FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia
Numero 13
gennaio/marzo 2009

Nutrimenti

L'ARANCETO

di Giuseppe Manfridi



Un viaggiatore si è perso in un aranceto. Strano luogo... labirintico, sterminato e senza padroni. Nel tentativo di venirne fuori, l’uomo scivola in un fosso e si rovina una gamba. Nelle condizioni in cui si trova, lo sciagurato deve rassegnarsi ad ammettere che, fino a quando non sarà guarito, ogni speranza di venire via di lì è da considerarsi del tutto vana. A meno che qualcuno non s’accorga di lui. Ma qualcuno chi? Quell’aranceto è un’oasi difesa dal deserto. E chi mai affronterebbe un deserto per giungere a un’oasi che altro non abbia da offrire se non arance e, di nuovo, il deserto? Un secondo viaggiatore, certo. Ma il mondo, lo sappiamo, di viaggiatori non ne contempla più. L’ultimo rimasto, eccolo lì con la gamba slogata. E se anche qualcuno dall’alto guardasse di sotto attraversando il cielo, il cupo fogliame puntinato di pomi splendenti non svelerebbe mai il segreto di quel povero infermo che a malapena riesce a sollevarsi in piedi ma senza poter muovere il più piccolo passo. Per sopravvivere, dunque, egli non ha che le arance di quel maligno giardino. Ne ha in numero incalcolabile, e le arance gli consentiranno di non morire né di fame né di sete. Per due giorni l’uomo se ne ciba senza risentirne, ma il terzo giorno si rende conto che l’idea di non mangiare altro che arance potrebbe farlo impazzire. Come uno che si ritrovi in perfetta solitudine rifornito di abbondanti provviste ma con un solo libro, e che, nell’obbligo di leggere, sia costretto a rileggere in eterno quell’unico libro. Quanto potrebbe durare? Non dico il suo corpo, ma la sua testa: quanto? Se anche molto, questo molto sarebbe pur sempre poco. - Fortunatamente per lui, questo naufrago delle arance ha molta immaginazione, il che gli consente una curiosa via di salvezza. “Basterà - pensa - che io mangi le mie inevitabili arance convincendomi che siano altro. Questa che sto per addentare adesso, per esempio, potrei fingere che sia carne di pollo. E quest’altra che sto per spremermi in gola, del buon vino rosso. Ma sì, proviamo.”, e così fa. L’espediente è effimero, ma a furia di insistere l’uomo riesce a fare notevoli progressi nell’affinare l’arte di compenetrarsi al massimo grado nelle sue fantasie, riuscendo addirittura a toccare prodigiose vette di virtuosismo e il vino rosso, ben presto, non si limita più ad essere del semplice vino rosso, ma tanti vini differenti l’un dall’altro, e delle più preziose annate e delle più varie qualità. Lo stesso vale per le pietanze che simula di assaporare. Sulle prime, l’uomo dà fondo alle sue non esigue memorie di buongustaio rievocando e riammannendosi i manicaretti più prelibati di cui conservi il ricordo, ma non ci vorrà molto perché egli si riveli capace di accedere anche a pietanze mai provate, e a ricette mai sperimentate. Oramai il nostro arenato viaggiatore si è talmente svezzato nella sua inusualissima pratica, che spesso arriva sino alla bizzarria di sorprendersi per sapori che non aveva messo in conto, o per cibi (e questo, se ci pensate, è ancora più straordinario) che gli sembrano sin troppo lontani dai suoi gusti o malcucinati. Ma al vertice di tanto solipsismo che lo porta a infastidirsi per pietanze indesiderate (che poi sempre d’arance si tratta, ma camuffate da chissà che!), l’uomo s’adopera in colloqui con se stesso da cui rimproveri del seguente tenore: “Facciamo pure gli schizzinosi?... Ringrazia Dio che hai qualcosa da mangiare. Per cui, seppure non ti piace, butta giù e prendila come una maniera per apprezzare la grande varietà di sapori che sono al mondo.” - Il più è già detto. Addestrandosi da sé a tanto spericolata disciplina inventiva, l’uomo riesce a cibarsi di sole arance per mesi e mesi facendosi in realtà convinto (in realtà? Ma da quale parte pencola la vera realtà? Dentro o fuori?)... a ogni modo, facendosi convinto di sperimentare l’intera gamma della cultura gastronomica mondiale. Cucina messicana e senegalese, mediterranea e lappone, tropicale e tibetana, francese e coreana... nulla gli è vietato; e, preservandosi da una certa forma di follia per guadagnarsene forse un’altra, egli dà così il tempo alla sua povera gamba di rimettersi perfettamente in sesto. Tante arance lo hanno fortificato. E’ colmo di vitamine. Il suo stato di salute può dirsi veramente ottimo. Finalmente il viaggiatore non ha che da rimettersi in marcia, dritto per dritto, e trovare finalmente il modo di uscire da quell’aranceto che sembrava essere divenuto la sua casa non essendo riuscito a divenire la sua tomba. Poi, raggiunto l’oro delle dune, il sopravvissuto non ha che da conquistare la città. Un’impresa in sé difficilissima, ma che l’enormità del pericolo scampato rende irrisoria. - Ora che il nostro esploratore è tornato alla sua vita di sempre, egli ha ripreso a nutrirsi nella maniera che gli era consueta. Pensate, però, che cosa curiosa: al primo pollo che addenta, la sua immaginazione infallibilmente gli evoca un’arancia: quell’arancia che, transitando nella fantasia in senso inverso, lo riporta alla prima arancia trasformata, tempo addietro, in pollo. “E va bene - si conforta l’uomo - vorrà dire che il pollo verrà bandito dalla mia tavola.”, e si versa da bere. Ma pure il vino rievoca un’arancia; non quella di prima, si badi, ma un’altra arancia che è comunque un’arancia. L’arancia dell’aranceto nel deserto al cui succo strizzato fu dato il senso del vino. “Sicché mi toccherà bandire anche il vino. Peccato.” - C’è bisogno che aggiunga dell’altro? Vi suppongo perspicaci e avrete già capito. Durante i mesi passati nell’aranceto non un solo piatto né una qualsiasi forma di nutrimento possibile era rimasta esclusa dall’irrefrenabile profluvio della sua immaginazione culinaria. Nulla, tranne le arance. L’uomo prova ad addentarne una. Diamine, non sa affatto di arancia. “Ma io non voglio nutrirmi solo di arance. Non durerei, lo so. Significherebbe la mia fine. Nessun fisico umano potrebbe sopportarlo a lungo. Ma un attimo, riflettiamo. Se l’immaginazione mi ha già aiutato una volta, potrà farlo di nuovo; basterà educarsi ad affinare l’arte mia di allora. Dunque... L’arancia si è trasformata in pollo... e ora, perciò, un vero pollo mi riporta all’arancia... ma qui c’è dell’autentica matematica! Se il sapore che mi evoca il pollo è quello dell’arancia, che problema c’è?... Basterà convincersi che sia davvero un’arancia (come quella che mangiai allora) per trasformarla nuovamente (come allora mi addestrai a fare tanto bene) nel pollo che davvero sto mangiando. Tutto sta nel convicermi, insomma, che il pollo che mangio non sia davvero un pollo, ma che sia un’arancia. Così, infine, potrò godere del sapore del pollo mangiando un vero pollo e senza lasciarmi corrodere lo stomaco dal sovraccarico di acidi che me ne verrebbe da un eccesso di arance.” - Il punto interessante di tutto questa vicenda (meno speciosa di quanto vi possa apparire) è che un siffatto ragionamento l’uomo non l’ha mai formulato, e che tanti cavilli non hanno mai trovato in lui neanche l’ombra della sintassi con cui li abbiamo addobbati noi... No, per niente. Tutto lo sproloquio qui sdipanato in un orpello di tesi e di antitesi è semplicemente coinciso, nella realtà, con una fosforescenza di dimensioni nucleari... con un baleno metalinguistico capace di brillare, per un atomico nonnulla, nella volta mentale del nostro viaggiatore. Di fatto, l’uomo, sedutosi a tavola appena reduce dal suo aranceto, ha addentato un pollo che gli è parso davvero un pollo: sin da subito. O meglio: quasi sin da subito. Già, questo ‘quasi’ ci è necessario. Anzi: fondamentale. Esso corrisponde al minuscolo spazio (che è anche spazio di tempo) in cui ha potuto consumarsi, in un lampeggiare di preoccupazioni e furbizie, il dibattito che, con una certa pedanteria, noi abbiamo dovuto sciorinare ed estendere nell’ampiezza di un intero paragrafo.


Il brano qui proposto è tratto dal romanzo di Giuseppe Manfridi Cronache dal paesaggio, Gremese Editore, 2006


giuseppemanfridi@alice.it