FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia
Numero 14
aprile/giugno 2009

Infanti

CHARLES SIMIC, IL CACCIATORE DI IMMAGINI

di Alessio Brandolini


Nato a Belgrado nel 1938 Charles Simic si trasferisce con la famiglia, nel 1953, negli Stati Uniti, dove tutt’ora vive. È uno dei maggiori poeti viventi di lingua inglese: eclettico e ironico, curiosissimo e giocoso. Il cacciatore di immagini (con il sottotiolo: L’arte di Joseph Cornell) è apparso la prima volta nel 1992 ed è stato pubblicato in Italia, dalla casa editrice Adelphi, nel 2005.
Come lo stesso autore spiega nella Prefazione e nella Cronologia il libro - di brevi prose e un paio di poesie, una delle quali è una sua traduzione - vuole essere un omaggio all’artistica americano Joseph Cornell (1903-1972), del quale ci aveva parlato (nel sesto numero di questa rivista) Fabio Pedone nella seconda parte del suo pezzo su Terre desolate.
Nel libro ci sono otto riproduzioni degli strani lavori artistici di Cornell e nei testi s’incontrano varie citazioni tratte dai suoi diari o appunti. I due artisti (Simic e Cornell) potrebbero essersi incontrati a New York, non solo perché entrambi ci vivevano, ma perché era loro abitudine vagabondare per le stesse strade di Manhattan negli anni 1958-1970. Scrive Simic:

Non ricordo quando vidi per la prima volta le sue creazioni, e neppure dove. A quell’epoca mi interessavo di surrealismo (...). Cominciai a pensare che anch’io avrei dovuto confrontarmi con qualche cosa di simile, ma per parecchio tempo non ebbi un’idea chiara di quello che Cornell stava veramente facendo. Come spesso accade, fu solo dopo la sua morte che iniziai a riflettere seriamente sulla sua arte. (...) Per parecchio tempo ho desiderato avvicinarmi al suo metodo, fare poesia con frammenti di linguaggio. E volevo anche capirlo. Cornell – la cosa mi è diventata via via più evidente – è un artista americano degno d’imitazione. Quello che alla fine sono riuscito a fare è rendergli omaggio con una serie di brevi testi nello spirito dei poeti che amava.


Joseph Cornell
Joseph Cornell nasce nel 1903 a Nyack, da una famiglia benestante di origine olandese, appassionata d’arte, ma quando il padre muore di leucemia nel 1917 la situazione economica precipita rapidamente. Nel 1919 la famiglia si trasferisce a New York e Joseph, il più grande di quattro fratelli, di cui uno disabile, inizia a lavorare presso una fabbrica di tessuti. Dal 1921 al 1931 fa il venditore porta a porta e girando a piedi la città inizia a collezionare libri, dischi, fotografie, stampe, cimeli teatrali, vecchi film...
Nel 1929 la famiglia Cornell acquista una casetta in legno a Bayside: nel seminterrato di quella casa, dove vivrà fino alla morte, Cornell crea, giorno dopo giorno, l’intera sua opera.
Nel 1932 espone per la prima volta i suoi lavori in una mostra d’arte surrealista: sono collage bidimensionali che lui chiama montage. In seguito Cornell prova a usare vari tipi di scatole, poi comincia a costruirsele con le proprie mani. Incontra Marcel Duchamp ed espone alla mostra Arte fantastica, Dada, Surrealismo, allestita presso il Museo d’Arte Moderna di New York. Lavora come disegnatore di tessuti, collabora a “Vogue” e altre riviste. Durante la seconda guerra mondiale incontra molti artisti e scrittori francesi in esilio a New York. Max Ernst e Sebastian Matta visitano il suo studio.
Dopo la guerra le sue opere vengono esposte in diverse mostre e Cornell ingaggia assistenti per lavorare su più progetti. Pur conoscendo tutti nel mondo dell’arte continua la sua vita appartata e non esce mai dalla sua città. Dopo la morte della madre e del fratello invalido vivrà da solo nella vecchia casa di legno, dove muore per un attacco cardiaco il 20 dicembre 1972. Pur rallentando, non aveva mai smesso il suo lavoro, quel “tentativo disperato di dare forma alle ossessioni”.

Il libro di Simic è diviso in tre parti. La prima s’intitola “Medici slot machine” ed esplora la vita di Cornell, quella sua attenzione alle cose più strane o apparentemente insignificanti: un piccione che becca una carta; Miss Delphine che colleziona forcelle di oca, tacchino e pollo; un vagabondo; lo stesso Cornell: “un solitario, un eccentrico che ammirava gli scritti dei poeti francesi, romantici e simbolisti. Il suo eroe era Gérard de Nerval, celebre perché passeggiava per le strade di Parigi con un’aragosta viva al guinzaglio”; le prime “scatole” di Cornell; un racconto di Poe (“L’uomo della folla”) per introdurre il concetto della città: “luogo dove gli opposti più improbabili si incontrano, il luogo dove le nostre separate intuizioni per un attimo convergono. Il mito di Teseo, del Minotauro, di Arianna e del suo filo qui continua. La città è un labirinto di analogie, una foresta simbolista di corrispondenze. Come l’Uomo Ragno dei fumetti, il voyer solitario si muove lungo una rete di forze occulte”; l’incastro di cose diverse che, insieme, formano un’opera d’arte, oggetti che si trovano in una città tutta da scoprire, nella “terra incognita” piena di detriti provenienti dal Vecchio Mondo, in mostra nei piccoli mercati dei rigattieri, esposti sulle bancarelle: l’arte non si crea, si trova.
Waste Land di Eliot è un collage, e altrettanto i Cantos di Pound. La tecnica del collage, l’arte di assemblare frammenti di immagini preesistenti in modo tale da far nascere una nuova immagine, è la più importante innovazione artistica di questo secolo. Cose rinvenute, creazioni casuali, confezioni (articoli prodotti in serie che vengono promossi a oggetti d’arte) aboliscono la separazione tra arte e vita. La banalità è miracolosa se vista nel modo giusto, se riconosciuta”; i frammenti, quindi, che possono formare un nuovo mondo: il modernismo ha abolito le gerarchie della bellezza e “ha consentito il combinarsi degli stili e l’aprirsi all’esperienza quotidiana”, così qualsiasi cosa ha sempre un duplice aspetto, l’uno corrente e l’altro spettrale o metafisico (De Chirico); le “scatole” che diventano “slot machine” e creano “zone magiche”.
Nell’ultimo brano della prima sezione Simic si chiede se Cornell era cosciente di quello che veniva realizzando giorno dopo giorno.
Non è facile saperlo.
“Dada e surrealismo gli fornirono un precedente e la libertà. Penso soprattutto alla sorprendente scoperta che la poesia lirica può nascere da operazioni casuali. Anche Cornell credeva nella stessa magia, e aveva ragione! Tutta l’arte è un’operazione magica o, se si preferisce, una preghiera per una nuova immagine. (...) La città è un’immensa macchina di immagini. Una slot machine per i solitari”.


Una "scatola" di Joseph Cornell
Nella seconda sezione del libro, “La piccola scatola”, Simic entra nel mondo di Cornell, nelle sue “scatole magiche”, le descrive poeticamente: Scatola di fiammiferi con mosca, scatole come giochi e piccoli teatrini, mondi in miniatura, “miscugli di stregone”, stanze come scacchiere, scatole oniriche, d’incantesimi e d’illusioni, scatole che racchiudono (o ricordano) l’infanzia: “non sorprende che dalle scatole volti infantili ci fissino fino a confonderci, e che abbiano l’aria sognante dei bambini intenti al gioco. La loro è una solitudine felice di un tempo senza orologi dove i bambini sono i signori del mondo. Le scatole di Cornell sono reliquari dei giorni in cui regnava l’immaginazione. C’invitano, come è ovvio, a rivedere i sogni della fanciullezza”.
Scatole, quindi, come giochi, dove il giocattolo è un oggetto poetico, un mondo dove è possibile dare libero sfogo alla fantasia. E il gioco è sempre strettamente relazionato al sacro.
Il libro si chiude con la terza parte, “Hotel immaginari”, dove i pezzi di Simic parlano dei film realizzati da Cornell, giuntando spezzoni di vecchie pellicole, con frammenti di dialogo e immagini misteriose, senza il benché minimo accenno di trama. Collage filmici dove gli attori parlano ma non si sa a chi, dove le scene s’interrompono continuamente. Quel che conta è l’immagine, l’immagine che si fa scatola che contiene molte cose, anche le stanze segrete del nostro inconscio. E ogni cosa, ogni stanza, è correlata in qualche modo ad altri oggetti, ad altre stanze.

Cornell come la Dickinson: entrambi inconoscibili e con biografie che non spiegano nulla: “sono senza precedenti, eccentrici, originali, e assolutamente americani. Se le poesie della Dickinson sono come le scatole di Cornell, un luogo dove si custodiscono i segreti, le sue scatole sono come le sue poesie, un luogo dove le cose improbabili si incontrano. Entrambi si preoccupano della salvezza dell’anima. Viaggiatori ed esploratori delle loro personali solitudini, sanno renderle vaste, cosmiche. Sono artisti religiosi in un mondo in cui la vecchia metafisica e l’estetica sono state cancellate. Leggere le poesie della Dickinson, guardare le scatole di Cornell significa pensare in modo nuovo alla letteratura e all’arte americana”.


Charles Simic, Il cacciatore di immagini - L’arte di Joseph Cornell, traduzione di Arturo Cattaneo, Adelphi, Milano 2005, pagg. 124, euro 10


CHARLES SIMIC
da Il cacciatore di immagini
(Adelphi, 2005 - traduzione dall’inglese di Arturo Cattaneo)



SIGARI STRETTI FRA I DENTI

Ho letto che Goethe, Hans Christian Andersen e Lewis Carroll dirigevano i loro teatri in miniatura. Devono esserci stati altri teatrini d questo tipo nel mondo. Studiamo la storia e la letteratura di un’epoca, ma non sappiamo nulla di quei drammi che venivano rappresentati per un pubblico fatto di un solo spettatore.


O MEMORIA EVANESCENTE!

Nella mia infanzia i negozi di giocattoli vendevano teatri di cartone in miniatura. Lo scenario, gli attori, i musicisti e il resto degli arredi scenici erano stampati su fogli di carta colorata venduti a parte. Si dovevano ritagliare le figure, incollarle sul cartone, e poi farle muovere sul palcoscenico attraverso le scanalature praticate sul pavimento. C’era anche un sipario rosso che si apriva e chiudeva. Non ho mai posseduto uno di quei teatrini, ma li ho visti montati in casa d’altri.

Avevo due vecchie zie eccentriche a Belgrado, due zitelle, che io e mia madre ogni tanto andavamo a trovare. Vivevano in una piccola casa stipata di arredi. C’erano talmente tanti mobili – eredità di generazioni di parenti morti – che ogni stanza sembrava un labirinto. Ci si doveva schiacciare tra giganteschi armadi, sentendosi ripetere di fare attenzione agli svariati ninnoli che raccoglievano polvere su ripiani e tavoli di ogni forma e dimensione. Una volta, perso in quel labirinto, mi ritrovai di fronte a un teatrino di carta perfettamente montato. Non ricordo se mi fu detto di chi era. Di solito ci giocavano i bambini, mentre le bambine avevano la casa delle bambole, per cui pensai subito che fosse il teatrino di qualche bambino morto. La bella Marina, la più giovane delle due zie, mi mostrò come far muovere le figure. Marina era matta. Oggi lo so e anche allora lo sospettavo. In ogni caso, si portò un dito alle labbra facendomi segno di star zitto. La casa era già tanto silenziosa che si sarebbe sentito cadere uno spillo mentre muovevo le figure sotto il suo sguardo attento. Ricordo i costumi dai colori brillanti e gli sguardi fissi delle bambole. Quel giorno il fondale era un bosco cupo, quel genere di bosco di cui si legge nelle fiabe. In alto c’era la luna nascosta per metà dalle nuvole. Gli attori di carta sorridevano tutti allo stesso modo.

Sulla via del ritorno mia madre mi disse che le zie avevano scatole piene di vecchie bambole. Sapevo che anche loro sorridevano.

Il mio teatrino non veniva da un negozio. Era fatto di pochi soldatini di argilla mezzi rotti e di un assortimento di piccoli blocchi di legno, turaccioli e altri oggetti indefiniti che nella mia immaginazione avevano acquistato proprietà antropomorfiche. Il palcoscenico era sotto il tavolo. Le mie figurine mettevano in scena quella che si potrebbe definire una interminabile saga del selvaggio West. C’era un eroe, il suo migliore amico, il cattivo, gli Indiani, ma non mi ricordo di un’eroina. Avevo sette o otto anni. La guerra era appena finita. Non c’era molto da fare se non dare libero sfogo all’immaginazione.


QUESTI SONO I POETI ADDETTI ALLA MANUTENZIONE DEGLI OROLOGI DEI CAMPANILI

Molti hanno già meditato sulla relazione esistente tra il gioco e il sacro. La luce delle fantasticherie, si noti, è fioca. La semioscurità delle vecchie chiese e dei vecchi film è quella dei sogni. I nostri ricordi sono immagini divine perché la memoria non è soggetta alle leggi ordinarie del tempo e dello spazio. Quello che facciamo, fantasticando, è creare divinità. Immagini circondate dall’ombra e dal silenzio. Il silenzio è la vasta chiesta cosmica in cu siamo sempre soli. Il silenzio è l’unica lingua parlata da Dio.


CHARLES SIMIC
è nato a Belgrado nel 1938, in tempo per vivere un’infanzia di guerra sotto l’occupazione nazista. Nel 1953 si trasferisce con la famiglia negli Stati Uniti, a New York, città che da subito lo affascina. È uno dei maggiori poeti viventi in lingua inglese. Professore di Letteratura inglese all’Università del New Hampshire. Ha pubblicato raccolte di poesia, libri in prosa, saggi critici e traduzioni (dal francese, serbo, croato, macedone e sloveno). Ha ricevuto prestigiosi premi e riconoscimenti, come quello dell’American Academy of Arts and Letters e della Poetry Society of America, l’Edgar Allan Poe Award, il Premio P.E.N. per la traduzione e il Pulitzer.

In Italia sono stati pubblicati i seguenti volumi:

  • 2008 Club Midnight (Adelphi)
  • 2007 Il titolo (L’Obliquio)
  • 2005 Il cacciatore di immagini – L’arte di Joseph Cornell (Adelphi)
  • 2002 Hotel Insonnia (Adelphi)
  • 2001 Il mondo non finisce (Donzelli)


alexbrando@libero.it