FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia
Numero 13
gennaio/marzo 2009

Nutrimenti

MATTINI ANTARTICI, POESIE DI ROBERTO AGOSTINI
Essere nutriti dalle domande: rinascere?

di Fausta Squatriti



Divisa in vari capitoli sotto diversi titoli, l’intera raccolta di Mattini antartici (2008, Cierre Grafica) di Roberto Agostini è costellata da dolenti interrogazioni che non attendono risposta, espresse con veri e propri punti interrogativi. Il “mattino antartico” fa pensare a un inizio di giornata-vita sempre rimandato, dove diventa impossibile sciogliere il riserbo e cominciare ad agire. E quel poco o tanto agito sia pure nel gelo che lo blocca, è la nota di impotente, mesta denuncia della condizione umana, come si evince dal titolo della poesia che apre la raccolta (Fosti mai capace) che, già al terzo verso, dopo un inizio colloquiale di immagini retoriche preconfezionate quali “scalare il cielo” o “traversare il torrente in fuga”, affonda, è il caso di dirlo, nella sgradevole certezza di uno stato di impotenza perenne, e lo fa evocandola in una immagine come “liberarti della sabbia su una riva troppo morbida?/ No, no, no.” In quella risposta da coro greco sta la consapevolezza dell’autore, capace di trasformare ingredienti dalla evocazione immediata - cielo, torrente, fuga - in immagine metaforica più alta, come nei versi successivi “… sgranocchia, zampetta, qualche nero / uccello / alla finestra, dal vetro chiuso.” E poco oltre, il poeta allo specchio di se stesso, o dell’impossibile interlocutore: “se lo specchio era in lutto, quasi coperto / dai drappi, / la mano sul livido dono del Tempo…”.
Il meccanismo del linguaggio è proprio quello della traduzione, leggendo si vede e vedendo si legge, e questo scambio fecondo attinge dal patrimonio personale di conoscenze, andandone a scavare i sedimenti, come in una analisi clinicamente condotta, con forte scoperta del sé, e derivante sorpresa, compiacimento e immediata delusione.
Gli uccelli neri, sia pure intenti a nutrirsi, a zampettare, non sono buon segno, perchè lo fanno attaccati al vetro (della finestra) come nelle scene iniziali del film di Hitchcock, quando i neri uccelli sono solo un presagio. Ma vedo anche quella figurina di Uomo (è d’obbligo la maiuscola) che sull’estremo orlo del precipizio, in un dipinto dell’inventore del Romanticismo in pittura, Caspar David Friedrich, sfida il Tutto del Creato, tenendosi alla larga dal suo spaventevole Nulla, osservato si direbbe oggi da un panorama-point che la moderna scienza nascente andava sempre più rivelando, spiegandone i meccanismi e lasciando gli enigmi. La vertigine del Tempo, della quale Agostini ci rende partecipi, è stata usata dagli artisti in tanti modi diversi, e sempre vertigine rimane, anche emozione positiva, in quanto prossima alla consapevolezza, di misura del proprio Nulla di cui, grazie alla vertigine, si intravede la non misurabile incognita.

La grande rivoluzione delle arti del ‘900 è determinata dalla discesa verso il basso, agli inferi, altrimenti anche solo nello sporco e nel trito vissuto quotidiano, alla perdita dell’interlocutore alto degli ideali, delle vette, dei buoni sentimenti, del senso divino, del fine ultimo dell’esistente. E anche della malinconia come inclinazione al bene, ostacolato dalla sorte avversa, sentimento che attraversa i versi di Agostini.
La poesia, come l’arte visiva, smette di costruire la bellezza con immagini paradigmatiche. Osserva gli scarti, rende onore alle povere cose, non in senso aneddotico, pietistico, ma con un nuovo valore da dare a ogni frammento, nobile o ignobile, che costruisce il tutto, affidando la nuova bellezza al suo significato. La scala gerarchica del valore non è più piramidale, tutto sta allineato in senso orizzontale. Un tutto che non è più raggiungibile, mentre le inezie, quelle sì che sono amorevolmente raccolte, osservate, portate sull’altare laico dell’osservazione scientifica, analitica. E infatti Agostini scrive, “Sì, l’amore canta, teoricamente /... L’amore pronuncia, mangia, / dorme, è freddo, con la tua / voce. / Disteso sul tavolo come la carta. Nella baia...”.

Le motivazioni all’opera sono, da millenni, sempre le stesse: ricerca del sé, dell’altro, semplificando, dell’amore, della sacralità dell’esistenza. Ma sono le modalità dell’amore che cambiano, e Agostini lo sa, difatti ci dice, con bella invenzione e scarto logico, che l’amore mangia, dorme, ma specialmente che l’amore sta disteso sul tavolo come vuoto involucro, come carta. Ma dopo un’immagine che, per esprimere un concetto, si è fatta visivamente ardita, inattendibile, ecco la discesa, necessario contraltare. E scrive di baia della più grande città, sul mondo, dove l’amore, distante, se ne sta affacciato, e da lontano, canta. Come l’Uomo di Caspar David Friedrich. Il contatto non c’è. Ognuno sta dalla propria parte, in mezzo, la baia con la sua acqua, non nominata, anch’essa simbolicamente prolifica di rimandi iconografici.
Agostini non parla mai per sé, si rivolge sempre a qualcuno, che si intuisce come Essere che si vorrebbe poter amare meglio, invitandolo a gesti semplici, spogliarsi sulla spiaggia, nuotare. Parrebbe allora di trovarsi di fronte a quel tipo di poesia che si rivolge al quotidiano, distillandone quanto c’è da estorcere al banale, e invece no, nelle righe sottostanti lui vira verso altri valori, diventa astratto, e ci dice: “Ora affondi con la ragione / il sonno è spirito vegetale.
Perché questa immagine? Azzardo una ipotesi. Con la ragione si sprofonda perché non c’è fondo al ragionamento logico, contrariamente a quanto si potrebbe credere. Sprofondare, dove? Dentro al baratro, ma anche dentro alla terra, ove si impiantano le radici della Vita. Sonno come morte, morte come rinascita possibile, non solo dall’humus della terra, ma dal riposo della mente, dunque, sonno come spirito vegetale, che cresce a modo proprio, spontaneamente, perché invece, della bella Umanità, non si può più dire che cresca spontaneamente.

La morte spunta decisamente mentre ci si addentra nel testo. Anche I tre canti della nostalgia ci ingannano con il titolo. Ci sono parole terribili da usare in poesia come cielo, vento, mare, amore, luna, nostalgia, e altre adusate nella ricerca evocativa di un loro significato metaforico. Usarle, nella poesia del ‘900 e oltre, è una sfida, si può fare. Ma attenti, a renderle subito acide, a contraddirle, a fare capire che si tratta, ormai, di un messaggio cifrato. Agostini ci conduce all’inganno con raffinatezza efferata: “Chiunque non sa potrebbe sapere / se lasciasse il suo nome al vento / e un occhio sull’onda, ritirando / solo nocche fossili e un tumore / alla fine del creato...”.
Il pensiero della morte si fa strada anche come martirio, pur senza mai dirlo chiaramente, e proprio per questo diventa meno citazione storica e più universale sacrificio.
Nel III canto della nostalgia, ancora una volta un titolo parzialmente fuorviante, l’inizio colloquiale minimizza: “... la Nevrosi è piccola / moria d’estate febbrile, d’inverno coperta / nel gelo, i piedi inchiodati...”. Una crocifissione, una Rosa come fiore immortale, da interpretare come stigmate, e poi si dice di cenere, e io penso all’olocausto, anche perché Agostini subito dopo torna al supplizio, e per chi è stato immerso, inevitabilmente, nella iconografia cristiana, il martirio è quello di Cristo: “... un Arco attraverso i costati …”. E tutto si spiega, e non si spiega, con il viaggio, perché siamo giunti “all’Ultimo Movimento / sì o no?”. “La vittima domanda perdono / per essere riempita. Vuota ...”. E anche qui si parla di cenere: “Non è aguzzino di cenere forse?... Oroscopo di Babilonia / s’avvicina un quasi vecchio come me / che legge. / O non sa”. La condizione di che legge è qui pari a quella di chi non sa.
Ecco l’oroscopo di Babilonia sospingere il lettore verso la consapevolezza del troppo poco: “… alla difficile penuria delle Piante dei Piedi … al Caos della fisica./ Cespuglio su questo prato innevato di maggio apprensivo. / Dormi, tremore.” Le piante dei piedi che ci conducono al cammino, e metaforicamente al cammino della conoscenza, stanno in condizioni di penuria, tutto il viaggio ne sarà impedito, e la dolce rinuncia, dorme.




POESIE DI ROBERTO AGOSTINI
da Mattini antartici

(2008, Cierre Grafica)



Fosti mai capace

Fosti mai capace di scalare il cielo,
traversare il torrente in fuga,
liberarti della sabbia su una riva troppo morbida?
No, no, no.

Affondasti invece nella linea divisoria,
nell'ufficio chiuso, nel riverbero
di una storia,
sgranocchia, zampetta, qualche nero
uccello
alla finestra, dal vetro chiuso.

Fosti un adulatore di te stesso,
invece di seviziarti e strappare
qualche brano, avresti dovuto
accettare
la Mano, il Dono e il Tempo.

E capace di cancellare le forme specchianti?
Se lo specchio era in lutto, quasi coperto
dai drappi,
la mano sul livido dono del Tempo?

Fosti mai capace di cantare
alle finestre più alte
che nascondono il tremito,
l'antartico mattino, il soffio
che nessuno sa?


da “Progetto per un pomeriggio da suicidi”

2

Sì, l'amore canta, teoricamente,
con la tua voce ancora.
L'amore pronuncia, mangia,
dorme, è freddo, con la tua
voce.
Disteso sul tavolo
come la carta. Nella baia
della più grande città, sul mondo,
l'amore canta affacciato.
S'avvolge e accoglie
il punto strappato.
A mezzanotte, con l'onda
supina della baia più calma
del mondo, lo sparo e la pace.
Sì, l'amore ha cantato.


3

Ora vieni, sai riflettere a domani,
spogliato sulla spiaggia,
saprai nuotare.
Vieni e allontanati. A brani
la distanza fra qui e la tua isola
percorri. Non colmi. Tutto troppo
metaforico.
Ora affondi con la ragione,
il sonno è spirito vegetale.


da “I tre canti della nostalgia”

I

Chiunque non sa potrebbe sapere
se lasciasse il suo nome al vento
e un occhio all'onda, ritirando
solo nocche fossili e un tumore
alla fine del creato.
Chiunque è stato creato per esserci
fino alla fine della mano, del mare,
della vista, come se tutto raddoppiando
nascesse morisse, morisse e nascesse.
Oh stupido, ingrato, uomo quasi vecchio,
pensi ancora di disertare? E cantare
come un gufo o l'allodola, confondendo
il Bosco e il Campo? Come sei stato possibile,
fattibile, ora che stai perdendo il vero
amore?
Se avessi cercato prima il tuo respiro
nell'altra, il tuo labbro nell'altro labbro
e detto a lei, a lettere capitali: Io sono la
Nostalgia
Continua, la Terra Vivente, l'Alveare, l'Ape
Morta e senza il tuo miele Morto
senza rinascita.
Oh ignoto e quasi vecchio, pronto alla Fuga,
dove viaggerai senza corpi, occhi, nel mare ritirato,
lei il tuo Tsunami sulla guancia occipitale?
e tu Vento che non fosti mai?
Dove, no?


III

Non fare il difficile, la Nevrosi è piccola
moria, d'estate febbrile, d'inverno coperta
nel gelo, i piedi inchiodati, i polsi molli,
estate invernale unico Senso…
Oh verrà sì la Rosa come Fiore immortale
No, la Cenere sul Labbro,
un Arco attraverso i costati.
Ecco, tutto ho detto e contenuto,
in uno sciocco trittico rappezzato.
E siamo all'Ultimo Movimento,
sì o no?
Rapido, tagliente,
Treno di Notte,
o Spedizione Oceanografica nel deserto?
Oroscopo di Babilonia,
s'avvicina un quasi vecchio come me,
che legge.
O non sa.




ROBERTO AGOSTINI
Giornalista, scrittore e traduttore, è nato il 2 marzo 1951 a Milano, dove vive e lavora. Laureato in filosofia all’Università Statale di Milano, diplomato in regia alla Scuola del Piccolo Teatro di Milano, dal 1978 è iscritto all’Ordine Nazionale dei Giornalisti. Dopo gli inizi come critico teatrale per "La Repubblica", altri periodici e trasmissioni radiofoniche e televisive, è stato dirigente editoriale di case editrici nazionali e internazionali. Ha finora pubblicato saggi, romanzi e testi divulgativi per ragazzi, guide turistiche e artistiche. Tiene corsi di scrittura e anima gruppi di lettura nel Sistema Bibliotecario di Milano. La sua passione per la poesia risale agli anni giovanili e, dopo alcune pubblicazioni sparse, ha presentato la prima raccolta nel 2008, Mattini antartici (Cierre Grafica), segnalata al Premio Nazionale Lorenzo Montano.

 


fausta.squatriti@alice.it