FILI D'AQUILONE rivista d'immagini, idee e Poesia |
Numero 13 gennaio/marzo 2009 Nutrimenti |
NUTRIMENTI DALLA GRANDE POESIA: di Fabio Pierangeli |
Propongo ai lettori di Fili d’aquilone una sintesi del primo capitolo del mio volume Esplorazioni leopardiane, Vecchiarelli editore, 2008, che si può considerare una sorta di introduzione all’universo poetico leopardiano. Tornando al giudizio famoso di De Sanctis è chiarissimo, in quel movimento qui ridefinito «negazione struggente», come spesso la poesia, anche per il suo commovente esito stilistico, perfino fonico, carne e cibo verbale, in forma di domanda nel caso del Canto notturno del pastore errante dell’Asia, sia nutrimento, anche quando affonda nel solido nulla.
il ciel nullo conforto ai nostri affanni. Negazione forte, decisa, rispetto ad una luce altera e diversa sognata vicina, «Cara Beltà»: l’incipit del verso iniziale di Alla sua Donna accosta il «logoro aggettivo» con il culmine del desiderio di un soggetto lontano, tanto da essere immaginato nell’iperuranio platonico. Una diade iniziale tipica dell’andamento poetico soprattutto degli idilli, ma che sottoposta a trasformazione, registra una solida continuità, fino al memorabile incipit di Aspasia. Se è vero che l’esordio1 deve contenere riuniti, in un esercizio di brevitas, i punti della poetica dispersi in una singola lirica o in sezioni più ampie dell’universo dell’artista in oggetto, una serie di versi iniziali illustrano la dinamica della negazione struggente.2 Con questa formula esprimo il paradosso di Leopardi, un ossimoro fondante della sua poetica, sottolineata con diverse sfumature, ora attenta alla struttura, ora allo stile (nella armonia ed equilibrio della perfezione linguistica e musicale di per se stesso movimento oppositivo alla negazione nichilistica) ora ai contenuti e agli archetipi simbolici, a cominciare dal celebre giudizio di Francesco De Sanctis, nel testo del 1858, Schopenhauer e Leopardi.3
Tralasciando il pur importante motivo risorgimentale, ampliamo il climax, riflettendo su un’altra importante diade, scaturigine di desiderio e negazione, intorno ai centrali concetti di felicità e bellezza: negando la loro esistenza, (e di conseguenza considerando illusive la speranza e l’amore), il poeta esorta, per antitesi, a non esaurire la ricerca, mostrando l’altezza dello sconforto della sua anima, capace di osservare, in uno smarrito o sarcastico sguardo cosmico, lo splendore baluginante, in attimi poetici, di alcuni scorci della natura, «in purissimo azzurro». Angelo Marchese coglie acutamente lo snodarsi poetico di questo incantamento ammaliante, indicando nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia un punto definitivo di non ritorno.
Luciano Anceschi, percorrendo le strade labirintiche di un laboratorio ancora in fieri, tra suono e senso, stile e messaggio densissimo in sponde esistenziali e filosofiche, teso alla ricerca di uno stile capace di esprimere una visione del mondo ancorata ad una precisa poetica, scrive:5
Mentre Divo Barsotti insiste, seguendo lo schema della Storia del genere umano, sull’ultima illusione, sempre ritornante:6
Anche quando in A se stesso l’amore sembra sconfitto dall’ultimo inganno, rimane la radice nuda del dolore, e ci si chiede: come può la natura, gelidamente indifferente, aver creato una spirito capace di tali domande sul senso della vita, il cui grido resiste, eco disperato, oltre ogni parola fine?
Pensiero che si può collocare, al di là delle intenzioni dell’autore, in un quadro ordinato a posteriori, tenendo presente l’evoluzione delle poetiche in ambito novecentesco, in un territorio mediano tra chi sostiene che l’intera genialità umana non vale nulla rispetto alla vita e alla morte (o magari, come per Pascal, di fronte ad un solo gratuito gesto di carità) e chi sottolinea, viceversa, la funzione terapeutica e salvifica della poesia, sia pur in una sfera da iniziati, nella dimensione foscoliana di una laica religione delle lettere o in base ad una lettura mistico-religiosa di alcuni versi più sublimi.
Il critico, con grande finezza e simpateticità con l’universo leopardiano, sottolinea un altro aspetto fondamentale: a mio modo di vedere, la protesta, almeno per il lungo periodo che da Alla Primavera porta fino alle soglie del ciclo di Aspasia, scaturisce da un cuore indomito, non stanco di proponimenti e desideri. Continua Dell’Aquila, in un brano che vale la pena di citare “letteralmente”:
Coscienza che strazia e strugge, infinitamente, ciclicamente. Come vedremo ancora, tali forme antitetiche troveranno, per Dell’Aquila, un luogo affascinante, tra gli altri, nella Sera del dì di festa, con quell’incipit terso e musicale.
La reiterazione del “caro” non è priva di interesse nei Canti leopardiani, come cerco di verificare in Esplorazioni leopardiane, nel tentativo di verificare la portata stilistica dell’apparizione del “logoro aggettivo” accostato di frequente, nello stesso verso, ad un movimento linguistico tendente all’aulico, in una posizione esistenzialmente perturbante.
Nella canzone Alla sua donna si rileva, dai manoscritti, la massiccia presenza della varia lectio:9
Ne ricaviamo, dipanando il groviglio delle varianti che finiscono per circondare il testo, l’impressione di un martellamento rabbioso, coesistente con lo sforzo di trasformazione nelle cristalline strofe della versione definitiva, che riescono però, per la conquista della musicalità, ad ottenere l’effetto della maggiore commozione.
Rimandando l’eventuale lettore interessato all’intera analisi della Canzone, arrivo qui direttamente alla strofa quinta, dove la maggiore attenzione si rivolge al sintagma tra gli altri capace di definire la condizione umana nelle “sepolcrali”: «le caduche spoglie»: anche in questo caso la ricerca del termine esatto e evocativo conduce attraverso aggettivi connotati dalla pesantezza della condizione negativa, a una specie di processione d’angosce, salvata dal miracolo poetico del suono, ancora una volta in grado di commuovere più a fondo con elementi lievi e questa volta, aulici: «corporea, visibil, terrestre, terrena forma, vesta, velo, frale, salma, membra. Neghi, vieti il consiglio eterno l’eterna mente, nume, spiro, fato, il fatal impero decreto. Sentir gli affanni, le angosce, le doglie» e ancora «lugubre, funesta, angosciosa, perversa, infelice vita» in un climax ascendente risolto nel poetico e materiale «caduche».
In questa ottica è possibile leggere l’incipit di Aspasia, di cui non si conoscono testimoni manoscritti.
il tuo sembiante, Aspasia. O fuggitivo Per abitati lochi a me lampeggia In altri volti; o per deserti campi, il dì sereno, alle tacenti stelle, da soave armonia quasi ridesta, nell’alma a sgomentarsi ancor vicina quella superba vision risorge. Dove la negazione struggente, nell’idea della bellezza, questa volta intravista nei suoi aspetti carnali, ritrova i topos più sublimi, il sereno (di Saffo), le stelle (o la luna degli idilli e del pastore), l’armonia che si ridesta nei deserti campi, come era accaduto per l’inno alla Beltà.
Già Fubini notava che rispetto ad A se stesso, la posizione di Aspasia allentava la tensione in uno sforzo di comprendere e dominare la passata esperienza amorosa, giustificandola e analizzandolo come l’errore rispetto ad una idealità impossibile. Ancora una volta, il verso dell’incipit si insinua nelle maglie di questo tentativo, appresso alle fasi della bellezza nel suo ritornare, riverberato, questa volta, in un contesto funebre, nelle due “sepolcrali” (Sopra un bassorilievo antico sepolcrale e Sopra il ritratto di una bella donna), inserite di seguito al lungo racconto della passione per Fanny e i cui esordi sono scanditi dalla domanda e dallo sgomento della bellezza passeggera nel suo ripresentarsi alla meditazione, in quella forma di estrema caducità, egualmente attraversati dal desiderio del ritorno dell’apparir con moltiplicato, celato, struggimento.
Se frale in tutto e vile, Se polve e ombra sei, tant’alto senti? Se in parte anco gentile, Come i più degni tuoi moti e pensieri Son così di leggeri Da sì basse cagioni e desti e spenti? 1Cfr. P. V. MENGALDO, Come iniziano i Canti di Leopardi, in “Stilistica e metrica italiana”, n.4, 2004, che affronta brillantemente nodi stilistici e linguistici a partire da una bipartizione, numerica e vistosa, ma con diversi esiti e varianti, di due caratteri macroscopici che spesso si incrociano suggestivamente: 21 su 34, fino alla Ginestra, presentano «un’allocuzione o apostrofe o evocazione». Altra modalità tipica è quella con giro sintattico protratto e fortemente subordinativo, come nella panoramica storica del Bruto. Illuminante, per le nostre tematiche, il passo seguente, alla pagina 173: «I due moduli incarnano con particolare efficacia due aspetti polari dello stile poetico leopardiano. L’uno il razionalismo costruttivo, il gusto architettonico, la tensione spinta al massimo, la dilatazione dell’analisi […] L’altro l’agitazione, il pathos, addirittura la frenesia, l’inatteso e la rapidità, quasi una pulsione a comunicare immediatamente e d’altro lato la semplicità candida, la familiarità, l’affetto». E più avanti, a pag. 178: «Se invece si guarda non alla differenziazione ma alla concentrazione nel contesto, allora colpisce che l’elemento allocutivo sia così spesso replicato (con eventuali variazioni) quasi ad abbracciar meglio l’oggetto invocato, ad abbandonarvisi, e insieme a promuoverlo a protagonista».Fubini definiva, ricorda Mengaldo, «allocuzione affettuosa e patetica». Non può di seguito sfuggire a Mengaldo la pregnanza delle interrogative numerose e il carattere del dialogo, in ricerca di tanti tu, apostrofati come tali, che profilano, nello statuto precipuo della lirica, “l’incombenza dell’io”. 2Si può aggiungere che la poetica interagisce con la poesia, in quel grande laboratorio invisibile che è lo Zibaldone, particolarmente nelle prime pagine, come evidenziato, ad esempio da L. ANCESCHI, Un laboratorio invisibile della poesia. Le prime pagine dello “Zibaldone”, Pratiche, Parma, 1992 e ancora recentemente da Lucio Felici. Per Anceschi, pag 23 «La poesia figura qui già non come una felice improvvisazione afferrata rapidamente, ma come un lavoro attento, attentissimo, calcolato, calcolatissimo, tentato sulle parole perché l’eventuale folgorazione trovi il suo giusto e misurato ricalco espressivo, con tutte le sue possibili aperture e disponibilità, e si trasformi in poesia. È quasi un tracciato logico di quel che il poeta si trovava a voler dire nelle sue studiate forme sintattiche e nel loro concreto ordinarsi in figure coerenti. Una sorta di meditata elaborazione del mistero. Certo su due piani diversi: la poesia e il suo progetto; ma legati fra loro». Imitazione della natura e naturalezza, questo è l’insegnamento dei classici, in quello che potrebbe sembrare un ossimoro, ma che, alla verifica dei fatti, sarà lo stupendo equilibrio dei Canti, e degli incipit, che si andranno ad esaminare. 3Lo leggo, non solo per comodità, ma in sentito omaggio alla finezza e profondità dello studioso e all’umiltà dell’uomo mai apprezzata fino in fondo, in A. MARCHESE, Leopardi, Bulgarini, Firenze,1976, pag.271. 4Si veda S. CAMPAILLA, Un miracolo in versi, introduzione a G. LEOPARDI, Canti, con illustrazioni di Mario Riva, Arte’ Bologna, poi ristampato in forma autonoma in ID Fingere l’infinito. L’ascolto dei Canti, Il Veltro, Roma, 2005, pag.5. Più che un saggio critico, si tratta di una illuminante discesa di uno scrittore-interprete nei labirinti della fantasia leopardiana, con le armi di una acutezza disarmante, capace di abbattere luoghi comuni, per riportarci autentico il travaglio di un’anima, tutt’altro che rassegnata, sempre tenacemente inattuale, in lotta con i fantasmi del tempo e con quelli della famiglia. 5L. ANCESCHI, cit., pag 53. 6D. BARSOTTI, Cercando il mio vero partner, in Leopardi l’infinito e noi, Il Sabato, Milano,1987, pag.58. Tra i volumi più recenti della sempre sterminata bibliografia della critica leopardiana, il più attento a privilegiare l’aspetto lirico delle interrogazioni mi pare B. MARTINELLI, Leopardi e la condizione dell’uomo, Giardini, Pisa, 2005, in particolare nella lunga e ben documentata sezione dedicata all’interpretazione del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, a partire, fonti alla mano, dall’evidenza che si tratta di un testo sul viaggiare. 7M. DELL’AQUILA, La linea d’ombra. Note sull’elegia di Leopardi, Schena, Bari, 1994, pag.17. 8G. LEOPARDI, Canti, a c. G. A. LEVI, La Nuova Italia, Firenze, 1962, dalle parole conclusive dell’introduzione che non riporta il numero di pagine (neanche il romano). I Canti, con All’Italia, iniziano a pag. 2. Su queste tematiche si veda anche il capitolo di E. LANDONI, Poesia e sentimento religioso. I Canti come nostalgia del sacro, in id. Questo deserto, quell’infinita felicità, Studium, Roma, 2000. 9Si veda l’introduzione di F. GAVAZZENI alla pag. XII della citata edizione critica dei Canti. 10Elio GIOANOLA, Cesare Pavese. La poetica dell'essere, Genova, Marzorati, 1971, pag. 166. Ma di GIOANOLA insigne studioso leopardiano si veda, almeno Leopardi, la malinconia, Jaca Book, Milano, 1995. 11«Mai non veder la luce/ era, credo, il miglior» e «Già se sventura è questo/ morir che tu destini/ a tutti noi che senza colpa, ignari, / né volontari al viver abbandoni, / certo ha chi more invidiabil sorte / a colui che la morte / sente de’ cari suoi». E più avanti: «il vivere è sventura, /grazia il morir». |