FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia
Numero 12
ottobre/dicembre 2008

Suoni di versi

HENRI CHOPIN E IL CANTO DELLE BALENE

di Viviane Ciampi



La cronaca di oggi, primo giorno d’autunno del duemilaotto, riporta un canto primordiale di balene udito dai biologi del Cornell Lab of Ornithology grazie a raffinati strumenti piazzati sotto i colossi di cemento della Grande Mela.
Il manto del prato d’un garage sottocasa, invece, è cresciuto senza rumore. Senza dirlo a nessuno. Ma tra filo d’erba e filo d’erba, quello che nasce fruscio, con la connivenza della gramigna, diventa pandemonio.
«Oh», pensiamo. E poi «ah». «Ah» ha prodotto un suono. «Ah» ha un senso.
Ma la città non ama i temi agresti e va avanti coi suoi clacson, stridii di gomme d’auto e di radio a tutto volume. Un treno rallenta in prossimità della stazione: non siamo né dentro né fuori, abbiamo solo registrato che fischiava, come quando ci ammaliamo di acufene.
Gringo, gru, lutto, lux, vox, fluxus: la parola urta l’aria.
Lupino, lupercale, oremus, organum…
La parola rimbomba in testa prima dell’esplosione, quella vera, fuori area linguale.
Ricche sono le ore dell’alfabeto, del fonema, del sintagma.


foto di Lino Cannizzaro

Ogni mattina facciamo questo e ancora quello: apriamo la porta, chiudiamo la porta, scorgiamo le cose, il suono delle cose come se per sempre dovessero esistere. Non ci sono balene qui, ma mobili, pareti, e dove non esistono pareti, uffici apparentemente democratici detti open space, dove tutti controllano tutti.
«L’inconveniente delle pareti è di non intercettare i suoni».1
Ma non vediamo la parola, i suoi colori.
«Y è anche una parola composta d’una sola lettera, cosa rara. Una sola lettera con diversi sensi, tutti insoliti, elastici, come un movimento che comprenda l’insieme dei movimenti, persino l’immobilità…»2 Quando d’improvviso la parola esplode non sappiamo se uscirà viva dalla gola; se noi usciremo vivi dalla performance dell’esplosione della parola. Pare che esista la nostra parola e in risposta alla nostra parola, la parola degli altri. Sono tante esplosioni.
Spesso non vi è attinenza tra la nostra parola e la risposta alla nostra parola. Nel tal caso non possiamo dire che vi sia stata una vera esplosione. Ma il bello della parola è la parola stessa. Il verso le fa il verso ma vestendosi da sera, senza bisogno d’accompagnamento musicale.
Nulla cambia col verso ma c’è chi regalerebbe la propria vita pur d’inventare il suono sorprendente delle parole nel verso. O andrebbe in capo al mondo per trovare il suono giusto delle parole nel verso. Sarà che fa paura la parola in carne e ossa. Arriva molle, aspra, tronfia, non pieghevole. Il verso ubbidisce a delle leggi ben precise scritte in chilometri di libri dove si scopre tra le righe che qualcuno trasgredisce.
Eppure l’energia della poesia cresce lo stesso.
Henri Chopin, tanto per fare un esempio è (era) un trasgressore.

Nato in Francia a Parigi per l’esattezza nel millenovecentoventidue.
Avrebbe voluto studiare musica, iscriversi al Conservatorio ma (ironia della sorte) chiamandosi Chopin come l’altro più famoso, Frédéric, pensò che sarebbe stato ridicolo il confronto e vi rinunciò. Henri Chopin si dedicò alla poesia con scopi, come si può intuire, non precisamente lucrativi! In un primo tempo disponendo le metafore, il ritmo, gli enjambement, la semantica e (perdutamente) i silenzi. Cercava la vibrazione nascosta, canali d’accesso verso ciò che vibra che scroscia che splende.
Ma scoprì di non amare particolarmente il suono della sua voce quando diceva la sua poesia. Almeno, questo è ciò che affermano alcuni esegeti. Di sicuro, amava ancor meno le sue parole scritte sulla pagina, tanto è vero che le bruciò vicino alla Senna e l’atto fu inteso come la sua prima poesia-azione.
In seguito Henri Chopin ingoiò un microfono-sonda.
Non fece solo l’ingoiatore di sonde ma spesso viene ricordato per quello. Il nostro - dicevamo - ingoiò il microfono-sonda per ascoltare il ritmo, il gorgoglio, il borbottio della sua camera interiore.
Non trovò nulla in forma di parola.

Vi fu un’estensione dell’esperimento: lasciò la sonda a rimuginare in fondo allo stomaco. Poi piano piano e – con sorpresa – vi trovò non la poesia ma l’impronta della poesia, un feto che già piangeva con un grido-canto, che sospirava, un poco angelo, un poco mostro, un poco fratello del buio e della luna. E credette di udire un raduno di sgorbie scalpelli zoccoli di toro inseguiti in sogno.
Qualcuno disse questa non è poesia e neppure musica.
Qualcuno disse questa è solo musica sperimentale.
Qualcuno scrisse dove stiamo andando?
Ma era nato un poeta del nastro magnetico poeta fonetico, tecnomoderno, audiopoeta, dattilopoeta, in contro-lingua, nell’aldilà della lingua così a lungo bistrattata.
Henri Chopin fu definito - perché bisogna pur semplificare - poeta sonoro.
A lui sarebbe certamente piaciuto registrare col suo Revox il canto sottomarino delle balene di New York. Non per curiosare nel grande spettacolo degli schermi, ma per capirne la melodia, la poesia, il dolore.



1Il brano di poesia è di Jean-Jacques Viton da Poème pour la main gauche, Ed. La main courante.

2Il brano della poesia è (in traduzione di chi scrive) di Michelle Grangaud, da Souvenir de ma vie collective, Ed P.O.L.




Henri Chopin
È morto in piena attività il 3 gennaio 2008 all’età di 85 anni, dopo una vita dedicata alla sperimentazione poetica (decidendo di rinunciare alla scrittura) iniziata dopo aver visto il film Traité de bave et d’éternité (1952), dove scopre Isidore Isou, e aver subito il fascino del grido di Antonin Artaud in cui emerge che l’energia della voce altro non è che la vita stessa.
Nel 1959 fondò "OU", prima rivista di teoria e poetica del suono che accoglierà autori come Dufrêne, Bernard Heidsieck, William Burroughs, Ladislav Novak, Mimmo Rotella e molte altre figure fondamentali delle avanguardie mondiali.


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