congeniale e il diverso. Quale fiore è giusto per un dato poeta? Mi è stata chiesta un’opera per i Sonetti dal portoghese di Elizabeth Barrett Browning. Quei sonetti sono di una intensità ustionante. Lei, non più giovane, ammalata di paterna reclusione, nei versi ci dice che pensava alla morte, e invece a sorpresa ha trovato l’amore. E che amore! Nell’Ottocento i corteggiamenti avevano un loro lento, minuto cerimoniale, fatto di lettere, bigliettini, ciocche di capelli... Questo poi era un amore nascosto, ostacolato, che avrebbe richiesto un radicale cambiamento di vita senza possibilità di ritorno. Ne è venuto fuori un fiammeggiante fiore-fuoco.
Quando è stata la volta delle poesie notturne e luminose di Shelley, stellari, e insieme folte di fiori e foglie, avvicinarle ha portato con sé dei disegni che sono a un tempo fiore e stella. Keats invece, che nella sua breve vita ha lasciato una voce indelebile, amava fiori semplici e mi ricordava quei fiori che mettono tutta la loro linfa in una grande melanconica campana, splendida, anche dopo l’inevitabile lacerazione che subisce al primo soffio di vento.


Ma l’amore, il semplice amore, è bello,
degno d’essere accolto. Bruci tempio
o lino, il fuoco è vivo; fiammeggia
da cedro o erbacce uguale luce. È fuoco
l’amore. E quando a forza dico ti amo –
credimi!, ti amo – nel tuo sguardo resto
trasfigurata, anzi in gloria, cosciente
dei nuovi raggi che dal mio viso partono
verso il tuo. Niente è basso in amore,
pur amando l’infimo. Le più misere
creature che lo amano, Dio che lo amino
accetta. E ciò che sento nell’infima sostanza
di ciò che sono splende e mostra come
l’opera d’Amore innalzi quella di Natura.

da Sonetti dal portoghese
di Elizabeth Barrett Browning
Traduzione di Francesco Dalessandro
Il Labirinto, 2000


Fire Flower
© 2000 Nancy Watkins
in copertina di
Sonetti dal portoghese


Città
Due città sono nel mio lavoro, senza esserci: evanescenti, con qualche improvviso tratto solido, duro. Chicago, la mia città natale, è una città unica, “forte come un tuono, o la voce del grande Manitou” (anni fa ho incontrato questo delizioso, se non altro, significato del nome), un concentrato di energia pura: alte forme geometriche che si erigono e snodano in punte e picchi, squadrate dolomiti che si specchiano nell’immenso lago Michigan.
Roma invece è una stella, con un suo centro magnetico radiante, un astro carico di un passato millenario, epoche e stili accostati e mischiati con misteriosa sapienza illusionistica: insomma, un gran teatro delle forme. Avevo pensato e guardavo alla mia serie di archi come a una immagine di Chicago finché un amico pittore non ha riso dicendo: “America? Questi sono ponti e archi romani!”. E infatti quando ho letto le belle poesie dolenti e visionarie di Giovanna Sicari in Roma della vigilia, ho ripreso proprio da quei temi i disegni per accompagnarle.


Roma dell’eterna vigilia spariva
nella sua foto di festa, spariva per tutto ciò che
non mi riguardava, per la sua macchina goliardica e oscena
per quella luce portentosa dell’adolescenza
per quella luce dei fari e dei piccioni
per quegli infiniti mesi di maggio
di tutti i tempi, di tutti i tempi
con la stessa febbre che solo qui
dà quella brama non per me protesa.

da Roma della vigilia
di Giovanna Sicari
Il Labirinto, 1999


Archi
© 1999 Nancy Watkins
in copertina di
Roma della vigilia


Abitare insieme il presente
Un artista di oggi, un artista vivente, che fa disegni per l’opera di un poeta contemporaneo, o anche di un poeta storico tradotto da un contemporaneo, aggiunge di per sé qualcosa di nuovo, dà al libro una attualità parallela, ne ribadisce la contemporaneità. Così come un disegno o un dipinto di un artista odierno posto in copertina è come se dichiarasse che quel libro è pienamente nel suo tempo, e lo scrittore e l’artista abitano insieme il presente.
Una bella prova e una larga conferma di ciò l’ha offerta recentemente la mostra Arte in copertina, con un ampio sguardo sulla produzione della casa editrice Il Labirinto, che segue da venticinque anni questa linea. Accanto ai rispettivi libri, nelle teche della Biblioteca Vallicelliana, dipinti e disegni originali di tredici artisti, inclusa chi scrive, hanno in qualche modo rievocato la genesi di quegli incontri e accostamenti.


Arte in copertina

Dipinti e disegni fatti espressamente
da tredici artisti contemporanei
per i libri delle Edizioni Il Labirinto

Salone Borromini,
Biblioteca Vallicelliana, Roma
Giugno 2009



ncywatkins@gmail.com