Parigi, maggio 2008
Da molti mesi, in Francia, si commemorano i quarant’anni del maggio ’68, argomento sensibile che divide il Paese, specie da quando Nicolas Sarkozy è al potere e desidera liquidarne al più presto l’eredità. Il J’accuse del presidente francese ha così dato, paradossalmente, un’involontaria impennata pedagogica a un anniversario che forse sarebbe scivolato in sordina e invece torna alla ribalta tra revival e ottenebramenti, tra apologie e denigrazioni.
C’è chi ne parla con ripulsa, come si fosse trattato di una manifestazione pressoché spontanea di studenti del quartiere latino in vena di saltare la scuola o l’università, ai quali si sarebbero accodati gli operai. Insomma, una rivoluzioncina culturale nata dal nulla e gonfiata dai mass media il cui slogan in voga allora, il famoso “Interdit d’interdire” (Vietato proibire), andrebbe ripensato come l’origine della grande débâcle dell’educazione, un lento scivolare verso il lassismo. Sicché, “buttar via il sessantotto”, è diventato per taluni una parola d’ordine.
In altre sfere dell’esagono, inutile dirlo, vi è tutt’altra musica: si replica che questo modo di ragionare equivale a chi per sbarazzarsi del proprio cane sparge voce che ha preso la rabbia.
Capitava già allora, quarant’anni fa, di sentire per la strada gente attonita bisbigliare durante le manifestazioni: «per quei deficienti ci vorrebbe una guerra» oppure «sono i re dell’autodistruzione organizzata: tornino a studiare!».
A dare corpo alle contestazioni furono gli studenti anarchici del Mouvement 22 mars che occuparono la facoltà di lettere di Nanterre guidati da Daniel Cohn-Bendit, lo stesso che anni dopo sarebbe diventato parlamentare europeo.
La protesta si presentava non solo come un dichiarare guerra ai “bourgeois” (o ai “bourges” come si dice in abbreviato per indicare i borghesi), bensì come un desiderio di tabula rasa contro condizioni di studio e sistemi di valutazione selettivi e desueti (solo il 12% dei giovani aveva accesso al baccalauréat, l’esame di maturità).
Inoltre, aleggiava una stanchezza per la politica paternalistica e conservatrice del generale Charles de Gaulle (protagonista della resistenza durante la seconda guerra mondiale e presidente della repubblica), politica che ormai cominciava a sfibrarsi dopo le vicissitudini della guerra d’Algeria. Intanto arrivavano gli echi dei movimenti pacifisti dagli Stati Uniti, da parte di quei ragazzi che sentivano di doversi ribellarsi al consumismo e all’individualismo, e soprattutto alla guerra del Vietnam presa come simbolo di tutto il caos del mondo.
Sarebbe anche giusto dare conto di una presunta (ma anche discussa) influenza dei movimenti d’avanguardia, in particolare dell’Internazionale Situazionista (i cui protagonisti erano artisti e intellettuali come Guy Debord, Jorn, Isidore Isou, Pino Gallizio…). A tal proposito rimandiamo a un saggio scritto da Sandro Riccaldone, studioso delle avanguardie del secondo ’900, dal titolo Una situazione provvisoria (Cosio 1957), pubblicato in allegato alla rivista di arte e cultura "Icaro" (n. 5): «Nonostante la penetrazione delle idee situazioniste nell’ambiente studentesco francese, è dubbio che il maggio ’68 possa essere considerato come un prodotto dell’I.S., così come non può reputarsi soltanto una fortunata coincidenza».
Ma cosa accadde, nel ’68 a coloro che tanto avevano desiderato voltare una pagina polverosa della realtà che stavano vivendo?
Si può, a tal proposito leggere nello stesso saggio: «Si racconta che Isidore Isou sia andato incontro ad un tracollo quando, nel maggio 1968, vide realizzarsi il suo progetto del Soulèvement de la jeunesse e non fu chiamato a guidarlo. Guy Debord, dal canto proprio, ebbe parte nel movimento ma non seppe indirizzarne il corso nella sua prospettiva. Jorn, infine - secondo la testimonianza di Jacqueline de Jong - rimase in disparte, avvertendo melanconicamente la distanza che ormai lo separava dai ventenni».
Nel ’68, la tempesta studentesca fu subito “agganciata” dai sindacati operai.
Negli anni precedenti, i lavoratori avevano messo in atto scioperi durissimi dove non mancarono scontri con le forze dell’ordine. Ricordiamo che la settimana lavorativa era di 48 ore (in qualche caso arrivava a oltrepassare le 50 ore) mentre i salari dei francesi erano fra i più bassi d’Europa. Il 13 dicembre del ’67 milioni di lavoratori, tra i quali molti immigrati, parteciparono a una giornata d’azione organizzata dai sindacati per protestare contro la disoccupazione e i problemi della "Sécurité Sociale" (quella che corrispondeva e corrisponde tuttora al sistema mutualistico italiano). Febbraio ’67: scoppia lo sciopero dei 3200 lavoratori degli stabilimenti Rhodiaceta di Besançon, poi Rhodiaceta di Lione, seguito dai giganti della Cellophan, con l'intervento di migliaia di poliziotti. Gennaio del ’68, a Caen: 4500 operai della Saviem incrociano le braccia chiedendo l’aumento dei salari.
Molti degli lavoratori di allora (in questi mesi, radio e tv hanno abbondantemente rispolverato i documenti d’archivio) testimoniano in questi termini: «nel ’68 scioperavamo non tanto per il salario quanto per le condizioni di lavoro alle quali eravamo sottoposti, specie in fatto di stress e di sicurezza».
Fatto sta che maggio ’68 non si limitò alle cosiddette “barricate parigine” di operai e studenti con lanci di “pavés” contro le forze dell’ordine, ma di una rimessa in questione di tutta la società, anche nei confronti della cultura ufficiale, al grido di VLR (Vive La Révolution).
Nel dilatarsi degli avvenimenti, storica fu l’occupazione del teatro Odeon dove i dimostranti entrarono urlando: «occupiamo questo bastione della cultura dominante», di fronte a uno sbigottito Jean-Louis Barreau (mito indimenticato del teatro francese) che si difendeva con un: «non siamo affatto un teatro borghese!».
Saltò l’annuale Festival di teatro di Avignone, fiore all’occhiello della cultura francese.
Non andò meglio al Festival di Cannes.
Inizialmente parve filare liscio con il suo solito glamour. Sordo alle barricate di Parigi, si sgretolò dopo i primi giorni dall’apertura quando Jean-Luc Godard, François Truffaut e Claude Lelouch guidarono la contestazione chiedendo nuove regole per una kermesse cinematografica considerata elitaria e fuori dalla realtà sociale del Paese. Per la cronaca, Monica Vitti, Terence Young e Roman Polanski si ritirarono dalla giuria mentre il suo presidente, Robert Favre prese la decisione di chiudere un Festival che era stato inaugurato (quando si dice il destino!), da Via col vento, proiettato in nuova copia di 70 mm. Molti, sulla Croisette, pensarono che il carrozzone di Cannes non avrebbe riaperto i battenti neppure in seguito, come riporta la bibbia della critica cinematografica, Les cahiers du cinéma.
Maggior gloria non ebbe neppure il mondo della musica: sui muri dello storico Conservatoire de Musique della rue de Madrid a Parigi, si poteva leggere “Xenakis non Gounod” (Xenakis, il creatore greco di musica contemporanea, contro Gounod, il musicista classico, ndr).
Era chiaro, dunque: anche gli studenti del conservatorio volevano cambiar musica. Ne richiedevano una (citando testualmente), “selvaggia ed effimera…”.
La contestazione si fece largo addirittura nel dorato mondo del calcio, ma l’episodio, forse, meriterebbe un articolo a parte.
E le donne in tutto questo?
In realtà, per molte di loro non furono rose e fiori. Era l’epoca, non ancora conclusa, dei salari femminili più bassi di quelli maschili, e del divieto di poter aprire un conto in banca senza l’autorizzazione del marito o del capofamiglia. Le minigonne di Mary Quant, messe in mostra sulle passerelle di Londra dall’anoressica Twiggy, cominciavano a fare capolino sulle gambe delle francesine più temerarie, mentre in alcune scuole i pantaloni erano ancora negati alle femmine. Si canticchiavano le canzoni orecchiabili di Sylvie Vartan (“Ce soir je serai la plus belle / pour aller danser… er… er…”) e Sheyla. Ma c’erano ragazze che cantavano l’engagement di Léo Ferré e Georges Brassens, che avevano letto Sartre, Rosa Luxembourg, Gramsci, Althusser e Simone de Beauvoir.
«Eravamo in preda a una gran voglia di cambiare il mondo. Credevamo davvero di renderlo migliore. Ma i maschi, che nel privato ci guardavano con benevolenza, facevano in modo che non fossimo mai in testa ai cortei. Dicevano di farlo per proteggerci, ma era una scusa», spiega Marlène dall’emittente France 2, che ricorda anche la formazione di gruppi che adesso farebbero sorridere, come un improbabile “gruppo femminista contro la penetrazione”…
«Ho capito ben presto che persino i compagni che tanto parlavano di libertà, di eguaglianza, in realtà ci relegavano a ciclostilare volantini o a preparare panini, quando si occupavano le aule», spiega Chantal, ex sessantottina ai microfoni di France Inter. «L’eguaglianza c’era ma solo a parole. Tuttavia, questo ci diede la carica, in seguito, per capire che dovevamo fare una battaglia tutta nostra, avendo come interlocutrici altre donne. Da lì, si doveva ripartire».
In effetti, la cosa più difficile, nella Francia di allora, per una ragazza, era proprio “prendere la parola” in un’assemblea, di fronte ai maschi quasi sempre più avvezzi alla politica. Ci riuscivano in poche, e non erano certo ben viste dagli emuli di Dany le Rouge (soprannome di Cohn-Bendit).
Quelle che si lasciavano intimorire dagli anarchici, dai marxisti, dai trotzkisti o dai maoisti, finivano col restare mute, con un senso di frustrazione e disistima di sé. Ma non c’era polemica, solo distanza. Alcune rimasero disgustate per sempre della politica. Ma molte di quelle timide ragazze divennero, in seguito, leader di primo piano nella società.
Allora, il ’68, va visto come un bene o come un male?
Quali miglioramenti per la società? Sono in molti a chiederselo.
Il filosofo Alain Finkielkraut, dai microfoni della radio nazionale France culture si rivela molto scettico riguardo al ’68: «L’eguaglianza dei cittadini è una cosa da proteggere, come lo è la democrazia. Ma un’eguaglianza che condanna la selezione, che fa dell’elitarismo non un valore ma un orrore, non merita forse di essere criticata? Stiamo forse pagando il passaggio dalla democrazia a un'iperdemocrazia e questo, il sessantotto, non dico che ne sia direttamente responsabile ma lo ha in un certo senso facilitato».
Alain Finkielkraut si rammarica anche del fatto che coloro che mitizzano il ’68 non sappiano che c’era una differenza abissale tra la primavera di Praga, e la primavera di Parigi. Rileva negli ex sessantottini «uno sciovinismo della memoria inaccettabile» aggiungendo: «come se il ’68 fosse esistito solo in Francia! Io ho capito grazie alla primavera di Praga che la cultura non è un valore da calpestare ma un valore da proteggere. Usciamo dal principio “speranza”, da tutti gli stupidi slogan, per entrare nel principio di responsabilità verso ciò che è fragile […] pensiamo soprattutto alla vulnerabilità della terra, alla vulnerabilità della lingua che soffre di continui attacchi (basta aprire le orecchie per sentire come viene storpiata, svilita). Tutti valori che ho imparato non da Parigi ma dall’est dell’Europa».
Eppure, lo si voglia o no, quel periodo si è impresso nelle memorie e nel costume. Per quella sorta di apertura al mondo, per quel senso gioioso dell’esserci (di cui non si trova traccia nel nichilismo freddo dei punk dal destino borderline di fine anni ’70, i quali preferivano riconoscersi in una filosofia che sarebbe sfociata nel No Future).
Le riforme arrivarono, anche se incomplete, nell’università, nelle scuole, nel lavoro, in fatto di salari e di sicurezza. Cambiarono i rapporti in seno alle famiglie. Si cominciò a parlare di autogestione, di contraccezione, di obiezione di coscienza e (timidamente) di energie rinnovabili.
Anche in Italia, ben presto allineata al resto dell’Europa, arrivò l’ondata sessantottina. Ci si trovava di fronte a un Paese che stava ancora portando sulle spalle la delusione del finto miracolo economico; a un’Italia intorpidita, stanca di perbenismo e in procinto di diventare non più semplice osservatorio dei cambiamenti altrui ma arena di una tutt’altro che pacata presa di coscienza.
Qualcuno cerca legami fra sessantotto e gli anni di piombo che sarebbero arrivati dopo. Ma francamente, rimane difficile collegare due periodi così distanti nelle motivazioni e nello spirito. A dirimere scetticismi e contraddizioni si potrebbero chiamare in causa parecchi protagonisti, buoni e cattivi maestri, donne e uomini, i quali, ciascuno dal proprio punto di vista racconterebbero la loro verità di quegli anni.
Interessante un’intervista del 2003 rilasciata dal poeta Edoardo Sanguineti a Daniele Piccini sulla rivista Poesia, a proposito del ’68. Interessante, perché nello stesso periodo il poeta insegnò sia a Torino che a Salerno, assistendo, di fatto a due tipi di ’68: «Gli studenti torinesi erano per lo più figli di papà, invece a Salerno moltissimi erano davvero figli di operai e contadini. […] Veniva gente di ogni specie, anche da parte degli insegnanti: persone sensibili all’idea di fare un’università diversa con seminari innovativi, lezioni interdisciplinari. A Torino era impossibile. In effetti io vidi nel movimento studentesco non un’apertura all’università di massa ma un movimento di piccola borghesia. Questa fu anche la ragione per cui accettai volentieri di partecipare alle elezioni politiche con i comunisti proprio a Torino». All’intervistatore che gli chiede se secondo lui, erano richieste giuste, l’ex docente risponde: «C’erano richieste giuste, altre erano estremistiche, come il voto garantito, gli esami collettivi. In più, il movimento studentesco era in lotta con il partito comunista».
Forse dovremmo leggere quelle giornate non come una bella utopia, non come un “epifenomeno” della storia, ma piuttosto come una “rigenerazione”, un “mettersi in cammino”, un “aprirsi al mondo” di tutta la società. In fondo si tratta di un’aspirazione che risale a ben prima di quegli anni, a quando l’uomo ha cominciato a lavorare per guadagnarsi da vivere, a quando la donna ha dovuto trovare la sua dignità. Allora non si chiamavano certo “Movimento operaio”, o “Movimento studentesco” o “Movimento femminista”: ma stiamo sempre parlando della storia degli umiliati e degli sfruttati di ogni ordine e genere.
Un nuovo ’68 non potrebbe ripetersi, credo. O almeno, non con le stesse modalità. Anche perché gli scenari nazionali e internazionali sono cambiati.
Ma forse varrebbe la pena, proprio in funzione dell’ondata d’individualismo e del vuoto culturale che stiamo vivendo, recuperarne almeno lo spirito. Uno spirito che giunse per scuotere le coscienze e rimase nell’immaginario come l’esprit de mai, lo spirito di maggio.
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