FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia
Numero 10
aprile/giugno 2008

Identità & Conflitto

QUANDO IL CONFLITTO È CON SE STESSO
Sulla poesia di Clemente Rebora

di Marco Testi



La lunga strada che ha portato Clemente Rebora al sacerdozio ha creato il fraintendimento della sua poesia e il mito del poeta di prima e dopo la conversione.

Un problema di identità, ma più per gli esegeti che per lui. Perché la prima cosa che ci dicono i libri è che c'è un Rebora di prima della conversione, e un Rebora del dopo, dell'ingresso in convento tra i Rosminiani. Un problema di identità, che il poeta milanese aveva risolto dopo il grande conflitto tra l'uomo immerso nelle contraddizioni e le lacerazioni dell'amore, della guerra, della nevrosi e della irresolutezza. Aveva chiesto di diventare sacerdote, lui che aveva convissuto more uxorio con una donna (che bisogna dirlo, amò talmente Rebora da pregare per la sua conversione, che avrebbe portato alla fine del loro rapporto), lui che aveva scritto alcune delle pagine più laicamente tese all'ascolto dei movimenti dell'anima.

La critica vede due Rebora, considerando il secondo meno poeta del primo, scindendo in realtà l'unica personalità, lacerata, atomizzata, scissa quanto si vuole, perché questi sono i movimenti del cuore umano, che è uno. Il prete Rebora veniva dal borghese e laico Rebora, era il frutto di un lungo processo e di una lunga nausea che non poteva avere, per fortuna, altre soluzioni. Rebora non è stato né il primo né l'ultimo a compiere, da letterato, simili scelte. Cercò di dimenticare la poesia di Frammenti lirici, ma non vi riuscì. Perché da una parte continuò ad scrivere in versi, ma quelli semplici, familiari, banali, d'occasione religiosa, come avrebbe fatto un qualsiasi frate appena capace di scrivere; dall'altra covava ancora frammenti lirici che sarebbero emersi qualche anno dopo la sua consacrazione religiosa.

Ma non è vero che non vi sia un Rebora poeta dopo il suo ingresso in convento. Nonostante che molti siano convinti che la stagione reboriana sia solo quella della poesia dei Frammenti lirici, usciti nel 1913 per le edizioni della "Voce", la più celebre rivista di primo Novecento. Guarda caso quei Frammenti che trovarono scarsa risonanza tra i contemporanei (solo Giovanni Boine ne parlò in termini entusiastici, mentre Emilio Cecchi stroncò Rebora come "fiacco poeta idealista"), e questo non vuol significare nulla, perché spesso opere fondamentali per il Novecento lo sono state a posteriori e con il senno del poi: si guardi all'esempio dei Canti orfici di Dino Campana.
Sta di fatto che solo con lo sviluppo dell'ermetismo fiorentino, dopo la metà degli anni Trenta, Rebora ha goduto della rivalutazione da parte di Gianfranco Contini e Carlo Bo: la sua venne considerata alla fine come una delle più alte testimonianze della nuova poesia italiana di primo Novecento, una delle più importanti risposte alla magniloquenza dannunziana, ma anche proposta attiva di una lirica capace di leggere profondamente nei cuori in tempesta degli sturmer vociani.

Sia chiara una cosa: Frammenti lirici (ma anche i successivi Canti anonimi hanno una loro rilevanza nel panorama poetico coevo) mettono quasi tutti d'accordo, e sempre con il senno del poi di cui si diceva: sono senza dubbio una delle più alte manifestazioni dello stato di crisi e spaesamento dei giovani intellettuali italiani nel primo Novecento.
Nei versi di quel periodo è evidente un intimo accordo tra la cosa da dire e il suono della parola, non solo il suo significato. Si legga ad esempio, dai Frammenti lirici, la poesia che prende il titolo dal primo verso: "Sciorinati giorni dispersi,/ cenci all'aria insaziabile:/ premente ore senza uscita,/ fanghiglia d'acqua sorgiva", dove si noterà l'uso del participio in apertura, che contraddice le regole dello bello scrivere poetico, e la doppia aggettivazione con al centro la parola giorni senza alcun verbo reggente; o si vedano quel participio presente all'inizio del terzo verso, l'accostamento tra parole di opposto significato fanghiglia-sorgiva; tutti elementi che mettono al centro del discorso non l'azione, ma le cose, la visione, le parti di un tutto di cui non è più possibile la ricomposizione, perché l'uomo ha perduto i punti di riferimento.

Già nella raccolta seguente, Canti anonimi, uscita nel 1922, accanto ad una poesia moderna, tesa alla pronunziazione della realtà interiore ed esterna, si nota la presenza di una nuova direzione: la situazione di scacco del 1913 rischiava di portare all'aridità e alla morte: un po' come la Terra desolata di Eliot che, con la pronunciazione della nausea e dello smarrimento, prepara il Mercoledì delle ceneri dell'adesione all'anglicanesimo.
Se si legge con questa prospettiva "Al tempo che la vita era inesplosa", si nota subito, al secondo verso, una importante ammissione: "l'amor mi pareva umana cosa", in un contesto in cui vi è la visione liberatrice della semplicità della vita contadina. In realtà quelle frasi sono spia di una rapporto con la realtà che si è definitivamente incrinato, e di una scelta in favore di una nuova dimensione: quella dell'interiorità. Il viaggiatore della città e della campagna diviene vagabondo dello spirito, la sua crisi arriva a definitiva saturazione. E infatti, dopo la conversione, ecco l'ingresso in convento, all'Istituto della Carità al Monte Calvario di Domodossola fino all'ordinazione sacerdotale nel 1936.

Qui si perdono le tracce del Rebora poeta "espressionista" secondo Contini, che si chiude nel silenzio. Da questo silenzio, che il poeta lombardo (ma di ascendenti liguri) si era coscientemente e rigorosamente auto-imposto, riemergono tracce poetiche di quando in quando: tra il 1946 e il '47 escono due nuove edizioni dei suoi versi e nel 1956 gli inediti Canti dell'infermità.
Dunque non si può far colpa alla critica se lo stesso Rebora ha decretato la distruzione e la damnatio memoriae del suo prima, del suo Egitto antecedente all'ingresso in terra promessa. Ma la critica ha il compito difficilissimo di ascoltare i proclami o assistere ai fatti della vita dei suoi scrittori senza credergli fino in fondo, perché l'opera porta spesso laddove l'autore non avrebbe voluto.
La poesia tornava lentamente, anche quando il frate rosminiano metteva a disposizione dei confratelli poesie facili dedicate all'amore di Gesù per le feste comandate e per le occasioni d'incontro. E lo seguirà per sempre.

Una lirica datata 13 gennaio 1956, nella quale si sente forte il senso della fine, della caducità, tutta dentro l'epoca del silenzio e del rifiuto della precedente poesia, presenta molti punti di contatto con la precedente produzione: non solo nel contenuto, ma nei suoni, nella ruvidità delle parole, insomma in quella forma che secondo De Sanctis era l'idea stessa: "Tutto è al limite, imminente:/ per lo schianto, basta un niente;/ da un gran vuoto/ tutto esorbita nel moto,/ anime, famiglie, consorzi;/ tutto è un farsi avanti a spinte e a sforzi:/ sono contati gli istanti". Si penserebbe quasi al Rebora "frammentista", se non fosse che più avanti si parla direttamente del Signore, con uno struggente particolare, il riferimento alla sua propria storia: "Un che sa, ed è dei capi/ (Nicodemo forse?)/ scorta luce ove è Gesù,/ all'oscuro s'inoltra,/ e in segreto, a tu per tu,/ chiede qualcosa di sicuro". Eccolo, il precedente Rebora, poeta di talento, ma involto in una crisi senza apparente speranza (crisi acuita dall'esperienza traumatizzante nella prima guerra mondiale): è il Nicodemo che si accosta nel segreto - quasi ancora dubitasse - a Gesù, e chiede una parola che lo traghetti al sicuro, dall'altra parte del guado.

Eppure quello che è venuto poi, tranne alcune eccezioni, non sembra più materia da studiosi. Che se ne fa la storia della letteratura di un poeta che apparentemente rinuncia al canto (facendoci cascare un bel po' di addetti ai lavori), quel canto che pure lo stava rendendo un mito dei primo Novecento? Uno che poi entrava in convento per tessere rime di comunione e di Natale, rime che tutti e non solo pochi intimi, potessero cantare nelle feste religiose. "Oh comunione vera e sol beata,/ se con te, Cristo, sono crocifisso/ quando nell'Ostia Santa m'inabisso!", o in occasione del Natale, ""Colui che è, che era, e che è per venire,/ Gesù il testimone fedele,/ che ci ha amati e lavati dei nostri peccati/ e ci ha col Sangue rifatti Regno"; o, ancora: "Beati coloro che sono i segnati,/ alla Cena Nuziale dell'Agnello!".

Si guardi alla portata del sacrificio - che il poeta volentieri ha fatto - del vecchio sé fino a farsi umile catechista di giovani, come quelli d'un tempo e un tempo esacrati da quasi tutta una generazione di "moralisti" che li vedevano grigi in grigie e polverose sagrestie a imbastire le solite storie edificanti, e che ora divengono centro e fine della propria umana avventura.
Scrive Rebora nella notte del 24 dicembre 1938: "Ecco, dall'Immacolata, Gesù viene, Bambino festante a patire per affratellarci nel Padre che è nei Cieli. Chi si farà bambino con Lui,/ entrerà in quel Regno/ che solo Amore e Luce ha per confine. Voluntas Dei, sanctificatio vestra" (il corsivo è del poeta).
È evidente qui lo sforzo di diventare unicamente voce, contenuto, del Verbo, e non forma di proprie parole. Credo che in occidente vi siano stati pochi esempi come questo di tensione verso il silenzio. Aveva ragione Claudel: la spasmodica tensione che spinse l'ancor giovane Rimbaud verso il silenzio aveva dell'angelo, caduto, sì, ma un tempo a fianco di Dio.
Questa autentica rinuncia a sé sarebbe sì, materia di costruzione di mito. Ma sarebbe un mito troppo "sfacciatamente" religioso, e allora non piacerebbe come quelli luciferini e dannati. Potenza della costruzione di un mercato e dell'abitudine a schemi che divengono prigioni.

Resta il fatto di una poesia che continua anche dopo. Nonostante l'aspirazione al silenzio, la voce ritorna. Nonostante il tentativo di mutarla, di disciplinarla nell'ubbidienza, nella regola, essa riprende il suo antico ruolo di amica e consolatrice. Non più solo dei propri dubbi sul proprio destino, ma sulla sorte del mondo e degli altri uomini.
La grande crisi di identità dell'antico poeta in conflitto con se stesso era divenuta dono di sé in modi che l'uomo contemporaneo non poteva sempre comprendere. Il poeta perduto aveva affrontato la solitaria strada del numinoso, che lo avrebbe portato a distanze irreparabili dal suo vecchio uomo e, in taluni casi, anche dagli altri.




CLEMENTE REBORA

Rebora, Le poesieNacque a Milano nel 1885 e morì a Stresa nel 1957. Di famiglia garibaldina e mazziniana, si laureò in lettere e si dedicò all'insegnamento. La prima guerra mondiale, cui partecipò in fanteria, fu un'esperienza drammatica e fondamentale nella sua formazione umana e poetica. Il profondo senso di sofferenza esistenziale che quel dramma acuì trovò sbocco nella religione: nel 1936 Rebora prese i voti nell'ordine dei padri rosminiani.
Collaborò a varie riviste, tra le quali la "Voce"; studiò la spiritualità (non solo quella occidentale) e tradusse numerosi scrittori russi.
Nel 1922 uscirono i Canti anonimi raccolti da C. R., ma il suo capolavoro è precedente: la critica manifesta una crescente propensione a considerare la raccolta Frammenti lirici (1913) tra gli esempi più importanti della poesia del primo Novecento.
La prima raccolta completa delle sue poesie apparve nel 1947 (Le poesie), mentre quella omonima e definitiva è postuma (1988). Le poesie scritte durante la lunga e dolorosa malattia furono stampate poco prima della morte e pubblicate postume (Via crucis, 1955; Canti dell'infermità, 1956; Ecco del ciel più grande, 1965).


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