FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia
Numero 12
ottobre/dicembre 2008

Suoni di versi

MARKO SOSIČ: TITO, AMOR MIJO

di Marija Mitrović



Tito, amor mijo (Litera, 2005), il secondo romanzo breve del regista e autore di testi teatrali Marko Sosič, ha in sé la freschezza del raccontare e il fascino della confessione, già presenti nel suo precedente romanzo (Ballerina, ballerina - in sloveno 1997, in italiano Ibiskos, 2005). Sosič rimane nel campo del romanzo familiare raccontato dal punto di vista di un membro della famiglia. Il narratore è un bambino di dieci anni, mentre l’azione è ambientata nel 1968. Il vero autore del romanzo, il regista e autore teatrale Marko Sosič, è nato nel 1958, il che conferisce al romanzo, attraverso il personaggio narratore e la sua storia, le caratteristiche di un lavoro autobiografico. Anche il luogo dell’azione è quello nel quale l’autore è cresciuto: un villaggio sloveno nell’entroterra triestino. Oltre però all’immagine dell’universo e del tempo dell’infanzia dell’autore, il romanzo ha in sé anche elementi fantastici e di fiction, partoriti dalla fervida immaginazione di un bambino sensibile, malaticcio, estremamente curioso e sveglio, e dall’ambiente che lo circonda, che, anche se modesto dal punto di vista sociale, in perenne contatto con i sogni, la musica, il teatro, il cinema e gli stimoli della natura circostante. Tutti i personaggi amano raccontare i loro sogni o eventi passati, come se fossero accaduti ora, qui, davanti ai nostri occhi.

L’azione si svolge in cinque mesi estivi (da maggio a settembre); e cinque sono i capitoli del libro, ognuno intitolato ad un mese, e tutti molto diversi in lunghezza. Il bambino nella sua crescita e maturazione e tutti quelli che lo circondano, la famiglia ristretta e quella allargata, il padre, la madre, la sorella, la nonna, il nonno, le zie, gli zii e i loro discendenti, i compagni di scuola, i vicini di casa... tutti loro vivono un tempo contraddistinto da desideri modesti ma passionali, da ricordi difficili e momenti piacevoli, nei quali si rifugiano grazie all’immaginazione sentendosi così felici e immuni al dolore, completamente distaccati dalla realtà. C’è qualcosa di Marquez in questi familiari, la forza di coprire la cruda realtà con sogni vivaci, rendere i sogni molto più potenti di qualsiasi realtà. Non è solo il bambino a immaginare la madre che vola alla corte della regina inglese, ma è la madre stessa, rapita dal suo canto a immaginarsi a corte. Con la fantasia fugge lontano dalla casa le cui scale di cemento scadente vengono consumate passo dopo passo, e che rischia anche di collassare a causa delle travi logorate dalle larve. Come nelle fiabe, la casa sul Carso è stata assemblata dalle mani del padre recuperando materiale già usato.

Il bambino vive i cinque mesi diviso emotivamente tra paura e speranza. Le speranze diventano una serie di piccoli desideri, che, in forma di preghiere, vengono rivolte al suo angelo custode, una figura di porcellana su una mensola sopra il letto. Le paure derivano da diverse situazioni: da impegni non rispettati, scolastici o verso gli amici, da incontri con personaggi legati a strane storie passate, per il bambino appena comprensibili, da una crescita difficile e lenta, da sogni insoliti (soprattutto quando sono gli adulti a risvegliarlo da questi sogni), da storie inconcluse raccontate dai grandi. Forse specialmente da questo tipo di storie. Il mondo dei grandi è fatto di verità frammentarie, spezzate, annunciate ma raramente raccontate fino alla fine, narrazioni alle quali il bambino cerca di conferire una coda dandogli un senso. Crescere vuol dire proprio questo: essere capace di ricomporre le cose rotte e sparpagliate conferendo ad esse un senso compiuto.
Ogni speranza, desiderio e preghiera che il bambino, sera dopo sera, affida all’angelo di porcellana sopra il letto, riguarda principalmente piccole cose, cose di ogni giorno: “Caro angelo custode, vorrei che da tutte le farmacie sparisse il vicks… perché la mamma me lo spalma ogni sera sul petto e la schiena… fa che sia più bravo in italiano… fa che la signora Slapernik, dalla quale mi manda la mamma, mi insegni a parlare bene e correttamente lo sloveno… fa che presto vada in giro per i campi in bicicletta con Ivan a cercare il buco che conduce al centro della Terra… voglio che papà sia felice… che zia Sofia non abbia più i suoi svenimenti… che le galline facciano tante uova, affinché la mamma le possa vendere e guadagnarci dei soldi…”.

I desideri sono però legati al superamento delle paure, e queste derivano, come abbiamo detto, da quello che il bambino sente dagli adulti. Va sottolineato che la vera grandezza del romanzo sta nel modo nel quale l’autore riesce a trasportare nel mondo tipico di un bambino di dieci anni, tutte le preoccupazioni che affliggono gli adulti. Sorprendentemente ampi sono i temi usati da Sosi&@269; nell’introdurci concretamente nel tempo e luogo storico.
In quell’anno (1968) sono ancora vivi i ricordi dei partecipanti alla guerra, il mondo è diviso in partigiani e fascisti, tra quelli che non vedono che meriti generici derivanti dal conflitto, e quelli che ancora oggi lasciano impronte sanguinolente al loro passaggio. Il terrore e lo sfogo rabbioso dei fascisti sulla popolazione inerme sono ancora testimoniati dalle conseguenze riportate dai singoli. La vita della minoranza slovena è insicura sia dal punto di vista economico che politico, ed è permeata dal reciproco sospetto. È come se il mondo fosse per sempre diviso tra Noi e Loro, tra la giusta lotta e la vendetta sanguinaria.

Il bambino, influenzato dai racconti degli adulti, vede ancora gli anfratti carsici come rifugi di guerra, i profughi arrivati dalla Jugoslavia con i quali la popolazione locale non vuole avere niente a che fare in quanto considerati traditori, ghettizzati nei campi di accoglienza. Ci sono ancora padri e madri spariti nella furia degli eventi bellici, o che addirittura, schiacciati dalle preoccupazioni, imboccano la via del suicidio lasciandosi alle spalle la prole ancora incapace di badare a se stessa. Sono presenti anche gli echi degli eventi mondiali: i russi che invadono la Cecoslovacchia, gente inerme che protesta dandosi fuoco, l’infuriare della guerra in Vietnam, il confine verso la Jugoslavia che si sta ammorbidendo…

Nell’insieme delle questioni poste che fanno parte della difficile comprensione del mondo esterno, va evidenziata forse quella che per il bambino è la più difficile: egli cresce in Italia, ma sempre circondato dai racconti dello zio sugli epici giorni di guerra trascorsi nelle file partigiane di Tito. A scuola, divisa in sezioni con lingua d’insegnamento italiana e slovena, il bambino sente ancora da parte dei suoi compagni offese come “slavi di merda”. Uno dei grandi desideri del bambino è quello di visitare la Repubblica di Slovenia, “che tutti indicano come mia patria. Piccola patria, nella grande patria Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia, là, oltre il confine, a Sežana. Fa che capisca che cosa vuol dire patria, in quanto lo zio Albert dice che la nostra patria è l’intera Jugoslavia, mentre la signora Slapnik dice che la nostra patria è solo la Slovenia, la mamma invece dice che siamo sloveni che vivono in Italia, che siamo in pochi e che spariremo se non ci saranno bambini, e dice che abbiamo due presidenti, il signor Saragat e il Maresciallo Tito, che non è signore ma compagno”.

Tutti questi interrogativi, veramente complessi nel momento della creazione dell’identità di un ragazzino, si riflettono non solo sul finale del romanzo (invece di incontrare Tito, cantare o addirittura partecipare come attrice in uno dei film che all’epoca si facevano su di lui, cosa che spesso il suo ricco datore di lavoro sloveno di Trieste e presunto amico di Tito le promette, la madre del bambino perde il lavoro. Il datore di lavoro la licenzia per prendere come serva la giovane amante di un suo amico, compagno d’armi dalla Jugoslavia, di modo che egli possa avere un luogo sicuro dove incontrare l’amante durante le sue visite a Trieste) ma danno inevitabilmente anche allo stesso titolo del romanzo, Tito, amor mijo, un significato ironico.
In quella lettera di troppo del titolo, quella lettera che dall’ortografia slava si è incuneata in una parola italiana, proprio in quella piccola ma importante differenza, vediamo quel cambiamento, cambiamento che va oltre le poche esperienze avute a testimonianza del mondo, e che supera i discorsi e gli insegnamenti degli adulti. Crescere vuol dire dare un senso compiuto ai frammenti delle storie, ma è anche un’esperienza autentica in una realtà ostile: solo il bambino ha sentito parte del discorso tra il datore di lavoro della madre ed il suo amico. È stato lui ad assistere alla scena nella quale il datore nasconde la foto del Maresciallo e di Jovanka, fino ad allora sempre facente bella mostra di se nel salone, in quanto si vergognava del suo passato comunista di fronte ad una persona che viene da un paese, cosiddetto comunista. Solo il bambino ha visto con i suoi occhi e sentito con le sue orecchie, e dopo di ciò non può accadere nulla di positivo: viene a sapere che è morta Alina, il suo primo amore, bambina che ha conosciuto un anno prima in un villaggio sloveno lungo il fiume Natisone.

Tutti gli altri fatti narrati, l’arrivo dei parenti che vivono in Bosnia, il ritorno di zia Sofia (uno dei personaggi che funzionano attraverso le loro emozioni e non attraverso la ragione), l’estrazione dalla testa di nonna Katerina del frammento di granata che si portava dietro dalla guerra, sono accaduti fuori dal tempo e non influenzati dal bambino, senza che egli ne sia rimasto scosso. Al bambino rimangono solo i suoi sogni, le sue fantasie vissute, fantasie dalle quali non si libera ne di giorno ne di notte, ne quando è sveglio ne quando dorme. Mentre tutto il paese festeggia il ritorno di zia Sofia (se n’era andata inaspettatamente in montagna per risolvere il problema che l’affliggeva, la sua impossibilità di dimenticare anche dopo vent’anni, Karlo, il suo primo amore), il bambino immagina di ballare con l’ormai morta Alina.

Perché guardi verso le nuvole? Sento una voce alle mie spalle. È papà.

Fisso il suo viso sorridente e immagino che adesso mi racconterà fino alla fine la terribile storia di zio Kristijan, che viene trascinato dai tedeschi attraverso le ringhiere, in primavera, quando fioriscono le amarene.

Queste sono le ultime frasi di un romanzo fatto di racconti frammentari, della maturazione di un bambino e delle sue fantasie. Tutta la bellezza e il misticismo del romanzo derivano proprio dalle fantasie del bambino. Esse vanno semplicemente lette, assolutamente non raccontate in questa sede.


da Tito, amor Mijo
di Marko Sosič


1

Mi libero del lenzuolo che copre il mio corpo, stendo il braccio fino alla mensola di legno sopra la testiera del letto e accendo la lucina. Non riesco a addormentarmi. Sto sdraiato sul letto nella mia camera, che adesso è solo mia, e penso al mare, che è laggiù oltre la cima, azzurro e profondo. Mia sorella ha una camera sua, perché è molto più piccola di me e deve abituarsi a dormire da sola al buio, perché è giusto così. Perché i bambini e le bambine non devono dormire nella stessa stanza, dice la mamma, e anche perché di notte si sveglia e piange perché le fa male la sua piccola pancia e poi vomita. Proprio come il papà, quando è triste e ride apposta, perché io non veda la sua faccia preoccupata per i soldi che non gli bastano. Sta sulla porta, allora, sulla porta del bagno e mi sorride, poi la chiude e vomita nel gabinetto. Io lo sento. Allora resto in mezzo al corridoio, mi tappo le orecchie con le mani e in testa mi entra la musica, quella che il papà ascolta alla radio. L’opera. Penso a lei. E allora lei viene, proprio mentre il papà vomita. Sento la voce di donna e l’orchestra e le parole che lei sta cantando:

        Aaaamaaamiii Alfreeedooo, mmmmmmmmm…

E poi sento l’acqua che il papà fa scorrere nel gabinetto, e la chiave che gira nella porta, quando lui l’apre. E poi lo vedo di nuovo sulla porta, spettinato e col viso pallido, che mi sorride. E provo a restituirgli il sorriso, perché non abbia paura delle mie preoccupazioni per lui. Sono nei miei occhi. Sento che le vede, allora, quando mi guarda spettinato e pallido per aver vomitato. Sento che vede le mie preoccupazioni, le crepe nei muri della casa, i vermetti nelle travi sciupate della soffitta, le scrostature nere nel marmo fradicio delle scale che portano nella casa, le vecchie tegole sbrecciate, dalle quali nessuno sa quando, al primo temporale, comincerà a filtrare la pioggia.

Guardo la lucina che sta accesa sulla mensola di legno sopra il letto, e il bianco angelo di porcellana che sta nella sua luce gialla. Dirò una preghiera all’angelo sulla mensola e gli chiederò di esaudire i miei desideri, così poi mi addormenterò e sognerò. Basta dirgli una preghiera e va tutto a posto, ti addormenti e sogni, dice la mamma. Così dice, quando di sera si china sul mio letto e mi dà il bacio sulla guancia. Io non voglio che mi baci, ma non trovo le parole per fermare il suo viso stanco che la sera si china sul mio letto.

Guardo l’angelo sulla mensola. Lo vedo come allora, quando stava attaccato a una grande scatola di cioccolatini che ricevo in regalo per la prima santa comunione, quando mi fanno mettere un vestito blu con i calzoni corti, i calzettoni bianchi, e mi fanno infilare le scarpe laccate, che sono ancora belle nuove allora, perché la mamma le ha comprate a puf, un po’ per volta. Questo sarà il tuo angelo, dice allora la mamma, lo prende in mano e lo stacca dal coperchio della scatola di cartone dei cioccolatini. Adesso intorno al collo ha del nastro adesivo, perché è caduto dalla mensola, e la sua testa è rotolata sotto l’armadio. La mamma dice che sognavo, allora, e agitavo le braccia, che agito sempre le braccia, quando sogno. Sto sdraiato sul letto e prego: Angelo di Dio che sei il mio custode, illumina, custodisci, starnutisco, reggi e governa me, un po’ di moccio mi cola dal naso, che ti fui affidato dalla pietà celeste. Amen. Tiro fuori il fazzoletto dalla tasca del pigiama, mi asciugo la candela e mi faccio il segno della croce. In nome del padre, del figlio e dello spirito santo. E rimetto il fazzoletto nella tasca del pigiama.

Caro angelo custode, fa’ che nessuna farmacia abbia più il vicks, perché la mamma mi ci massaggia ogni sera la schiena e il petto. Lei pensa che anche il vicks scaccerà l’ombra dai miei polmoni, e non solo i pini del bosco, dove dall’altr’anno mi porta ogni mattina a respirare, se non piove. Voglio che l’ombra sui miei polmoni non se ne vada affatto via, che resti lì dov’è fino all’estate e anche oltre, perché così a Laze vedrò di nuovo Alina. Sì, a Laze, vicino al fiume che sottovoce si chiama Nediža.

La maestra, che ha l’automobile rossa e gli occhi neri, dice che in italiano scrivo male. Fa’ che io diventi più bravo e che quest’anno agli esami, quando la maestra ci farà il dettato, scriva bene tutte quelle parole che hanno le doppie. Fa’ che la signora Slapnik, dalla quale mi manda la mamma, mi insegni a parlare bene e senza errori lo sloveno. Lei sa, perché è venuta qui con suo marito dalla Jugoslavia. Io ho paura di suo marito, che non ho ancora mai visto, perché lo zio Albert e anche gli altri dicono che la le mani macchiate di sangue. Fa’ che io capisca perché le sue mani sono macchiate di sangue, e che non abbia più paura.

Ora sono alto un metro e cinquantadue centimetri e porto scarpe numero trentacinque, di solito quelle che Jurij, mio cugino, non usa più. Fa’ che io cresca almeno altri venti centimetri e che porti le scarpe numero quaranta, come il papà. Jurij dice che se cresci tu, cresce anche il tuo pisellino. Il mio ora ha cinque centimetri, ed è sempre uguale. Quello di Jurij invece si trasforma e cresce, quando certe volte dormo da lui e lui mi racconta delle storie che mi spaventano e mi piacciono. Fa’ che cresca anche il mio.

La mia vicina Angiolina è alta almeno cinque centimetri più di me, perché ha tre anni più di me, proprio come Jurij. Angiolina ha solo il papà. Lui ha sempre male alle dita del piede, quelle che non ha più, e perciò va ogni anno a Lido di Venezia, perché lì c’è un sacco di sabbia calda che gli fa bene, così poi le dita del piede, quelle che non ha più, gli fanno un po’ meno male. La signora Slapnik dice che in sloveno Venezia si chiama Benetke, ma io dico Venezia, perché penso che quella città sia come una donna. Io però non ho mai visto una donna. Angiolina dice che un giorno mi mostrerà tutto quella che ha sotto il vestitino. Fa’ che succeda davvero, perché la signorina Moore, che abita nella vecchia villa ricoperta di edera, non lontano dalla casetta in cui vivono la nonna Katarina e il nonno Mario, dice sempre: Oh, what a beautiful girl. Il papà dice, perché capisce la lingua inglese, dato che spaccava la legna nella caserma degli americani, che quello che dice la signorina Moore significa Oh, che bella bambina. Io non sono una bambina, perché le bambine non hanno il pisellino, lo so.

Ivan è il mio unico amico. Fa’ che andiamo prima possibile di nuovo in campagna con le nostre biciclette e che troviamo il buco che ci porti fino al centro della terra, come ci siamo messi d’accordo.

Desidero che il papà non sia costretto a vendere la vecchia vespa perché non ha i soldi per pagare il puf per la casa, che ha costruito da sé con mattoni, travi e tegole usate. Fa’ che il papà mi porti in vespa a Venezia, che sorge sul mare, e mi faccia vedere le grandi ruote di ferro sottoterra, attorno alle quali girano i cavi di ferro che fanno calare il tram giù verso Trieste. Voglio che il papà sia felice. Mi piace quando ride, quando di mattina si sveglia ed è tutto spettinato. Quando si tuffa in mare dallo scoglio alto. Quando fa ginnastica. Lo vedo, sulle fotografie lo vedo che è ancora giovane e fa ginnastica con lo zio Albert, che era partigiano e ora è sposato con la zia Sofija, che è la mamma di Jurij e di mia cugina Sonja, con cui abitano anche la nonna Lucia, che è la mamma dello zio Albert, e Josipina che è cieca, e abitano tutti quanti dietro alla casa, dove una volta tenevano i maiali. Fa’ che il papà sia sempre felice.

Desidero che la zia Sofija non svenga più, perché non sappiamo mai se si risveglierà, neanche quando lo zio Albert le dà gli schiaffi per svegliarla, perché le vuole bene e non vuole che muoia.

Desidero che le galline del pollaio dietro alla casa facciano tante uova, così la mamma potrà venderle e guadagnare dei soldi. Per il puf in banca.

Fa’ che io possa andare in gita scolastica, se sarò promosso, così potrò vedere la Repubblica Slovena, della quale tutti dicono che è la mia patria. Una piccola patria nella grande patria della Repubblica socialista federativa di Jugoslava, là oltre il confine, a Sežana. Fa’ che io capisca cos’è la patria, perché lo zio Albert dice che la nostra patria è la Jugoslavia intera, la signora Slapnik dice che la nostra patria è solo la Slovenia, la mamma invece dice che noi siamo degli sloveni che vivono in Italia, che siamo in pochi, che se non ci saranno bambini spariremo, e poi dice che abbiamo due presidenti, il signor Saragat e il maresciallo Tito, che non è un signore ma un compagno.

Fa’ che finisca la guerra in Vietnam, perché il papà non ride mai, quando legge il giornale e dice: Ancora morti, ma quando finirà questa carneficina? Fa’ che la gente in Cecoslovacchia e in Ungheria non si dia più fuoco. Il papà dice che la gente si dà fuoco, perché in Cecoslovacchia e in Ungheria sono arrivati i russi. Con i carri armati.

Il papà dice che gli indiani in America hanno ragione ad arrabbiarsi a causa della terra che gli rubano. Dice che gli indiani in America ci assomigliano, perché anche a noi rubano la terra. Fa’ che io capisca chi è nostro amico e chi è nostro nemico.

La nonna Katarina dice che il nonno Mario è troppo servizievole con la signorina Moore, che abita nella vecchia villa vicino alla loro casetta. La nonna dice che la casetta, che una volta era destinata alla servitù, è stata regalata loro dal signor Cosulich, che è stato il loro primo e unico padrone. La nonna dice che la signorina Moore, che è inglese, non è mai stata la loro padrona e che il nonno non vuole capirlo. Fa’ che lo capisca.

Angelo di Dio che sei il mio custode, ti prego, fa’ che la nonna Katarina non muoia a causa della pallottola che ha in testa. La zia Sofija e la mamma dicono che la pallottola di piombo ha colpito la testa della nonna quando da noi c’erano gli americani, e i partigiani se n’erano già andati. Dicono che vicino alla villa e alla casetta della nonna, dove abitavano anche la mamma e la zia Sofija, quando erano ancora ragazze, c’era un soldato che puliva il fucile e che il colpo è partito per sbaglio. La mamma e la zia Sofija dicono che la pallottola ha raggiunto direttamente la guancia della nonna, proprio mentre raccoglieva il radicchio nell’orto. Che ha perforato la pelle della sua guancia e si è fermata sotto i suoi denti, accanto alla vena del collo. Dicono che ancora adesso nessuno può operarla, perché l’operazione è mortalmente pericolosa. Angelo di Dio che sei il mio custode, fa’ che la nonna non muoia finché non sarò cresciuto e sarò diventato un chirurgo, come Christian Barnard, che vive in Africa e sa guarire alla gente il cuore, se batte troppo piano.

Caro angelo, la mamma guadagna i soldi con le uova di gallina e come domestica, come la zia Sofia e la mamma di Ivan, che lavora dalla baronessa. La mamma lavora in una famiglia dove parlano tutti nella nostra lingua e sono ricchi, perché la signora ha un negozio, il signore invece viaggia per il mondo e conosce un mucchio di persone. La mamma dice che i suoi padroni sono amici del maresciallo Josip Broz Tito, che ha liberato Trieste e il nostro villaggio, e che sua moglie Jovanka è anche lei loro amica. La mamma dice che il suo padrone le ha promesso che all’occasione le farà conoscere Jovanka e il maresciallo Tito, che è stato il comandante supremo di tutti i partigiani e anche dello zio Albert. Il suo padrone dice che allora la mamma potrà anche cantare qualcosa, perché ha una bella voce e perché il maresciallo Tito ascolta volentieri le belle donne che cantano con una bella voce. Fa’ che succeda davvero.

Il papà dice che comprerà la televisione, quando vincerà al lotto. La mamma dice sempre che preferirebbe fare l’infermiera piuttosto che la domestica, oppure la ballerina, così volteggerebbe leggera come una piuma, oppure l’attrice, come Anna Magnani, che guardiamo in quel film alla televisione dalla zia Angiolina o dallo zio Albert, mentre corre dietro al camion e grida Francescooo! Francescooo!, e poi i fascisti l’ammazzano e lei cade a terra. Certe volte sogna e io la sento parlare nel sonno. La mattina dopo dice di aver sognato la regina Elisabetta e che loro due bevevano il tè insieme. Come sempre. Fa’ che la mamma sia quello che desidera di più, come tutti quei poveracci nel film che guardiamo alla televisione dallo zio Albert, che quando gli prendono le baracche di latta e la terra su cui vivono, si scaldano felici all’unico raggio di sole e poi volano tra le nuvole.

Spero che la testa per un po’ di tempo non ti si stacchi, caro angelo, e che tu esaudisca i miei desideri. Amen. Ah, quasi dimenticavo: Fa’ che io scopra chi è quell’uomo col grande cappello di paglia, che non avevo mai visto prima. Adesso se ne sta sempre vicino al tabaccaio, e se io e la mamma passiamo di lì, lei mi stringe sempre la mano e mi trascina dall’altra parte della strada. Non mi stringe mai così forte come quando vediamo l’uomo col grande cappello di paglia. Come mai? Amen.

Spengo la lucina e nel pensiero vedo il mare, che è laggiù oltre la collina. Azzurro e profondo.


Marko Sosič, Tito, amor mijo, Edizioni Študentska založba Litera - Maribor, Slovenia, 2005.

Traduzione dallo sloveno di Darja Betocchi




Marko Sosič
Regista e scrittore, nasce a Trieste nel 1958. Si laurea all'Accademia per l’arte teatrale e cinematografica dell’Università di Zagabria. Ha firmato regie in diversi teatri sloveni e italiani, nonché per la televisione. È autore di diversi drammi radiofonici, prodotti per i programmi sloveni della sede regionale della RAI di Trieste e per la Radiotelevisione slovena di Ljubljana. Alla fine degli anni ’80 ha iniziato a pubblicare racconti brevi in varie riviste letterarie. È stato direttore artistico del Teatro Nazionale Sloveno di Nova Gorica dal 1991 al 1994. Negli anni 1999 - 2003 è stato direttore artistico e direttore generale del Teatro Stabile Sloveno di Trieste. Nelle stagioni 2003/2004 e 2004/2005 è stato direttore artistico del festival teatrale nazionale sloveno “Borštnikovo srečanje”. Nel 2005 è stato riconfermato direttore artistico del Teatro Stabile Sloveno di Trieste. Da direttore artistico ha finora firmato le produzioni di oltre 60 spettacoli di prosa con le regie di artisti italiani e dei più autorevoli registi del panorama contemporaneo sloveno, croato, serbo, bosniaco, macedone, polacco, ceco.
Ha pubblicato la raccolta di novelle Rosa na steklu (1990), la cronaca teatrale autobiografica Tisoč dni, dvesto noč (1996), il breve romanzo Balerina, Balerina (1997) che si è classificato tra i finalisti per il Premio Kresnik per il migliore romanzo sloveno, infine il romanzo Tito, amor mijo (2005) con il quale è entrato nella rosa dei nominati per il prestigioso premio del fondo Prešeren e nuovamente tra i finalisti per il premio Kresnik. È stato insignito di vari premi tra i quali: Prvomajska nagrada per il film Pomladni posmehi, due premi Zlata paličica per la regia di lavori per ragazzi, il premio Vstajenje per il romanzo breve Balerina, Balerina, per il quale ha ricevuto anche il riconoscimento speciale Umberto Saba ed il primo premio Città di Salò 2005.
Il Pen club sloveno di Ljubljana ha scelto il romanzo Balerina, Balerina a rappresentare la Slovenia al Premio Strega europeo 2008.


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