La lettura dei racconti della scrittrice argentina Silvina Ocampo, e in particolare di La Furia y otros cuentos (la sua prima raccolta, pubblicata nel 1959 e inedita in Italia) suscita due impressioni immediate: la crudeltà che caratterizza le relazioni umane, da un lato, e dall’altro la costante rappresentazione del mondo infantile. Questi due elementi sono stati già sottolineati da due grandi lettori di Silvina Ocampo, Jorge Luis Borges e Italo Calvino: mentre lo scrittore italiano rileva l’ambigua presenza di innocenza e ferocia nel mondo infantile rappresentato, Borges scrive “nei racconti di Silvina Ocampo c’è una peculiarità che ancora non sono riuscito a comprendere: il suo strano amore per una certa crudeltà innocente o obliqua”.
In La Furia y otros cuentos ben quattordici racconti presentano figure di bambini in funzione centrale nella diegesi, e di questi, undici terminano con la morte violenta di un personaggio.
I bambini assumono un comportamento spesso spietato e crudele, e la loro ferocia si realizza essenzialmente attraverso la violenza. Un agire furioso che si compie coscientemente fino alle estreme conseguenze: la morte. Dunque, la relazione bambino-morte si configura immediatamente come binomio costante della narrazione. Trattandosi essenzialmente di racconti fantastici, è lecito domandarsi se l’autrice abbia scelto di utilizzare le figure infantili nel ruolo tanto di assassini come di vittime per alimentare l’inquietudine tipica del genere.
Tra le strategie del fantastico rioplatense (e non solo) si annoverano infatti la congiunzione tra banalità del quotidiano ed evento straordinario, il capovolgimento di situazioni ritenute irremovibili, e la composizione di antinomie quali crudeltà-innocenza per creare ambiguità ed incertezza. In questo senso, il succitato binomio bambini-morte può rappresentare uno strumento privilegiato per la rappresentazione del fantastico, ed è per questo che la critica ha spesso ridotto la presenza delle figure infantili nei racconti di Silvina Ocampo a un mero strumento della narrazione.
Tuttavia, un’analisi approfondita del funzionamento dei racconti menzionati sembra rivelare, a mio parere, che la presenza dei bambini non sia affatto strumentale alla rappresentazione del fantastico. Le figure infantili, e loro relazione con il mondo adulto, sono efficacemente riprodotte all’interno di uno spazio-tempo preciso per mettere in scena le relazioni ipocrite e lacerate delle famiglie piccolo borghesi dell’Argentina degli anni ’50.
I bambini, insomma, non sono meri espedienti letterari ma hanno un vero statuto di personaggi, indagati nella loro relazione conflittuale con il mondo adulto.
La crudeltà dei bambini nasce dalla loro infelicità la cui origine, suggerisce implicitamente Silvina Ocampo, sembra risiedere proprio nella frattura tra i due mondi, quello adulto e quello infantile. Il loro contatto è sempre problematico: in molti racconti i due piani, infantile e adulto, non solo sono nettamente disgiunti ma spesso anche contrapposti e antitetici. I due ordini sono così separarti e distanti che dalla mancanza di comprensione si giunge spesso all’assoluto disinteresse reciproco. Bastino due esempi. Dalla prospettiva del bambino leggiamo: “Una volta mi regalò una piantina che morì dopo due giorni. Ma come vuoi che a un bambino piaccia una pianta? Queste sono cose per i grandi”.
Dalla prospettiva adulta, dice una madre del proprio figlio: “un giorno Santiago si è comportato male: la voce di un gelataio ambulante in strada, credo che lo abbia sconvolto. Faceva gesti, non voleva sedersi e ogni momento apriva la bocca e guardava il soffitto con faccia da idiota.”
Mentre per i grandi funziona anche una conveniente ipocrisia, nei piccoli cresce un sentimento di abbandono: “Che serietà c’era nelle parole degli adulti? Chi poteva credermi e prendermi sul serio?”.
Nella mia ipotesi (crudeltà dovuta all’infelicità–infelicità dovuta alla frattura generazionale) la dicotomia tra mondo adulto e mondo infantile diventa allora motivo originario dell’azione. Non si tratta però di una banale contrapposizione tra realtà e immaginario, rispettivamente. Entrambi i piani sono rappresentati con una cura del dettaglio e con caratteristiche proprie che ne rivelano aspetti più profondi: gli adulti obbediscono ad una mentalità piccolo borghese, basata sul decoro, l’ipocrisia, l’ostentazione, la buona condotta in società.
Apparentemente, sono tutti felici e soddisfatti della loro mediocrità e superficialità. La descrizione degli spazi acquisisce un ruolo fondamentale nella costruzione dei personaggi. L’arredamento è spesso di pessimo gusto: la sposina decora la sua casetta di zucchero con “volant di nylon, sui coperchi dei gabinetti, sulle mensole della sala da pranzo, negli armadi, dovunque”, mentre Camila espone orgogliosa “[...] bambini di marmo, ballerine di porcellana, […] vetrine intere con miniature, piene di boccoli e di barbe”. Le donne si dedicano alla pulizia e alla cura della casa che diventa il palcoscenico per la messa in scena della loro vita.
La teatralità di queste vite è sinonimo di ipocrisia: dietro le decorazioni pacchiane e la pulizia delle stanze si nascondono tradimenti, odio, frustrazioni… L’ordine borghese è corrotto, ma apparentemente perfetto. Questo spazio domestico mentre caratterizza il mondo adulto, allo stesso tempo stabilisce i confini di quello infantile. Sono confini inesorabili: la casa nella maggior parte dei racconti si definisce come spazio proibito ai bambini che risultano relegati in luoghi inadeguati: in El vástago due fratelli vivono in una casa immensa, ma Labuelo ha sottratto loro ogni spazio stabilendo regole oscure e ostili: “La casa era enorme ma non stava bene, secondo l’opinione di Labuelo, che occupassimo due stanze da letto diverse. [...] Il mio letto, dettaglio inspiegabile, era appoggiato al guardaroba. E in più la nostra stanza si trasformava, nei giorni feriali, nel laboratorio di cucito di una sarta zingara che rammendava per noi camicie deformi, e la domenica diventava deposito di empanadas e pasticcini.”
In questo spazio usurpato, persino essere mancino diventa un problema: “quando con la mano sinistra prendevo la penna per scrivere, o impugnavo il coltello, al momento di magiare, [...] Labuelo mi dava uno schiaffone e mi mandava a letto senza mangiare.”
La soluzione (di un problema fittizio) consiste in un’ulteriore sottrazione di spazio: “per curarmi, Labuelo mi fece passare tutta la notte sotto la pioggia, in camicia da notte, scalzo sulle mattonelle.”
I bambini sono vittime di un’usurpazione che non riescono a capire perché le regole che definiscono la ripartizione della casa sono nascoste e riaffermano con vigore la separazione tra mondo adulto e mondo infantile.
Nel racconto Las fotografías, Adriana, una bambina handicappata, celebra il suo compleanno in uno scenario curato nei minimi dettagli, tra adulti eleganti e compiaciuti che un fotografo deve immortalare, facendo attenzione a lasciare fuori dalle inquadrature le scarpe ortopediche della bambina. La messa in scena è perfetta, la malattia (motivo di vergogna) viene occultata finché la bambina muore, mentre gli invitati si infilano nelle tasche pezzi di torta.
Come in El vástago, anche in altri racconti l’emarginazione sociale e psicologica si configura attraverso la relazione con il luogo domestico: è assoluta mancanza di spazio, nel caso di Magush che non ha casa e vive in una carboneria; è spazio in eccesso, nel caso di Fernando: “otto corridoi, tre stanza da bagno (uno con due lavandini) [...] . Due cucine (una economica e una elettrica): due stanza per lavare e stirare i panni [...], un’anticucina, un’antisala, cinque stanze di servizio, una stanza per i bauli [...] un’altra stanza per gli armadi, un’altra per le cianfrusaglie dove dormivano il cane e il mio cavallo a dondolo sul triciclo”.
Anche Fernando celebra il suo compleanno, sommerso dai regali, ma ignorato dalla madre: questa, infatti, si chiude in una stanza con le altre signore a parlare di uomini, biancheria intima, tra risate e scherzi. Il bambino distruggerà la barriera chiudendole a chiave nella stanza e appiccando fuoco…
In nessuno dei racconti de La Furia la casa assume dunque il ruolo di nido, rifugio, anzi, nella sua volgarità, questo ruolo le è visibilmente negato: la casa, concretamente e metaforicamente, obbedisce ad altri criteri di costruzione. In questo modo, manca una zona privilegiata in cui i bambini possano dedicarsi alle loro attività: giocare e fantasticare. Ma, come insegnano Huizinga e Callois, il gioco stesso crea uno spazio di libertà: qualsiasi angolo di queste case “sottratte” potrebbe diventare luogo di libertà se i bambini giocassero. Ma i bambini di Silvina Ocampo non giocano. Nei racconti si rileva una duplice omissione: mancano descrizioni di giochi, mancano i giocattoli. Nel racconto La oración una donna nasconde in casa Claudio, di otto anni, che ha appena ucciso un coetaneo. Il bambino aiuta nei lavori domestici e la sua unica attività è somministrare veleni al cane per ucciderlo. La donna lo lascia fare, fino a renderlo strumento per l’assassinio del marito.
Questi bambini privi di giocattoli hanno nelle loro mani oggetti pericolosi che appartengono al mondo adulto e che diventano un dispositivo mortale. Labuelo viene ucciso dal pronipote che maneggia una pistola carica. La bambina de La boda, gelosa dell’amica più grande, le mette un ragno velenoso nell’acconciatura da sposa, che la uccide il giorno del matrimonio.
Manipolati dagli adulti, questi bambini non stanno giocando: il gioco non è utile né produttivo, non ha un obiettivo determinato. Il divertimento consiste nel “fare finta di..”, è imitazione della vita e pertanto separato dalla realtà. Utilizzando il fuoco, il veleno, il ragno, la pistola, i bambini hanno uno scopo: non si tratta di “fare finta di” ma di “fare in modo che”. In questo modo, la loro azione si muove tra crudeltà e innocenza, con effetti tragici nella realtà.
La frattura tra grandi e piccoli, con il suo portato di mancanza di spazio, assenza di dimensione ludica e crudeltà, è rappresentata emblematicamente nel racconto La Furia.
Protagonista è un triangolo di personaggi composto da un uomo, narratore della storia, la sua fidanzata, Winifred, e il bambino a cui lei fa la babysitter. Il bambino, Cintito, non fa altro che suonare incessantemente un tamburo.
Finalmente appare un giocattolo? Non direi: si tratta piuttosto di un’ossessione utile ad allontanare il bambino dalla realtà che lo angoscia. I due fidanzati, infatti, portano con sé Cintito come se fosse un oggetto scomodo e per di più fastidioso con il suono di quel tamburo. Noncuranti della sua presenza, si scambiano effusioni. Al ritmo del tamburo Winifred racconta la sua infanzia: una serie di episodi di estrema crudeltà nei confronti di Lavina, la sua amica.
I fatti narrati, però, vengono giustificati con ragionamenti infantili, mostrando l’assoluta buona fede di una Winifred ancora immatura: “Lavinia era orgogliosa e paurosa. Aveva i capelli lunghi e biondi, la pelle molto bianca. Per correggere il suo orgoglio, un giorno le ho tagliato un ciuffo che poi ho conservato in segreto in un reliquario: furono costretti a tagliarle il resto dei capelli per pareggiarli. Un altro giorno le ho versato una bottiglietta di acqua di colonia sul collo e la guancia: la sue pelle è rimasta tutta macchiata.”
Cintito continua a suonare, l’uomo è esasperato e vorrebbe gettare il tamburo nel lago, ma la ragazza impassibile continua a raccontare seguendo lo schema precedente: dichiarazione del suo fine (della sua buona fede), poi l’esecuzione: “Nei dormitori del collegio, Lavinia piangeva di notte perché aveva paura degli animali. Per combattere i suoi inspiegabili timori, ho messo dei ragni vivi nel suo letto. Una volta ho messo un topo morto che avevo trovato in giardino, un’altra volta un rospo. E nonostante tutto non sono riuscita a correggerla ...”.
La serie di crudeltà culmina con la morte di Lavinia: durante una recita, le due bambine sono vestite da angeli, in mano le candele, improvvisamente l’ala di Lavinia inizia a bruciare: “e ci sono state anche persone malevole che mi hanno accusato di aver incendiato apposta le ali di Lavinia. In verità, mi posso solo vantare d’essere stata buona con una persona: con lei. Io vivevo per prendermi cura di lei come una vera madre, per correggere i suoi difetti.”
Mentre si dirigono a un albergo a ore, Cintito continua a suonare, Winifred a raccontare. Poi, nascondono il tamburo sotto il letto e, persi nei loro abbracci, si dimenticano del bambino. L’azione si accelera: l’uomo va a cercare il bambino, lo trova mentre fa pipì su un muro, torna nella stanza e Winifred non c’è più. Si rende conto di non sapere nulla del bambino, né il cognome della ragazza, si sente perduto: “- Se suoni il tamburo, ti ammazzo”. È la prima volta che entra in contatto con lui, che gli rivolge la parola. Ma il contatto è immediatamente interrotto: quando Cintito inizia a piangere l’uomo lo uccide con il cuscino.
I bambini “alienati” di Silvina Ocampo sembrano aver perso anche la capacità di immaginare e di sognare, e per questo, come si diceva all’inizio, la frattura generazionale non può essere letta come banale contrapposizione tra realtà (età adulta) e fantasia (infanzia).
In Los sueños de Leopoldina le bambine hanno bisogno dei sogni della zia per immaginare un mondo incantato, mentre Magush non è capace di immaginare una vita diversa. Al contrario, gli adulti protagonisti dei racconti, dotati di un notevole cinismo, sembrano non avere ostacoli alla realizzazione dei propri desideri. Il mondo dei bambini è invaso dall’ordine degli adulti che chiude gli spazi, stabilisce le regole, impedisce il gioco e l’immaginazione.
La crudeltà dei bambini è allora una forma estrema di ribellione contro la mancanza di riconoscimento dell’identità infantile. Non si tratta di nostalgia nei confronti di un ordine perduto, come suggerisce Pezzoni: esiste un ordine, ma viene rifiutato in quanto ipocrita e malvagio.
Nei libri per l’infanzia di Silvina Ocampo, come El cofre volante, El caballo alado, La naranja maravillosa, la quotidianità viene improvvisamente alterata da un evento che dà luogo al meraviglioso, come a dimostrare la fragilità delle regole che reggono l’esistenza. Invece, in La Furia y otros cuentos le regole della vita quotidiana sono ferree, violentemente imposte, e la quotidianità, abitata dall’ipocrisia del mondo adulto e da bambini senza infanzia, viene spezzata da un atto crudele. Ciò che emerge, dunque, non è la fragilità delle regole, o la loro assenza, ma il loro essere strumento di dominio ed esclusione. I bambini di Silvina Ocampo non sono educati, ma dominati: come dice Walter Benjamin, “l’educazione non è forse in primo luogo il necessario ordine del rapporto tra le generazioni e dunque, se di dominio si vuole parlare, il dominio non dei bambini, ma di quel rapporto?”
La frattura tra età adulta e infanzia è tale che, quando Silvina Ocampo immagina per una volta che i bambini realizzino non il loro potenziale distruttivo ma loro creatività, il risultato è la netta separazione tra i due mondi. In La raza inextinguible uno straniero giunge in una città minuscola e chiede spiegazioni a un bambino dalle profonde occhiaie. “Siamo noi quelli che lavorano: i nostri genitori, un po’ per egoismo, un po’ per farsi divertire, hanno stabilito questo modo di vivere economico e gradevole”. È un mondo finalmente su misura, dove i bambini lavorano e producono secondo le loro dimensioni, senza preoccuparsi per le lamentele degli adulti per i vestiti troppo stretti, i mobili troppo piccoli, le porzioni di cibo troppo esigue. Ma la condizione di questa città apparentemente perfetta e piccolissima è estrema: da un lato i bambini si dicono felici (“Siamo felici. Credo che siamo felici”), dall’altro mangiano erba e terra, leccano le mattonelle, e si stancano per il troppo lavoro.
Questi bambini non hanno recuperato la loro infanzia, la città non è “l’isola incerta” di Caillois, uno spazio magico in cui si sospendono le regole della quotidianità. Piuttosto è il luogo in cui la separazione tra i due mondi (di nuovo, i due spazi) si fa esplicita e concreta: gli adulti cercano di entrare nella città, ma i bambini si difendono e non si lasciano ingannare: “pretendono di essere bambini e non sanno che non si è bambini solo per una semplice mancanza di centimetri”.
Finalmente qui si reclama e stabilisce la differenza: non è semplicemente una questione di dimensioni, ma di identità.
Si delinea così un percorso all’interno del libro: nei racconti precedenti l’identità infantile viene negata fino alle estreme conseguenze, nell’ultimo racconto viene invece affermata e in modo radicale: la città dei bambini diventa sempre più piccola, massima inversione della legge della crescita. E non si tratta di una perdita, anzi: “rimpicciolendo, nel tempo, la nostra visione del mondo sarà più intima e più umana”.
Gli occhi dei bambini, finora spettatori della violenza, promettono un cambiamento di prospettiva, negando l’ordine fittizio creato dagli adulti. Vedere il mondo attraverso i loro occhi significa inventarlo daccapo, smontarlo e rimontarlo in modo più autentico, sicuramente più intimo e più umano.
BIBLIOGRAFIA
- BACHELARD, Gaston, La poétique de l’espace, Paris, Presses Universitaires de France, 1957
- BENJAMIN, Walter, Strada a senso unico, in Opere, vol. IV, Torino, Einaudi, 1983.
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- CAILLOIS, Roger, Les jeux et les hommes, [1958], tr. it. Milano, Bompiani 2000
- CALVINO, Italo, "Introduzione" a OCAMPO, Silvina, Porfiria, Torino, Einaudi, 1973
- HUIZINGA, Homo ludens, [1939], tr. it. Torino, Einaudi 1973
- OCAMPO, Silvina, La Furia y otros cuentos, [1959], Madrid, Alianza Editorial, 1982
- OSTROV, Andrea, “Vestidura, escritura, sepultura en la narrativa de Silvina Ocampo”, in "Hispamérica: Revista de literatura", 1996, N° 74, p. 21-28
- PEZZONI, Enrique, Silvina Ocampo: La nostalgia del orden, intr. a OCAMPO, Silvina, La Furia y otros cuentos, Madrid, Alianza Editorial, 1982
Il nome di Silvina Ocampo viene spesso associato, in senso riduttivo, a quello della sorella maggiore Victoria, a quello di suo marito Bioy Casares, a quello di Borges. Questa dimensione “satellitare” ha fatto sì che la sua opera fosse oscurata dai grandi nomi intorno a cui sembrava semplicemente ruotare, e a lungo è stata ignorata tanto dalla critica quanto dai lettori. In realtà, la produzione letteraria di Silvina Ocampo merita grande attenzione.
Nacque a Buenos Aires nel 1906, in una famiglia numerosa ed aristocratica. Assecondando le sue inclinazioni artistiche, studiò musica e a Parigi, con Giorgio De Chirico, disegno, per poi dedicarsi alla letteratura. Partecipò al circolo letterario legato alla rivista «Sur» e si dedicò alla poesia, al teatro e alla narrativa. In quest’ultimo ambito vanno ricordati Autobiografía de Irene (1948), La furia y otros cuentos (1959), Los días de la noche (1983), Cornelia ante el espejo (1988), Y así sucesivamente (1987).
Alcune opere sono il frutto di collaborazioni: con Adolfo Bioy Casares (con cui si sposò nel 1940) ha pubblicato Los que aman, odian, nel 1946, mentre con Juan Rodolfo Wilcock ha composto un’opera teatrale nel 1956: Los Traidores. Con Jorge Luis Borges e Adolfo Bioy Casares ha pubblicato la famosa Antología de la literatura fantástica.
È morta a Buenos Aires nel 1993.
In italiano sono state tradotte molte opere narrative di Silvina Ocampo: oltre alla famosa Antologia del racconto fantastico, riedita da Einaudi ancora nel 2007, sono stati pubblicati Autobiografia di Irene (2000), E così via (1989), Chi ama odia (1988), Porfiria (1973), I giorni della notte (1976). Sono stati anche pubblicati alcuni testi di letteratura infantile, come Il cavallo alato e L’arancia meravigliosa.
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