Visto il tema di questo numero, la consueta “rubrica per le orecchie” si trasforma in una rubrica per gli occhi. Ecco dieci copertine rock che considero davvero da incorniciare.
«Daydream Nation», Sonic Youth (Enigma, 1988)
La foto è bella di per sé, ma ciò che mi ha sempre affascinato è il contrasto tra esterno e interno. Dentro ci sono dodici canzoni considerate unanimemente come il manifesto del noise-rock (il disco, tra l’altro, è stato recentemente accolto nella National Registry of Music, la “discoteca” del Congresso, a sancirne il valore storico-musicale). Fuori c’è la fragile fiamma di questa candela in una stanza grigia. Quasi a dire che scavando gli strati di rumore, andando oltre le rasoiate del suono, dentro troveremo un cuore indifeso ma luminoso.
«Hate Your Friends», Lemonheads (Taang!, 1987)
Il disco d’esordio della band di Evan Dando (che sarebbe poi diventata celebre per una cover abbastanza riuscita di «Mrs. Robinson» di Simon & Garfunkel) può vantare una copertina davvero sorprendente. Il bianco e nero sgranato della foto, l’immagine e il titolo che si potenziano a vicenda, questi due bambini tranquilli come se tra le mani non avessero armi vere ma giocattoli. Davvero una grande immagine rock. E pensare che il disco non l’ho mai ascoltato.
«Closer», Joy Division (Factory, 1980)
Quando si dice andare dritti al cuore delle cose. Scegliere una tomba per un disco di musica dark. Nella fattispecie la tomba della famiglia Appiani del Cimitero Monumentale di Staglieno, Genova. Il bianco e nero perfettamente contrastati, il titolo lapidario al centro. Sia lode a Peter Saville, il grafico della Factory, che ha avuto l’idea. E sia lode ai Joy Division per aver realizzato, mi sbilancio, uno dei dischi più belli di tutti i tempi.
«The Queen Is Dead», The Smiths (Rough Trade, 1986)
Come molte copertine degli Smiths, anche quella del loro album di maggior successo è costituita da un intervento cromatico sul fotogramma di un film. Qui c’è un giovane Alain Delon che impersona il disertore Thomas Vlassenroot nella pellicola «L'Insoumis» diretta da Alain Cavalier nel 1964. Ma non è il noir che ci interessa, quanto il green. La virata a verde della foto ricorda il muschio che cresce sulle mura dei manieri britannici. Il fucsia del titolo contrasta in modo ribelle. L’insieme rappresenta perfettamente i contenuti del disco.
«In The Court Of The Crimson King», King Crimson (EG, 1969)
In genere le copertine “dipinte” non mi piacciono, ma questa fa eccezione. L’autore del munchiano protagonista del dipinto è Barry Godber. Godber morì pochi mesi dopo l’uscita del disco e la leggenda vuole che questa sia l’unica sua opera pittorica. Quello che mi piace è “l’inquadratura”, il primissimo piano. L’uomo, così, appare terrorizzato da qualcosa che è al di fuori del campo delimitato dal quadrato della copertina. L’originale è appeso a casa di Robert Fripp, il cerebrale chitarrista-leader del gruppo.
«Animals», Pink Floyd (Harvest/EMI, 1977)
Parafrasando George Orwell: tutte le copertine dei Pink Floyd sono egualmente belle, ma alcune sono più egualmente belle delle altre. E così, per quanto possa amare la mucca di Atom Heart Mother o l’inquietante rendez-vous raffigurato al centro di Wish You Were Here, per dirne due, alla fine, se proprio devo, scelgo il maiale aerostatico che volteggia tra le ciminiere di Battersea sotto una straniante luce futurista. E ricordo: non è un disegno, ma una foto. Il maiale-mongolfiera fu davvero fatto volare sopra la centrale abbandonata sulla rive del Tamigi.
«Making Movies», Dire Straits (Vertigo, 1980)
La prima volta che ho visto la copertina di questo album della band di Mark Knopfler ho pensato a uno scherzo. O a un errore. Pensavo che l’agenzia grafica non avesse fatto in tempo a consegnare alla tipografia l’immagine di copertina. Oggi, a distanza di anni, devo dire che la scelta estremamente minimal non mi dispiace. In fondo questa è una di quelle copertine che non hanno perso nulla passando dai trenta centimetri del vinile ai dieci del CD.
«Boys For Pele», Tori Amos (Atlantic, 1996)
Le copertine della soave “roscia” del rock non sono mai banali. Questa in particolare ha qualcosa in più. Sarà il contrasto tra il fucile da caccia imbracciato con sicurezza e l’innocenza del volto. Il pennuto impallinato che pende sul lato sinistro e il fango che lorda i polpacci della bella aggiungono un tocco di veracità a un’immagine decisamente d’effetto. All'interno del booklet c’è di più: una foto di Tori Amos che allatta un maialino.
«Green», R.E.M. (Warner Bros., 1988)
Il disco si chiama “Green” e la copertina è arancione. Già questo mi piace. Poi i caratteri tipografici ingiustificatamente grandi che toccano i confini dell’immagine. Nelle copertine dei R.E.M. c’è sempre qualcosa che non va, qualche enigma nascosto. In questa, se si guardano in controluce le grandi “R” della copertina, si scorge un “4” in trasparenza. Nell’elenco delle canzoni, sull’etichetta del vinile, il numero “4” è sostituito da una “R”. Perché? Forse un giro su Google mi darebbe la risposta, ma preferisco tenermi la curiosità.
«Statues», Moloko (Echo, 2002)
Potrei sbagliare ma mi sembra che Roisin Murphy, la cantante del duo anglo-irlandese di pop elettronico, appaia spesso con i capelli sconvolti sulle copertine dei dischi. Qui però supera se stessa, uscendo dalle acque, novella Venere, con maglietta bagnata e due pinte di lager tra le mani. Dall’espressione del volto si direbbe che più che offrircele ce le voglia tirare addosso.
federico.platania@samuelbeckett.it
|