FILI D'AQUILONE rivista d'immagini, idee e Poesia |
Numero 7 luglio/settembre 2007 Altre terre |
CASA D'ALTRI di Fabio Pierangeli |
Se il curato di campagna di Bernanos, in conclusione della sua vita sofferta, può gridare «tutto è grazia», quello di Silvio D'Arzo dovrà arrendersi alla coscienza di un ultimo mistero legato alla presenza ineludibile della sofferenza nella vita umana. Non ha risposte, né di carattere esistenziale, né, tanto meno, teologico quando i fatti gli pongono davanti, dopo tanti anni di consuetudine fatta di riti e liturgie, il volto del dolore. Il sentimento religioso esplode nella domanda sul perché dell'esistenza come una tragica agnizione, rispetto ad una corteccia di consuetudini a cui ci si era abituati.
Scrive Silvio Perrella:
Nascosti sotto sembianze, ombre, di nomi stranieri ecco comparire i personaggi di un paese non dissimile dal Montelice che troveremo in Casa d'altri. Primi, in ordine d'apparizione, due opposti: il vedovo Marek, «da che la moglie gli era stata sepolta nella valle assieme ai vecchi amici carrettieri non metteva più piede nella strada», e la splendida Eva, la ragazza dell'osteria, lei che «aveva la felicità nel seno, portava i sogni e la felicità, magari anche la gloria, su quel seno, e tutti si sentivano come vecchi bambini attorno a lei. Sognavano quella gloria e quel seno, in mezzo al buio, e l'acqua si rovesciava sulla gronda». Come tutti gli uomini del paese, anche Marek, non uscendo di casa, guarda, a volte, la ragazza, sapendo che il suo desiderio è solo tale, e mai potrà realizzarsi, in una tematica, questa sì, ricorrente nell'universo darziano. Poi, via via, conosciamo gli altri protagonisti, davanti ad un manifesto del sindaco che ingiunge di non andare nel fiume di notte, vietando, cioè quel poco di misterioso e allusivo (legato anche ad un piccolo traffico di contrabbando) nella vita di quei carrettieri nel loro «modo d'essere o di passare sulla terra, d'una umiltà e un non senso disperati». Ecco l'ossatura del racconto maggiore: la vita disperata, bestiale dei carrettieri, della gente di montagna, come la vecchina di Casa d'altri.
Con tali attributi, ripetuti come ritornelli frequenti nel corso del racconto, questi personaggi si muovono nella loro vita di sempre, rendendo, con il loro passo sempre un poco più lento e goffo del normale, au ralenti, un microcosmo piccolissimo, di ultima provincia, fantastico e misterioso nella caparbia tipicità che conservano nel recitare la parte assegnata come burattini che attendono, inconsapevolmente, il momento in cui, il burattinaio o ancora qualcuno al di sopra di lui, li lasci liberi di penetrare nella nebbia del mistero, come poi accade nella sognante e rivelatrice scena finale. È uno schermo, l'osteria, scrive Anna Luce Lenzi, «su cui scorre uno spettacolo di malinconia ferita e velleitariamente ribelle».
In Casa d'altri anche questi sprazzi di libertà vengono negati, nello sguardo ormai docilmente rassegnato del curato: anche le feste religiose sono riti da amministrare, magari con garbo e rispetto, ma senza alcuna scintilla di profondità o gioia autentica.
Il tragico è posto, il vecchio curato non può continuare la sua vita di abitudini, dove l'abito non aveva alcun senso al di fuori di riti da amministrare, senza infamia e senza lode, come gli altri professionisti del paese, il barista o il contadino. Il passo lento del curato, la sua solitudine, rassegnata ma non «faticosa» quanto basta a non farsi rapire dalla disperazione, e la circospezione della vecchina, soltanto apparente, perché invece porta un vortice di tormento nel prete. La porta non potrà richiudersi mai più. La solitudine di quel luogo emblematico ora appare assurda: casa d'altri, in cui si è vissuti da sempre. Quell'esistenza non convince più, tutto comincia a girare in un vortice di smania, mentre il paesaggio rimane eternamente lo stesso. Nemmeno la giovane baldanza del nuovo curato di Braino, poco prima dell'irrompere dell'agnizione, aveva saputo smuovere quel robusto prete di montagna dal suo scetticismo abitudinario e non cattivo.
Il tragico dell'esistenza, il dolore, la disperazione della fatica e l'uomo religioso che non ha risposte. Un microcosmo capace di gettare un potente fascio di luce sul macrocosmo delle nostre certezze quotidiane, abitudini sicure e senza senso. Il racconto ripropone la domanda, spinosa dell'uomo religioso, con grande realismo: unde malum? Può venire una vita così disperata da Dio? Ma ancora Barberi Squarotti indica la specifica valenza della vecchina di D'Arzo rispetto ad altri casi di suicidi o violenze clamorosi, come ribellione disperata alla fatica insopportabile di vivere (si veda il Valino della Luna e i falò di Cesare Pavese, che prima di uccidersi, brucia la cascia e uccide la moglie e solo per una pronta fuga, il piccolo Cinto, il figlio, si salva dalla morte): paradossalmente tutto avviene in un ambito ancora determinato dalla fede. Ecco l'altra faccia del dramma: un sentimento religioso incrollabile, quanto la coscienza dell'invivibilità. La vecchina vorrebbe essere autorizzata a morire dalla Chiesa, quasi come gesto di carità, soltanto per un caso molto speciale, senza offendere nessuno. Rimanendo nella fede, semplice, di Dio. Senza trasgredire i comandamenti. Il curato non sa fare altro che guardare da lontano la vecchia, dopo averle opposto il silenzio incerto. Per giorni e giorni. In una specie di solidarietà non pronunciata e non sicura. Certo non consolante.
«Meno di niente»: nulla convince di esistere, anche il momento più tragico, una volta sollevato il coperchio dell'apparenza, che prima solo lievemente bruciava. Un lungo delirio, in cui matura solo la decisione di partire, andarsene, in un luogo in cui probabilmente, sarà ancora tutto uguale. Sentiamo ancora Barberi Squarotti, proprio a commento di questo brano. È del resto impossibile trovare parole più appropriate per il nostro tema:
Svuotato, distrutto. Ancora in stretta, disperata, confidenza con il lettore. In cerca di quella carità e comprensione che la vecchia, in quel modo paradossale, anche lei, prima di lui, attendeva. Tutto è assurdo, non tutto è grazia, è il termine di questo racconto, nel suo modo tragico di una limpida religiosità nel riproporre questioni eterne.
È il finale. L'agnizione di una domanda radicale nascosta è riemersa più tragicamente di quanto si potesse pensare. Tutto è sconquassato eppure tutto torna all'inizio. Tutto è «monotono» sostituisce, per sempre, «tutto è grazia».
Come quello del Falstaff shakespeariano, almeno nella splendida lettura di Charles Moeller, riferita all'Enrico V, dove il cavaliere panciuto e guascone, ladro e dissoluto, simpatico e ubriacone muore (per poi essere risuscitato ma anche deriso nelle Allegre comari di Windsor). In punto di morte. La ripropongo, per evidente contrasto a quella sigla di monotonia del finale di Casa d'altri, e perché, per ben due volte, il curato è definito, per la corporatura, un Falstaff. Niente oltre il fisico nella storia pare ricordare il celebre personaggio. Ed è questo gioco degli opposti, senza alcuna autorizzazione, ad essere oltremodo affascinante nel terremo sterminato della letteratura, dell'umana coscienza di fronte a Dio, alla vita e alla morte:
1Si veda la bella antologia dei racconti curata da Silvio Perrella per i Tascabili Bompiani, 1995, dal titolo L'aria della sera e altri racconti, da cui si cita per Casa d'altri, uscito per la prima volta sulla rivista "Botteghe oscure". Rimando all'introduzione per altre notizie su questo singolare scrittore, che ha lasciato alcune poesie, saggi di letteratura inglese e una manciata di racconti. Di Casa d'altri esistono poi varie stesure, ed è difficile individuare la volontà finale, se c'era: si nota sicuramente una progressiva intenzione di prosciugare la narrazione di eventi giudicati secondari per rendere ancora più limpida e tragica la trovata centrale. 2Nell'introduzione alla citata antologia dei racconti. 3Recentemente ristampato nei tipi della Quodlibet, Macerata, 1998, con note al testo e un saggio di Anna Luce Lenzi, da cui è tratta la seguente citazione. 4Giorgio Barberi Squarotti, Le sorti del tragico, Ravenna, Longo, 1978. La discussione su Casa d'altri è alle pagine 84-86. 5Charles Moeller, Saggezza greca e paradosso cristiano (1948), Brescia, Morcelliana, 1978, p. 82. |
SIVIO D'ARZO
È lo pseudonimo di Ezio Comparoni nato a Reggio Emilia nel 1920 e morto di leucemia nel 1952. Tra le sue opere raccolte postume nel volume Nostro lunedì (1960), risaltano soprattutto il romanzo All'insegna del buon corsiero (1942) e il racconto Casa d'altri (1953). Nel 1976 è apparso il romanzo giovanile Essi pensano ad altro. Quest'anno è uscito per Einaudi Casa d'altri e altri racconti. |
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