FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia
Numero 13
gennaio/marzo 2009

Nutrimenti

NUTRIMENTI DALLA GRANDE POESIA:
Natura umana, or come,
Se frale in tutto e vile,
Se polve e ombra sei, tant’alto senti?

di Fabio Pierangeli



Propongo ai lettori di Fili d’aquilone una sintesi del primo capitolo del mio volume Esplorazioni leopardiane, Vecchiarelli editore, 2008, che si può considerare una sorta di introduzione all’universo poetico leopardiano. Tornando al giudizio famoso di De Sanctis è chiarissimo, in quel movimento qui ridefinito «negazione struggente», come spesso la poesia, anche per il suo commovente esito stilistico, perfino fonico, carne e cibo verbale, in forma di domanda nel caso del Canto notturno del pastore errante dell’Asia, sia nutrimento, anche quando affonda nel solido nulla.



    Or non aggiunse
    il ciel nullo conforto ai nostri affanni.

Negazione forte, decisa, rispetto ad una luce altera e diversa sognata vicina, «Cara Beltà»: l’incipit del verso iniziale di Alla sua Donna accosta il «logoro aggettivo» con il culmine del desiderio di un soggetto lontano, tanto da essere immaginato nell’iperuranio platonico. Una diade iniziale tipica dell’andamento poetico soprattutto degli idilli, ma che sottoposta a trasformazione, registra una solida continuità, fino al memorabile incipit di Aspasia. Se è vero che l’esordio1 deve contenere riuniti, in un esercizio di brevitas, i punti della poetica dispersi in una singola lirica o in sezioni più ampie dell’universo dell’artista in oggetto, una serie di versi iniziali illustrano la dinamica della negazione struggente.2 Con questa formula esprimo il paradosso di Leopardi, un ossimoro fondante della sua poetica, sottolineata con diverse sfumature, ora attenta alla struttura, ora allo stile (nella armonia ed equilibrio della perfezione linguistica e musicale di per se stesso movimento oppositivo alla negazione nichilistica) ora ai contenuti e agli archetipi simbolici, a cominciare dal celebre giudizio di Francesco De Sanctis, nel testo del 1858, Schopenhauer e Leopardi.3

Leopardi produce l’effetto contrario a quello che si propone. Non crede al progresso e te lo fa desiderare; non crede alla libertà e te la fa amare. E non puoi lasciarlo che non ti senta migliore. Ha un così basso concetto dell’umanità, e la sua anima alta, gentile e pura la onora e la nobilita. E se il destino gli avesse prolungata la vita infino al Quarantotto senti che l’avresti trovato accanto, conformatore e combattitore

Tralasciando il pur importante motivo risorgimentale, ampliamo il climax, riflettendo su un’altra importante diade, scaturigine di desiderio e negazione, intorno ai centrali concetti di felicità e bellezza: negando la loro esistenza, (e di conseguenza considerando illusive la speranza e l’amore), il poeta esorta, per antitesi, a non esaurire la ricerca, mostrando l’altezza dello sconforto della sua anima, capace di osservare, in uno smarrito o sarcastico sguardo cosmico, lo splendore baluginante, in attimi poetici, di alcuni scorci della natura, «in purissimo azzurro». Angelo Marchese coglie acutamente lo snodarsi poetico di questo incantamento ammaliante, indicando nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia un punto definitivo di non ritorno.
Sergio Campailla non esita, all’inizio del suo lucido percorso senza fronzoli e retorica nell’orizzonte di una poesia «inattuale» dai contorni meravigliosi e ardui, a evocare il miracolo:4

I miracoli avvengono. Non si spiegano, altrimenti non sarebbero quello che sono. E i Canti di Leopardi sono un miracolo della poesia. Riflettono la luce tersa e integra del cristallo, stanno come una gemma rara che proviene da profondità precluse, dove roccia e acqua si riconvertono, e si è trasformata in un oggetto prezioso di oreficeria. Un raggio di quella luce ci ha attraversato, ce lo portiamo dentro, anche se non lo sappiamo, come una ricchezza individuale e collettiva.

Luciano Anceschi, percorrendo le strade labirintiche di un laboratorio ancora in fieri, tra suono e senso, stile e messaggio densissimo in sponde esistenziali e filosofiche, teso alla ricerca di uno stile capace di esprimere una visione del mondo ancorata ad una precisa poetica, scrive:5

Mentre tutto il discorso leopardiano si svolge nel rifiuto delle garanzie metafisiche, e nessuna idea esiste prima delle cose; un senso profondo dell’uomo come nulla mostra come proprio questa nullità, questo “solido nulla” sia capace di sorprendenti, libere, anche splendide invenzioni.

Mentre Divo Barsotti insiste, seguendo lo schema della Storia del genere umano, sull’ultima illusione, sempre ritornante:6

Cadevano una dopo l’altra tutte le illusioni che potevano far bella e desiderabile la vita, e il poeta si sentiva sempre più solo. Rimaneva un’illusione e, come aveva scritto nella Storia del genere umano, questa illusione risorgerà per tutta la vita, sorgente di ineffabili vagheggiamenti e di desolati risvegli: l’amore. È vero che gli è sempre negato, ma in lui continuamente risorge. […] Eppure no, l’amore sembra immortale. Risorge la vita. Nell’opera del poeta solitario, unico è l’inno che canta l’amore. È l’amore che trionfa di ogni pena, l’amore che solleva a felicità “nuova” il poeta.

Anche quando in A se stesso l’amore sembra sconfitto dall’ultimo inganno, rimane la radice nuda del dolore, e ci si chiede: come può la natura, gelidamente indifferente, aver creato una spirito capace di tali domande sul senso della vita, il cui grido resiste, eco disperato, oltre ogni parola fine?
Prosegue Barsotti:

Leopardi anticipa il pensiero di alcuni celebri filosofi contemporanei, il suo pensiero che nasce da un’esperienza profonda di pena è ben altrimenti vivo. Il poeta, assai meglio di quei filosofi, ci insegna l’origine religiosa del dolore.

Pensiero che si può collocare, al di là delle intenzioni dell’autore, in un quadro ordinato a posteriori, tenendo presente l’evoluzione delle poetiche in ambito novecentesco, in un territorio mediano tra chi sostiene che l’intera genialità umana non vale nulla rispetto alla vita e alla morte (o magari, come per Pascal, di fronte ad un solo gratuito gesto di carità) e chi sottolinea, viceversa, la funzione terapeutica e salvifica della poesia, sia pur in una sfera da iniziati, nella dimensione foscoliana di una laica religione delle lettere o in base ad una lettura mistico-religiosa di alcuni versi più sublimi.
Michele Dell’Aquila, appassionato studioso tra i massimi di tutti i tempi di Leopardi, a cui ha dedicato una parte cospicua della sua vivacissima attività intellettuale e di operatore di cultura, conduce la sua analisi testuale immettendola nell’abito di un probante simbolo degno dei migliori poeti: la linea d’ombra. Oscurità, fin dalle prime prove idilliche, mai separata dalla concezione avvertita del bello, un controcanto via via più accentuato, dalla concezione di una esclusione personale, di una vocazione al dolore, alla dilatazione cosmica. Il carattere dei ritorni di un sentimento di luce non si piega a questa coscienza:7

Così tra luce e ombra, nei tagli definitivi e crudeli della separatezza, nei chiaroscuri ingannevoli delle memorie e dei desideri, corre la linea d’esclusione che quanto più l’intelligenza s’impegna a definire o a smascherare nell’iniquità dell’inganno, tanto il cuore indomito torna ad attraversare riproponendo scenari di denuncia e di protesta, ma anche indugi di memoria e desiderio, le “finzioni” contrastive della parola, come a riportare in vita una perduta Euridice.

Il critico, con grande finezza e simpateticità con l’universo leopardiano, sottolinea un altro aspetto fondamentale: a mio modo di vedere, la protesta, almeno per il lungo periodo che da Alla Primavera porta fino alle soglie del ciclo di Aspasia, scaturisce da un cuore indomito, non stanco di proponimenti e desideri. Continua Dell’Aquila, in un brano che vale la pena di citare “letteralmente”:

La linea d’ombra attraversa la vita d’ognuno, ed attraversa la sua, compartendo, separando realtà e desiderio, la sfera del quotidiano e quella dei sogni; ma anche passato e presente, progetto e inerzia, tutto ciò che si vorrebbe e si credeva possibile da ciò che è per ferrata necessità, per maligno intreccio del caso e della volontà di tanti.

Coscienza che strazia e strugge, infinitamente, ciclicamente. Come vedremo ancora, tali forme antitetiche troveranno, per Dell’Aquila, un luogo affascinante, tra gli altri, nella Sera del dì di festa, con quell’incipit terso e musicale.
Viene alle labbra la stupenda conclusiva frase del corto di Pier Paolo Pasolini Che cosa sono le nuvole?: «Straziante e meravigliosa bellezza del creato». Strazio e commozione di fronte a quello che a Leopardi non appare più il creato ma la natura e nello stesso tempo strazio e commozione di fronte ad un universo poetico nel suo complesso, dove insieme alla consapevolezza del filosofo materialista, convive lo sguardo del fanciullo che chiede alle cose infinite di risiedere accanto a lui, per illuminarlo, chiamandole per nome, anche quando comprende, ad esempio in Alla Primavera, il carattere illusorio di questi intensi dialoghi con il passato, mitico o personale. È l’immagine di un incipit a cui non si può tornare, vagheggiato e respinto, fortunata visione in epoca romantica della fanciullezza del mondo, analoga a quella del singolo nello spazio dell’illusione e della fantasia, ma che in Leopardi si carica di una pena nostalgica acuta, dilacerante, dilaniante. Espressa, altro ossimoro valorizzato dalla critica, con le parole della tradizione poetica risalente al Petrarca.
Il confronto tra l’effimero e l’eterno, per dirla con Ungaretti, è il contenuto della domanda, della negazione struggente e si esprime, specchio concavo, nell’accostamento dell’immagine con una parola corrotta dall’uso quotidiano, quasi a esorcizzare la distanza e la delusione, che poi torna a tuonare in celeberrimi versi della stessa lirica.

La reiterazione del “caro” non è priva di interesse nei Canti leopardiani, come cerco di verificare in Esplorazioni leopardiane, nel tentativo di verificare la portata stilistica dell’apparizione del “logoro aggettivo” accostato di frequente, nello stesso verso, ad un movimento linguistico tendente all’aulico, in una posizione esistenzialmente perturbante.
Che l’infelicità amorosa risorga come inappagato desiderio di felicità, specialmente nella contemplazione solitaria di un evanescente e baluginante volto di donna che porti negli occhi un dono di grazia, disposizione tipica della negazione struggente, si impone al lettore nei più memorabili incipit dei Canti, dove si è travolti dal senso solenne di una rivelazione abissale e nello stesso tempo quotidiana, in quanto a scelte stilistiche orientate alla dualità oppositiva di meraviglioso nel familiare: colpiti, quasi misticamente afferrati, dalla possibilità di dare del tu alla Beltà, alla Luna, alla Stella Venere, alle Vaghe e vaganti stelle dell’Orsa, all’infinito, tutti indizi della negazione struggente.
La spesso dimenticata e invece penetrante lettura di Giulio Augusto Levi, studioso tra i leopardisti più fedeli, tra saggi, monografie, commento ai Canti, ponendo al centro della propria speculazione l’inno alla Cara Beltà, non ha dubbi sulla natura di queste antitesi, voce altissima di un laico proteso verso la luce di Dio, che però non gli appare:8

Non vorremmo che i giovani si nutrissero del suo dolore, ma dei suoi alti pensieri […]. Non credette in Dio, ma pochi erano nati ad amarlo più di lui, cercò inutilmente nel mondo quegli attributi di perfezione, di bellezza e di bontà infinita, che appartengono a Lui solo; non seppe penetrare il fitto velo che gli nascondeva l’Oggetto reale del suo desiderio. Perché Lo desiderò con tanta passione, gliene discese per arcane vie nelle sue opere quel raggio di divina bellezza; ma perché non Lo riconobbe, il suo desiderio gli fu cagione di tanto dolore.

Nella canzone Alla sua donna si rileva, dai manoscritti, la massiccia presenza della varia lectio:9

da legare direttamente, anche se non esclusivamente, alla necessità e all’impazienza del giovane poeta di giustificare a sé stesso e al mondo letterario le ragioni sottese alle sue scelte linguistiche, apparentemente eterodosse, ma in realtà in linea con la più canonica tradizione italiana.

Ne ricaviamo, dipanando il groviglio delle varianti che finiscono per circondare il testo, l’impressione di un martellamento rabbioso, coesistente con lo sforzo di trasformazione nelle cristalline strofe della versione definitiva, che riescono però, per la conquista della musicalità, ad ottenere l’effetto della maggiore commozione.
Come ha ben detto Blasucci, ai processi negativi, corrispondono i processi ipotetici del “se” del “forse”. Sono “finzioni” dell’immaginar analoghe a quelle dell’Infinito: per forza devono essere iscritte nello spazio dell’irrealtà. Potrebbero essere anche, mi sia consentito, lo spazio del desiderio ritornante in forma di struggimento, mai definitivamente abbattuto dalle sue stesse constatazioni di realistica negazione. Le maggiori incertezze, documentate dalla varia lectio, riguardano gli aggettivi della bellezza, (con assoluta pregnanza semantica e stilistica a diva beltà si preferisce cara, mentre “ombra diva” si sceglie tra «Beata ombra. Ombra vaga. Vaga larva. Dolce imago. Leggiadra, vezzosa, gentile, fugace, beata larva scuoti. Aurata larva» e ancora «Candida larva mi stringi, pungi, tenti, sproni, fiedi») e il fatto che questa sia a noi vietata, nascosta. «A noi celando, togliendo, negando, vietando, / celata, disdetta, contesa, agli avvenire ch’ a noi contende», in dichiarazioni agonistiche, rispecchiantesi nella formula della lontananza nella più sarcastica delle Annotazioni che di Leopardi conosciamo, quando il poeta decreta l’impossibilità di far l’amore con il telescopio. Il futuro ci sottrae la bellezza, per forse goderne a nostro svantaggio: su questa idee, la ricerca della parola adatta produce la tipica striscia di varianti, immaginabile come una processione-litania in cui al suono compete un ruolo centrale; per giungere a «Ch’a noi contende: s’a noi contende, ti chiude, t’asconde. Fatta cortese» e per sistemare in «Mira col novo agli avvenir: Novo portento, stupore, acerba età riserba» a cui segue l’intensissima serie di gradazione semantica: «a noi celando, a gli avvenir ti serba? (superba) (serva, riserva, proterva)», oscillazione evidente tra desiderio e rabbia proposta anche nella ricerca della identità della bellezza trasformatasi in larva, come più tardi, dopo una esperienza non più virtuale, in Aspasia.
In queste riflessioni stilistiche e poetiche, Leopardi aveva introdotto fin dal secondo verso, l’idea della beltà come capace di insegnare (segnare-indicare) l’amore. Propriamente è chiamata a indicare la virtù: nel gorgo oscuro dell’esistenza rimane, icasticamente, il suo gesto precipuo, senza il quale il poeta sembra balbettare, non trovare le parole, smarrirsi nel non senso: “lunge mi insegni”: «Divina larva, ombra celeste. Diva larva, imago. M’ardi, e la voce mi contendi e ‘l viso, mi insegni, e i detti, e neghi a favella, le parole, il suon».

Rimandando l’eventuale lettore interessato all’intera analisi della Canzone, arrivo qui direttamente alla strofa quinta, dove la maggiore attenzione si rivolge al sintagma tra gli altri capace di definire la condizione umana nelle “sepolcrali”: «le caduche spoglie»: anche in questo caso la ricerca del termine esatto e evocativo conduce attraverso aggettivi connotati dalla pesantezza della condizione negativa, a una specie di processione d’angosce, salvata dal miracolo poetico del suono, ancora una volta in grado di commuovere più a fondo con elementi lievi e questa volta, aulici: «corporea, visibil, terrestre, terrena forma, vesta, velo, frale, salma, membra. Neghi, vieti il consiglio eterno l’eterna mente, nume, spiro, fato, il fatal impero decreto. Sentir gli affanni, le angosce, le doglie» e ancora «lugubre, funesta, angosciosa, perversa, infelice vita» in un climax ascendente risolto nel poetico e materiale «caduche».
Per l’ultima strofa è evidente il gioco della luce con cui la beltà viene fasciata amorevolmente, mentre la tenebra infernale della caducità strozza il canto dell’ignoto amante, che comunque si intona ad una purezza mirabile, perfino, positivamente, sconcertante. Gli anni terreni in cui si provano i sentimenti contrastanti e dolorosi della “moribonda vita” (e ancora “maligna, nefanda, terrestre”) sono, via via: “ingrati, oscuri, torbidi, squallidi, luridi, miseri” e di nuovo, in una altra spirale di approssimazione “infausti, avversi, afflitti e brevi” e di seguito “gravosi, pensosi, noiosi, turbati, letali, ferali” nella loro corso vorticosa poi indicata con il breve. Ma la sfilza non finisce qui, Leopardi annota ancora per gli anni, prima di fermarsi su infausti e brevi: “opachi, nebbiosi, infermi, mendichi, cocenti” e ancora altro, prima di afferrare il colpo d’ala geniale di celarsi sotto le spoglie dell’ignoto amante che compone un inno d’amore alla sua diva lontana.
Quell’amore, come si ricorderà, giunge lontano, seguendo gli sviluppi della poetica leopardiana come aspirazione e ispirazione negata e sempre ritornante, fino ad infrangersi sul marmo scolpito di A se stesso. Commenta Elio Gioanola,10 in un paragone assolutamente pertinente con l’ultima fase della poesia di Pavese, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, come si vedrà di nuovo tra poco:

nel momento di dichiarare l'abbandono di ogni illusione, si fa sentire la eco insopprimibile di una supplice richiesta d'amore. Al di là non è possibile andare: oltre le soglie estreme della commozione c’è il nudo dolore. E la morte.

In questa ottica è possibile leggere l’incipit di Aspasia, di cui non si conoscono testimoni manoscritti.

    Torna dinanzi al mio pensier talora
    il tuo sembiante, Aspasia. O fuggitivo
    Per abitati lochi a me lampeggia
    In altri volti; o per deserti campi,
    il dì sereno, alle tacenti stelle,
    da soave armonia quasi ridesta,
    nell’alma a sgomentarsi ancor vicina
    quella superba vision risorge.

Dove la negazione struggente, nell’idea della bellezza, questa volta intravista nei suoi aspetti carnali, ritrova i topos più sublimi, il sereno (di Saffo), le stelle (o la luna degli idilli e del pastore), l’armonia che si ridesta nei deserti campi, come era accaduto per l’inno alla Beltà.
Nonostante la rabbiosa negazione, la visione rimane superba, delicatamente impastata di tutte le illusioni, i sogni, ma anche i volti e i momenti reali vissuti e divenuti larva, tutto quello che poteva essere e non è stato e che si ripresenta in modo rabbioso nel resto della composizione, per cui l’incipit, ancora una volta, appare, sia pur in parte, rispetto ad altri luoghi, nido in cui l’illusione persiste limpida, nella negazione struggente, soltanto del ricordo, magari di quel sentimento rigonfio di speranza che era al principiare dell’esperienza amorosa.

Già Fubini notava che rispetto ad A se stesso, la posizione di Aspasia allentava la tensione in uno sforzo di comprendere e dominare la passata esperienza amorosa, giustificandola e analizzandolo come l’errore rispetto ad una idealità impossibile. Ancora una volta, il verso dell’incipit si insinua nelle maglie di questo tentativo, appresso alle fasi della bellezza nel suo ritornare, riverberato, questa volta, in un contesto funebre, nelle due “sepolcrali” (Sopra un bassorilievo antico sepolcrale e Sopra il ritratto di una bella donna), inserite di seguito al lungo racconto della passione per Fanny e i cui esordi sono scanditi dalla domanda e dallo sgomento della bellezza passeggera nel suo ripresentarsi alla meditazione, in quella forma di estrema caducità, egualmente attraversati dal desiderio del ritorno dell’apparir con moltiplicato, celato, struggimento.
Anche nella reiterazione dei “cari”: la domanda ribalza a chi rimane a terra, a contemplare quella fissità mortuaria della bellezza, attraverso i colori del neoclassicismo. Alla negazione struggente non basta nemmeno, per essere definitiva, l’affermazione dei versi 27 e 75, nella prima.11 Liricamente più intensa la seconda sepolcrale, dove, ai versi 19 e ss., l’idea ritornante dell’amore si infrange, contro la realtà ineluttabile, al culmine, probabilmente, del motivo della negazione struggente, prima della agonistica posizione della Ginestra e, in parte, del Tramonto della luna. Misterio eterno dell’esser nostro, ricomponendo in pochi versi, in quella atmosfera solenne e funebre, la parabola amorosa di Aspasia, interrotta dalla disillusione/morte, radicalmente nei versi 40 e ss, prima della chiusa celebre, tra i momenti più alti dell’intera ispirazione leopardiana: la risorgenza, ancora una volta, forse per l’ultima, stremata, volta, è affidata di nuovo alle rogative dell’explicit. Così come il dittico era iniziato con un punto di domanda egualmente si chiude, con ben altra urgenza, intorno al tema della bellezza effimera, nonostante tutto ancora in grado di gridare la sua protesta verso un “per sempre” attivo negato alla radice:

    Natura umana, or come,
    Se frale in tutto e vile,
    Se polve e ombra sei, tant’alto senti?
    Se in parte anco gentile,
    Come i più degni tuoi moti e pensieri
    Son così di leggeri
    Da sì basse cagioni e desti e spenti?



1Cfr. P. V. MENGALDO, Come iniziano i Canti di Leopardi, in “Stilistica e metrica italiana”, n.4, 2004, che affronta brillantemente nodi stilistici e linguistici a partire da una bipartizione, numerica e vistosa, ma con diversi esiti e varianti, di due caratteri macroscopici che spesso si incrociano suggestivamente: 21 su 34, fino alla Ginestra, presentano «un’allocuzione o apostrofe o evocazione». Altra modalità tipica è quella con giro sintattico protratto e fortemente subordinativo, come nella panoramica storica del Bruto. Illuminante, per le nostre tematiche, il passo seguente, alla pagina 173: «I due moduli incarnano con particolare efficacia due aspetti polari dello stile poetico leopardiano. L’uno il razionalismo costruttivo, il gusto architettonico, la tensione spinta al massimo, la dilatazione dell’analisi […] L’altro l’agitazione, il pathos, addirittura la frenesia, l’inatteso e la rapidità, quasi una pulsione a comunicare immediatamente e d’altro lato la semplicità candida, la familiarità, l’affetto». E più avanti, a pag. 178: «Se invece si guarda non alla differenziazione ma alla concentrazione nel contesto, allora colpisce che l’elemento allocutivo sia così spesso replicato (con eventuali variazioni) quasi ad abbracciar meglio l’oggetto invocato, ad abbandonarvisi, e insieme a promuoverlo a protagonista».Fubini definiva, ricorda Mengaldo, «allocuzione affettuosa e patetica». Non può di seguito sfuggire a Mengaldo la pregnanza delle interrogative numerose e il carattere del dialogo, in ricerca di tanti tu, apostrofati come tali, che profilano, nello statuto precipuo della lirica, “l’incombenza dell’io”.

2Si può aggiungere che la poetica interagisce con la poesia, in quel grande laboratorio invisibile che è lo Zibaldone, particolarmente nelle prime pagine, come evidenziato, ad esempio da L. ANCESCHI, Un laboratorio invisibile della poesia. Le prime pagine dello “Zibaldone”, Pratiche, Parma, 1992 e ancora recentemente da Lucio Felici. Per Anceschi, pag 23 «La poesia figura qui già non come una felice improvvisazione afferrata rapidamente, ma come un lavoro attento, attentissimo, calcolato, calcolatissimo, tentato sulle parole perché l’eventuale folgorazione trovi il suo giusto e misurato ricalco espressivo, con tutte le sue possibili aperture e disponibilità, e si trasformi in poesia. È quasi un tracciato logico di quel che il poeta si trovava a voler dire nelle sue studiate forme sintattiche e nel loro concreto ordinarsi in figure coerenti. Una sorta di meditata elaborazione del mistero. Certo su due piani diversi: la poesia e il suo progetto; ma legati fra loro». Imitazione della natura e naturalezza, questo è l’insegnamento dei classici, in quello che potrebbe sembrare un ossimoro, ma che, alla verifica dei fatti, sarà lo stupendo equilibrio dei Canti, e degli incipit, che si andranno ad esaminare.

3Lo leggo, non solo per comodità, ma in sentito omaggio alla finezza e profondità dello studioso e all’umiltà dell’uomo mai apprezzata fino in fondo, in A. MARCHESE, Leopardi, Bulgarini, Firenze,1976, pag.271.

4Si veda S. CAMPAILLA, Un miracolo in versi, introduzione a G. LEOPARDI, Canti, con illustrazioni di Mario Riva, Arte’ Bologna, poi ristampato in forma autonoma in ID Fingere l’infinito. L’ascolto dei Canti, Il Veltro, Roma, 2005, pag.5. Più che un saggio critico, si tratta di una illuminante discesa di uno scrittore-interprete nei labirinti della fantasia leopardiana, con le armi di una acutezza disarmante, capace di abbattere luoghi comuni, per riportarci autentico il travaglio di un’anima, tutt’altro che rassegnata, sempre tenacemente inattuale, in lotta con i fantasmi del tempo e con quelli della famiglia.

5L. ANCESCHI, cit., pag 53.

6D. BARSOTTI, Cercando il mio vero partner, in Leopardi l’infinito e noi, Il Sabato, Milano,1987, pag.58. Tra i volumi più recenti della sempre sterminata bibliografia della critica leopardiana, il più attento a privilegiare l’aspetto lirico delle interrogazioni mi pare B. MARTINELLI, Leopardi e la condizione dell’uomo, Giardini, Pisa, 2005, in particolare nella lunga e ben documentata sezione dedicata all’interpretazione del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, a partire, fonti alla mano, dall’evidenza che si tratta di un testo sul viaggiare.

7M. DELL’AQUILA, La linea d’ombra. Note sull’elegia di Leopardi, Schena, Bari, 1994, pag.17.

8G. LEOPARDI, Canti, a c. G. A. LEVI, La Nuova Italia, Firenze, 1962, dalle parole conclusive dell’introduzione che non riporta il numero di pagine (neanche il romano). I Canti, con All’Italia, iniziano a pag. 2. Su queste tematiche si veda anche il capitolo di E. LANDONI, Poesia e sentimento religioso. I Canti come nostalgia del sacro, in id. Questo deserto, quell’infinita felicità, Studium, Roma, 2000.

9Si veda l’introduzione di F. GAVAZZENI alla pag. XII della citata edizione critica dei Canti.

10Elio GIOANOLA, Cesare Pavese. La poetica dell'essere, Genova, Marzorati, 1971, pag. 166. Ma di GIOANOLA insigne studioso leopardiano si veda, almeno Leopardi, la malinconia, Jaca Book, Milano, 1995.

11«Mai non veder la luce/ era, credo, il miglior» e «Già se sventura è questo/ morir che tu destini/ a tutti noi che senza colpa, ignari, / né volontari al viver abbandoni, / certo ha chi more invidiabil sorte / a colui che la morte / sente de’ cari suoi». E più avanti: «il vivere è sventura, /grazia il morir».


fabio.pierangeli@tiscali.it