Credo che mio nonno abbia condotto un'esistenza bella e serena. È campato fin quasi a ottant'anni facendo il contadino, in una famiglia contadina, in una società contadina. Aveva da mangiare a sufficienza (ha sofferto la fame solo durante le Guerre), altrimenti non crederei che possa aver trascorso una vita "bella e serena". Il suo orizzonte era costituito dal paese di mille abitanti dove era nato e dove è morto; le regole, lo stile di vita, le aspettative, quelle che aveva trovato in una società secolare, e che aveva fatto sue sin dall'inizio.
Quel mondo tranquillo e protettivo era però un mondo chiuso, abitudinario, carente di mezzi e di possibilità di scelta.
Forse è per questo che mio nonno, di cui ho ereditato il nome ma non l'eclettismo, aveva sviluppato la passione per i palloni aerostatici e per i fuochi d'artificio; era la dimestichezza con questi particolari strumenti a distinguerlo dagli altri, a dargli quel plus di identità che, probabilmente, lo faceva sentire un individuo più di quanto non facesse l'abnegazione nel lavoro e il rispetto delle regole.
Di sicuro, nessuno di noi accetterebbe di scambiare la sua condizione con la vita "felice e spensierata" che vissero i propri nonni. Facciamo parte della società dei liberi individui, e godiamo di una situazione di benessere e di libertà quale l'uomo non ha mai conosciuto nell'intero arco della sua storia.
Allora, perché continuiamo ad accostare la vita di chi ci ha preceduto a un'isola felice, e a parlare della nostra in termini critici e negativi?
La risposta è scontata: perché abbiamo perso il valore fondamentale della sicurezza; perché viviamo in modo instabile e inautentico ogni tipo di rapporto, la vita affettiva come quella professionale e sociale. L'individuo più libero di ogni tempo non ha più un'identità: nell'età della tecnica ciò che conta è il ruolo, non la singola persona, che opera nell'apparato nel segno della sostituibilità. Un apparato che mettendo al primo posto la velocità e la competitività ci obbliga a modificare le competenze e i modi di agire ben prima che si siano consolidati in esperienze soggettive e durature; una sensazione continua di precarietà e di incertezza è il contraltare dell'ingannevole libertà concessa dalla società degli individui.
Il ruolo di mio nonno era quello di un contadino che occasionalmente assicurava alla comunità un po' di divertimento, traendone a sua volta piacere e apprezzamento; un ruolo definito, limitato, ma anche personale, naturale, finalizzato a un risultato concreto. Inoltre, la vita era arricchita dal sentirsi parte attiva della collettività; le voci dei nostri nonni, per flebili che fossero, trovavano comunque un ascolto entro l'orizzonte antropologico in cui essi si muovevano. Oggi, è l'estraneità, l'ek-sistere (il sentirsi fuori) a costituire la nostra condizione: nel frastuono dell'ossessionante rumore del mondo, che sopprime lo spazio psichico, che non consente una minima introversione, l'anima si conforma ai modelli che la tecnologia e i media ci mettono ogni istante dinanzi agli occhi. E come sottolinea il filosofo Umberto Galimberti, quando il soggetto non reperisce altra identità al di fuori di quella conferitagli dal sistema, non è più possibile parlare di identità, ma di identificazione.
Stentiamo a credere che i nostri ascendenti possano aver trascorso un'intera vita senza udire una sola volta la frase che risuona ogni giorno nell'orecchio di chi vive il nostro tempo: "Sei padrone del tuo destino". A forza di sentirlo ripetere, ci convinciamo che la possibilità di autodeterminarci è accanto a noi, che basta allungare una mano per farla nostra. Ma come sostiene Zygmunt Bauman in Modernità liquida:
esiste un ampio e crescente divario tra la condizione degli individui de iure e la possibilità di diventare individui de facto, vale a dire di diventare padroni del proprio destino e compiere le scelte realmente desiderate.
In un mondo compulsivo e ossessivo, dove conta solo la produttività, la libertà di scelta è poco più che una finzione: le opportunità che ci sono concesse, seducenti e apparentemente facili da cogliere, si rivelano fluide, effimere, stranamente adatte "a compensare le precedenti e a preparare il terreno per poter passare alle successive", come ha scritto David Miller.
Consumare è il fine cui sono rivolti i nostri pensieri, e stabilire la priorità degli acquisti è diventato l'onere principale dei nostri giorni.
La pseudo-identità declinata dall'universale dipendenza dallo shopping configura la strana condizione di un soggetto per il quale è l'articolo griffato a diventare lo strumento della propria differenziazione e del proprio valore; con l'inevitabile rischio che il marchio da portare con orgoglio si trasformi da un giorno all'altro in qualcosa di superato, di socialmente squalificante.
Un'ulteriore situazione di insicurezza per il nostro fragile io, cui la società degli individui cerca di porre rimedio con i kit, esposti nelle vetrine, capaci di restituire la prerogativa di sentirsi "diversi" dagli altri: corsi di ogni tipo, esperienze mistiche ed esoteriche, viaggi e avventure estreme. Ma l'aporia resta insanabile: perché è la stessa società del consumo, e non il singolo, a scomporre e ricomporre l'intero processo.
Le antinomie del libero individuo non si fermano qui.
Impotente e avulso dai centri decisionali, perso nella sua solitudine, il singolo, come aveva intuito Tocqueville, diventa il peggior nemico del cittadino. Dove non c'è più l'agorà, la vita pubblica, l'incontro quotidiano che aiutava a mediare i conflitti, lo spazio collettivo si svuota di questioni pubbliche, diventando lo schermo sul quale vengono proiettate la vita e le intimità private dei personaggi pubblici.
Nel mondo del privato esistono solo altri privati da imitare e invidiare: identificarsi in persone che ce l'hanno fatta, non importa in che modo, è diventata la modalità esistenziale del nostro tempo. Forse ha ragione Andrzej Stasiuk quando sostiene che la possibilità di diventare qualcun altro è il moderno surrogato della vita ultraterrena promessa dalle religioni.
Che fare?
L'unica cosa da fare è non arrendersi al fatalismo, non scaricarsi delle proprie responsabilità, rinforzare la libertà di scelta che la società del consumo tende a limitare nei modi che abbiamo visto.
Dobbiamo convincerci che vivere l'impresa rischiosa dei nostri giorni è qualcosa di più alto e responsabile rispetto all'esistenza riparata dal caos che hanno condotto i nostri nonni.
La società, insegna Cornelius Castoriadis, è autenticamente autonoma quando diventa consapevole che non esistono significati garantiti e verità assolute. Interpretare la multiforme realtà odierna ed elaborare la creazione di nuovi significati: è questo l'impegno del nostro tempo, una sfida che, a differenza di altre epoche storiche, dobbiamo affrontare e vincere ogni giorno.
Ma non basta: altrettanto importante è poter tradurre le nuove istanze in azioni di carattere pubblico. La fine dell'essere umano quale creatura sociale è, per fortuna, di là da venire, come dimostra la tendenza verso moderne forme di socialità e di aggregazione comunitaria. Saranno anche frutto di autoprotezione, tentativi di stabilire baluardi di difesa in un mondo che cambia troppo spesso, ma rappresentano l'unica alternativa all'isolamento e alla solitudine odierna. La battaglia per la pace, la sicurezza, la giustizia, l'eguaglianza, la ridistribuzione della ricchezza, non si vince da soli; nella storia umana, la comunità è sempre esistita.
Tornare a vivere lo spazio pubblico quale luogo di confronto e di impegno sociale, nel segno del pluralismo e della conciliazione, è l'inevitabile compito che attende i membri della società degli individui.
Non sappiamo quali saranno le forme e i contenuti che assumeranno le nuove spinte verso la tolleranza e la cooperazione; ciò che ormai sappiamo, e che non possiamo più ignorare, è che l'aspetto sotto il quale siamo eguali è enormemente più evidente e significativo di qualunque argomento possa farci ritenere diversi gli uni dagli altri.
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