FILI D'AQUILONE rivista d'immagini, idee e Poesia |
Numero 14 aprile/giugno 2009 Infanti |
CHARLES SIMIC, IL CACCIATORE DI IMMAGINI di Alessio Brandolini |
Nato a Belgrado nel 1938 Charles Simic si trasferisce con la famiglia, nel 1953, negli Stati Uniti, dove tutt’ora vive. È uno dei maggiori poeti viventi di lingua inglese: eclettico e ironico, curiosissimo e giocoso. Il cacciatore di immagini (con il sottotiolo: L’arte di Joseph Cornell) è apparso la prima volta nel 1992 ed è stato pubblicato in Italia, dalla casa editrice Adelphi, nel 2005.
Nel 1929 la famiglia Cornell acquista una casetta in legno a Bayside: nel seminterrato di quella casa, dove vivrà fino alla morte, Cornell crea, giorno dopo giorno, l’intera sua opera. Nel 1932 espone per la prima volta i suoi lavori in una mostra d’arte surrealista: sono collage bidimensionali che lui chiama montage. In seguito Cornell prova a usare vari tipi di scatole, poi comincia a costruirsele con le proprie mani. Incontra Marcel Duchamp ed espone alla mostra Arte fantastica, Dada, Surrealismo, allestita presso il Museo d’Arte Moderna di New York. Lavora come disegnatore di tessuti, collabora a “Vogue” e altre riviste. Durante la seconda guerra mondiale incontra molti artisti e scrittori francesi in esilio a New York. Max Ernst e Sebastian Matta visitano il suo studio. Dopo la guerra le sue opere vengono esposte in diverse mostre e Cornell ingaggia assistenti per lavorare su più progetti. Pur conoscendo tutti nel mondo dell’arte continua la sua vita appartata e non esce mai dalla sua città. Dopo la morte della madre e del fratello invalido vivrà da solo nella vecchia casa di legno, dove muore per un attacco cardiaco il 20 dicembre 1972. Pur rallentando, non aveva mai smesso il suo lavoro, quel “tentativo disperato di dare forma alle ossessioni”. Il libro di Simic è diviso in tre parti. La prima s’intitola “Medici slot machine” ed esplora la vita di Cornell, quella sua attenzione alle cose più strane o apparentemente insignificanti: un piccione che becca una carta; Miss Delphine che colleziona forcelle di oca, tacchino e pollo; un vagabondo; lo stesso Cornell: “un solitario, un eccentrico che ammirava gli scritti dei poeti francesi, romantici e simbolisti. Il suo eroe era Gérard de Nerval, celebre perché passeggiava per le strade di Parigi con un’aragosta viva al guinzaglio”; le prime “scatole” di Cornell; un racconto di Poe (“L’uomo della folla”) per introdurre il concetto della città: “luogo dove gli opposti più improbabili si incontrano, il luogo dove le nostre separate intuizioni per un attimo convergono. Il mito di Teseo, del Minotauro, di Arianna e del suo filo qui continua. La città è un labirinto di analogie, una foresta simbolista di corrispondenze. Come l’Uomo Ragno dei fumetti, il voyer solitario si muove lungo una rete di forze occulte”; l’incastro di cose diverse che, insieme, formano un’opera d’arte, oggetti che si trovano in una città tutta da scoprire, nella “terra incognita” piena di detriti provenienti dal Vecchio Mondo, in mostra nei piccoli mercati dei rigattieri, esposti sulle bancarelle: l’arte non si crea, si trova.
Scatole, quindi, come giochi, dove il giocattolo è un oggetto poetico, un mondo dove è possibile dare libero sfogo alla fantasia. E il gioco è sempre strettamente relazionato al sacro. Il libro si chiude con la terza parte, “Hotel immaginari”, dove i pezzi di Simic parlano dei film realizzati da Cornell, giuntando spezzoni di vecchie pellicole, con frammenti di dialogo e immagini misteriose, senza il benché minimo accenno di trama. Collage filmici dove gli attori parlano ma non si sa a chi, dove le scene s’interrompono continuamente. Quel che conta è l’immagine, l’immagine che si fa scatola che contiene molte cose, anche le stanze segrete del nostro inconscio. E ogni cosa, ogni stanza, è correlata in qualche modo ad altri oggetti, ad altre stanze. Cornell come la Dickinson: entrambi inconoscibili e con biografie che non spiegano nulla: “sono senza precedenti, eccentrici, originali, e assolutamente americani. Se le poesie della Dickinson sono come le scatole di Cornell, un luogo dove si custodiscono i segreti, le sue scatole sono come le sue poesie, un luogo dove le cose improbabili si incontrano. Entrambi si preoccupano della salvezza dell’anima. Viaggiatori ed esploratori delle loro personali solitudini, sanno renderle vaste, cosmiche. Sono artisti religiosi in un mondo in cui la vecchia metafisica e l’estetica sono state cancellate. Leggere le poesie della Dickinson, guardare le scatole di Cornell significa pensare in modo nuovo alla letteratura e all’arte americana”.
Charles Simic, Il cacciatore di immagini - L’arte di Joseph Cornell, traduzione di Arturo Cattaneo, Adelphi, Milano 2005, pagg. 124, euro 10 |
CHARLES SIMIC da Il cacciatore di immagini (Adelphi, 2005 - traduzione dall’inglese di Arturo Cattaneo)
SIGARI STRETTI FRA I DENTI
Ho letto che Goethe, Hans Christian Andersen e Lewis Carroll dirigevano i loro teatri in miniatura. Devono esserci stati altri teatrini d questo tipo nel mondo. Studiamo la storia e la letteratura di un’epoca, ma non sappiamo nulla di quei drammi che venivano rappresentati per un pubblico fatto di un solo spettatore.
O MEMORIA EVANESCENTE!
Nella mia infanzia i negozi di giocattoli vendevano teatri di cartone in miniatura. Lo scenario, gli attori, i musicisti e il resto degli arredi scenici erano stampati su fogli di carta colorata venduti a parte. Si dovevano ritagliare le figure, incollarle sul cartone, e poi farle muovere sul palcoscenico attraverso le scanalature praticate sul pavimento. C’era anche un sipario rosso che si apriva e chiudeva. Non ho mai posseduto uno di quei teatrini, ma li ho visti montati in casa d’altri. Avevo due vecchie zie eccentriche a Belgrado, due zitelle, che io e mia madre ogni tanto andavamo a trovare. Vivevano in una piccola casa stipata di arredi. C’erano talmente tanti mobili – eredità di generazioni di parenti morti – che ogni stanza sembrava un labirinto. Ci si doveva schiacciare tra giganteschi armadi, sentendosi ripetere di fare attenzione agli svariati ninnoli che raccoglievano polvere su ripiani e tavoli di ogni forma e dimensione. Una volta, perso in quel labirinto, mi ritrovai di fronte a un teatrino di carta perfettamente montato. Non ricordo se mi fu detto di chi era. Di solito ci giocavano i bambini, mentre le bambine avevano la casa delle bambole, per cui pensai subito che fosse il teatrino di qualche bambino morto. La bella Marina, la più giovane delle due zie, mi mostrò come far muovere le figure. Marina era matta. Oggi lo so e anche allora lo sospettavo. In ogni caso, si portò un dito alle labbra facendomi segno di star zitto. La casa era già tanto silenziosa che si sarebbe sentito cadere uno spillo mentre muovevo le figure sotto il suo sguardo attento. Ricordo i costumi dai colori brillanti e gli sguardi fissi delle bambole. Quel giorno il fondale era un bosco cupo, quel genere di bosco di cui si legge nelle fiabe. In alto c’era la luna nascosta per metà dalle nuvole. Gli attori di carta sorridevano tutti allo stesso modo. Sulla via del ritorno mia madre mi disse che le zie avevano scatole piene di vecchie bambole. Sapevo che anche loro sorridevano. Il mio teatrino non veniva da un negozio. Era fatto di pochi soldatini di argilla mezzi rotti e di un assortimento di piccoli blocchi di legno, turaccioli e altri oggetti indefiniti che nella mia immaginazione avevano acquistato proprietà antropomorfiche. Il palcoscenico era sotto il tavolo. Le mie figurine mettevano in scena quella che si potrebbe definire una interminabile saga del selvaggio West. C’era un eroe, il suo migliore amico, il cattivo, gli Indiani, ma non mi ricordo di un’eroina. Avevo sette o otto anni. La guerra era appena finita. Non c’era molto da fare se non dare libero sfogo all’immaginazione.
QUESTI SONO I POETI ADDETTI ALLA MANUTENZIONE DEGLI OROLOGI DEI CAMPANILI
Molti hanno già meditato sulla relazione esistente tra il gioco e il sacro. La luce delle fantasticherie, si noti, è fioca. La semioscurità delle vecchie chiese e dei vecchi film è quella dei sogni. I nostri ricordi sono immagini divine perché la memoria non è soggetta alle leggi ordinarie del tempo e dello spazio. Quello che facciamo, fantasticando, è creare divinità. Immagini circondate dall’ombra e dal silenzio. Il silenzio è la vasta chiesta cosmica in cu siamo sempre soli. Il silenzio è l’unica lingua parlata da Dio. |
CHARLES SIMIC
In Italia sono stati pubblicati i seguenti volumi:
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