FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia
Numero 7
luglio/settembre 2007

Altre terre

CASA D'ALTRI
di Silvio D'Arzo

di Fabio Pierangeli


Se il curato di campagna di Bernanos, in conclusione della sua vita sofferta, può gridare «tutto è grazia», quello di Silvio D'Arzo dovrà arrendersi alla coscienza di un ultimo mistero legato alla presenza ineludibile della sofferenza nella vita umana. Non ha risposte, né di carattere esistenziale, né, tanto meno, teologico quando i fatti gli pongono davanti, dopo tanti anni di consuetudine fatta di riti e liturgie, il volto del dolore. Il sentimento religioso esplode nella domanda sul perché dell'esistenza come una tragica agnizione, rispetto ad una corteccia di consuetudini a cui ci si era abituati.
Casa d'altri è un racconto di Silvio D'Arzo, tra i più belli del secondo Novecento italiano, che piacque a Montale, a Bilenchi, a Bertolucci, fino ai più giovani, Tondelli e Piersanti1. Postumo, di uno scrittore precoce, morto più di cinquant'anni fa, a soli trentadue anni (era nato a Reggio Emilia nel 1920), che non fece in tempo per molto poco a veder pubblicato il suo capolavoro. La scena è di una alterità così reale da essere paradossalmente inseribile in un ambito universale di non appartenenza, dove conta solo il dolore e la vita allo stato puro come maledizione a cui nessun conforto religioso è capace di rispondere.

Scrive Silvio Perrella:

«Un lavoro letterario che continua ad imporsi come un "enigma irrisolvibile". È infatti impossibile fissare in una definizione il fascino dell'opera darziana: quel suo ambiguo procedere tra smorta quotidianità e angoscia visionaria, quel suo "oscillare tra l'Arcadia e la Cronaca, senza mai sposare né l'una né l'altra", rappresenta una scelta geniale e solitaria, un modo originale e molto attuale per affrontare - risolvendolo - uno dei problemi fondamentali della nostra letteratura: "raccontare, senza impoverirla e senza impoverirsi, la nostra società"»2.

L'immagine di copertina della
prima edizione di Casa d'altri
(Sansoni, 1953)

Casa d'altri è un miracolo letterario, di stile e contenuto, dentro quell'«enigma irrisolvibile», dentro il mistero di una esistenza probabilmente destinata a una sicura vocazione alla scrittura, come già emergeva in un racconto giovanile, L'osteria3, che risale ai primi anni quaranta, uno di quei racconti in cui si coniugano le due ispirazioni principali dello scrittore descritte da Perrella, l'una lirico narrativa, ancorata al reale e l'altra decisamente sognante e metafisica. In una struttura narrativa non perfetta, a tratti slegata, spiccano già straordinarie caratterizzazioni di personaggi, tra cui la tenera figlia dell'oste, Maghit, che nell'ultima parte del racconto si intrattiene con Lepic, il vagabondo, in un colloquio che fa presagire alcune delicate scene del Penny Wirton, altro piccolo capolavoro.
Nascosti sotto sembianze, ombre, di nomi stranieri ecco comparire i personaggi di un paese non dissimile dal Montelice che troveremo in Casa d'altri. Primi, in ordine d'apparizione, due opposti: il vedovo Marek, «da che la moglie gli era stata sepolta nella valle assieme ai vecchi amici carrettieri non metteva più piede nella strada», e la splendida Eva, la ragazza dell'osteria, lei che «aveva la felicità nel seno, portava i sogni e la felicità, magari anche la gloria, su quel seno, e tutti si sentivano come vecchi bambini attorno a lei. Sognavano quella gloria e quel seno, in mezzo al buio, e l'acqua si rovesciava sulla gronda». Come tutti gli uomini del paese, anche Marek, non uscendo di casa, guarda, a volte, la ragazza, sapendo che il suo desiderio è solo tale, e mai potrà realizzarsi, in una tematica, questa sì, ricorrente nell'universo darziano.

Poi, via via, conosciamo gli altri protagonisti, davanti ad un manifesto del sindaco che ingiunge di non andare nel fiume di notte, vietando, cioè quel poco di misterioso e allusivo (legato anche ad un piccolo traffico di contrabbando) nella vita di quei carrettieri nel loro «modo d'essere o di passare sulla terra, d'una umiltà e un non senso disperati». Ecco l'ossatura del racconto maggiore: la vita disperata, bestiale dei carrettieri, della gente di montagna, come la vecchina di Casa d'altri.
Ecco Ivan, l'attacchino e attore, impegnato a «rendere espressivo sasso e muro», il fratello di lui, superbamente darziano, il «ragazzo sbagliato», definito soltanto «Uomo-pescatore», poi Lepic, «mendicante pitocco», che ha negli occhi «solo indifferenza. O uno stupore insondabile, direi».

Con tali attributi, ripetuti come ritornelli frequenti nel corso del racconto, questi personaggi si muovono nella loro vita di sempre, rendendo, con il loro passo sempre un poco più lento e goffo del normale, au ralenti, un microcosmo piccolissimo, di ultima provincia, fantastico e misterioso nella caparbia tipicità che conservano nel recitare la parte assegnata come burattini che attendono, inconsapevolmente, il momento in cui, il burattinaio o ancora qualcuno al di sopra di lui, li lasci liberi di penetrare nella nebbia del mistero, come poi accade nella sognante e rivelatrice scena finale.

È uno schermo, l'osteria, scrive Anna Luce Lenzi, «su cui scorre uno spettacolo di malinconia ferita e velleitariamente ribelle».
La festa, descritta nel secondo capitolo, è forse il momento riassuntivo di questo atteggiamento «un canto di uomini, di uomini, e dentro c'era una soavità forse disperata», la stessa con cui i carrettieri guardano, come da lontano, Eva, nome omen, la gloria, la felicità «senza neanche peccato o desiderio, o col desiderio soltanto di quella felicità e di quella gloria».

In Casa d'altri anche questi sprazzi di libertà vengono negati, nello sguardo ormai docilmente rassegnato del curato: anche le feste religiose sono riti da amministrare, magari con garbo e rispetto, ma senza alcuna scintilla di profondità o gioia autentica.
Il racconto è un esempio unico di tragico cristiano nel secondo Novecento in Italia. Riporto un lungo brano, illuminante, di Giorgio Barberi Squarotti4 che mi consente anche di evitare un inutile riassunto di un racconto in prima persona, con il narratore onnisciente e già a conoscenza di tutto lo svolgimento della storia, fin dalla prima riga, che corre verso la situazione centrale, con un perfetto gioco di equilibri tra analessi e prolessi, profilando l'emergere dell' agnizione tragica:

«Nell'ambito della vita contadina, il suicidio ha il significato di una dimostrazione clamorosa [...] dell'impossibilità di durare una vita spietata, senza requie né scampo, non altro che fatica continua, continua miseria. La vecchia di Casa d'altri di Silvio D'Arzo non ha un diverso problema: la vecchia che lava gli stracci nel canale, d'estate e d'inverno, e che vuole dal suo curato l'autorizzazione ad uccidersi, quando non ce la faccia più, e lo tenta dapprima con l'astuzia, con una finzione di matrimoni e di annullamenti, e soltanto messa alle strette, dopo molto tempo, dice la verità" [...] Allora, senza fare dispetto a nessuno, io chiedevo... No, ma io me l'immagino già quel che voi rispondete. - Senza fare dispetto a nessuno... - Ecco, nella lettera c'era scritto se in qualche caso speciale, tutto diverso dagli altri, senza fare dispetto a nessuno, qualcuno potesse avere il permesso di finire un po' prima. Mi volsi senza aver ben capito. - Anche uccidersi... sì - spiegò lei con una tranquillità da bambina. E si mise a guardarsi gli zoccoli". Il prete non riesce a rispondere neppure una parola: né quelle imparate in seminario, quelle delle prediche e dei libri, né quelle di un qualsiasi conforto, di una solidarietà umana [...] reagisce sconsolatamente, la vecchia, delusa dal silenzio del prete; ma questi tace proprio perché di fronte alla richiesta di un permesso di uccidersi per il caso assolutamente speciale di una vita di pena, fatica, affanno, dolore [...] non riesce a trovare una buona ragione per dirle di no».

Il tragico è posto, il vecchio curato non può continuare la sua vita di abitudini, dove l'abito non aveva alcun senso al di fuori di riti da amministrare, senza infamia e senza lode, come gli altri professionisti del paese, il barista o il contadino. Il passo lento del curato, la sua solitudine, rassegnata ma non «faticosa» quanto basta a non farsi rapire dalla disperazione, e la circospezione della vecchina, soltanto apparente, perché invece porta un vortice di tormento nel prete. La porta non potrà richiudersi mai più. La solitudine di quel luogo emblematico ora appare assurda: casa d'altri, in cui si è vissuti da sempre. Quell'esistenza non convince più, tutto comincia a girare in un vortice di smania, mentre il paesaggio rimane eternamente lo stesso.

Nemmeno la giovane baldanza del nuovo curato di Braino, poco prima dell'irrompere dell'agnizione, aveva saputo smuovere quel robusto prete di montagna dal suo scetticismo abitudinario e non cattivo.
Il racconto avanza a brevi capitoletti, con stile modernissimo. Appena lasciato il giovane prete, siamo nel secondo, ecco l'incontro decisivo, decisamente ben inserito in quella matrigna, piovosa, ingrata natura leopardiana. Notiamo le confidenze del narratore con chi legge: è il tratto più caratteristico di questo racconto («ecco tutto» che preannuncia il sublime e tragico ritornello «Ma che altro potevo fare, mi dite?»):

«Era tardi, era freddo, ero ancora per strada: dovevo scendere a casa ecco tutto.
L'ombra proprio ancora non era scesa: campanacci di pecore e capre si sentivano a tratti qua e là un po' prima della prata dei pascoli. Proprio l'ora, capite, che la tristezza di vivere sembra venir su assieme al buio e non sapete a chi darne la colpa: brutt'ora. [...] In mezzo a tutto quel silenzio e quel freddo e a quel livido e a quel immobilità un poco tragica, l'unica cosa viva era lei. Si chinava, e mi pare anche a fatica, affondava gli stracci nell'acqua, li torceva e sbatteva su un sasso: poi li affondava, torceva e sbatteva, e via ancora così. Né lentamente né in fretta, e senza mai alzare la testa».

Il tragico dell'esistenza, il dolore, la disperazione della fatica e l'uomo religioso che non ha risposte. Un microcosmo capace di gettare un potente fascio di luce sul macrocosmo delle nostre certezze quotidiane, abitudini sicure e senza senso. Il racconto ripropone la domanda, spinosa dell'uomo religioso, con grande realismo: unde malum? Può venire una vita così disperata da Dio?

Ma ancora Barberi Squarotti indica la specifica valenza della vecchina di D'Arzo rispetto ad altri casi di suicidi o violenze clamorosi, come ribellione disperata alla fatica insopportabile di vivere (si veda il Valino della Luna e i falò di Cesare Pavese, che prima di uccidersi, brucia la cascia e uccide la moglie e solo per una pronta fuga, il piccolo Cinto, il figlio, si salva dalla morte): paradossalmente tutto avviene in un ambito ancora determinato dalla fede. Ecco l'altra faccia del dramma: un sentimento religioso incrollabile, quanto la coscienza dell'invivibilità. La vecchina vorrebbe essere autorizzata a morire dalla Chiesa, quasi come gesto di carità, soltanto per un caso molto speciale, senza offendere nessuno. Rimanendo nella fede, semplice, di Dio. Senza trasgredire i comandamenti. Il curato non sa fare altro che guardare da lontano la vecchia, dopo averle opposto il silenzio incerto. Per giorni e giorni. In una specie di solidarietà non pronunciata e non sicura. Certo non consolante.

«Mai una volta in tre mesi che m'abbia fatto il più piccolo segno o abbia alzato anche solo la testa. Lei c'era ancora; e io dall'argine vedevo che c'era, ed il resto non voleva dir niente. E tutti e due sapevamo benissimo che non ci saremmo parlati mai più, neanche salutati incontrandoci, ma anche questo era meno di niente».

«Meno di niente»: nulla convince di esistere, anche il momento più tragico, una volta sollevato il coperchio dell'apparenza, che prima solo lievemente bruciava. Un lungo delirio, in cui matura solo la decisione di partire, andarsene, in un luogo in cui probabilmente, sarà ancora tutto uguale. Sentiamo ancora Barberi Squarotti, proprio a commento di questo brano. È del resto impossibile trovare parole più appropriate per il nostro tema:

«Il prete, tacendo, ha finito col dare una specie di autorizzazione alla vecchia: e non fa altro, ogni giorno, che andare a verificare se il peggio è diventato troppo grande e gravoso per essere sopportato. Quando la vecchia muore, chi sa come, di malattia o davvero mettendo in atto il suo proposito, il prete rimane svuotato, distrutto [...] ha verificato che l'impossibilità di vivere al limite della disperazione e della sofferenza non può essere vinta dalla legge, dalla religione, dalle parole, da nessuna ragione [...] È una ribellione e una protesta di tipo assoluto».

Svuotato, distrutto. Ancora in stretta, disperata, confidenza con il lettore. In cerca di quella carità e comprensione che la vecchia, in quel modo paradossale, anche lei, prima di lui, attendeva. Tutto è assurdo, non tutto è grazia, è il termine di questo racconto, nel suo modo tragico di una limpida religiosità nel riproporre questioni eterne.

«Allora mi vien sempre di più da pensare ch'è ormai ora di preparare le valigie per me e senza chiasso partir verso casa. Credo d'avere anche il biglietto.
Tutto questo è piuttosto monotono, no?».

È il finale. L'agnizione di una domanda radicale nascosta è riemersa più tragicamente di quanto si potesse pensare. Tutto è sconquassato eppure tutto torna all'inizio. Tutto è «monotono» sostituisce, per sempre, «tutto è grazia».
Solo un miracolo potrebbe salvare.

Come quello del Falstaff shakespeariano, almeno nella splendida lettura di Charles Moeller, riferita all'Enrico V, dove il cavaliere panciuto e guascone, ladro e dissoluto, simpatico e ubriacone muore (per poi essere risuscitato ma anche deriso nelle Allegre comari di Windsor). In punto di morte. La ripropongo, per evidente contrasto a quella sigla di monotonia del finale di Casa d'altri, e perché, per ben due volte, il curato è definito, per la corporatura, un Falstaff. Niente oltre il fisico nella storia pare ricordare il celebre personaggio. Ed è questo gioco degli opposti, senza alcuna autorizzazione, ad essere oltremodo affascinante nel terremo sterminato della letteratura, dell'umana coscienza di fronte a Dio, alla vita e alla morte:

«Se Falstaff non vuol sentir parlare del Paradiso, non ne nega tuttavia l'esistenza e serba la coscienza del peccato; sa che dovrà render dei conti; non tenta di chiamar bene ciò che è male; ma e troppo debole per cambiar condotta. Così, morendo, sembra invocare Dio e salvarsi [...] "ha fatto la più bella fine che si sia mai vista, è si è spento come un bambino appena nato"»5.



1Si veda la bella antologia dei racconti curata da Silvio Perrella per i Tascabili Bompiani, 1995, dal titolo L'aria della sera e altri racconti, da cui si cita per Casa d'altri, uscito per la prima volta sulla rivista "Botteghe oscure". Rimando all'introduzione per altre notizie su questo singolare scrittore, che ha lasciato alcune poesie, saggi di letteratura inglese e una manciata di racconti. Di Casa d'altri esistono poi varie stesure, ed è difficile individuare la volontà finale, se c'era: si nota sicuramente una progressiva intenzione di prosciugare la narrazione di eventi giudicati secondari per rendere ancora più limpida e tragica la trovata centrale.

2Nell'introduzione alla citata antologia dei racconti.

3Recentemente ristampato nei tipi della Quodlibet, Macerata, 1998, con note al testo e un saggio di Anna Luce Lenzi, da cui è tratta la seguente citazione.

4Giorgio Barberi Squarotti, Le sorti del tragico, Ravenna, Longo, 1978. La discussione su Casa d'altri è alle pagine 84-86.

5Charles Moeller, Saggezza greca e paradosso cristiano (1948), Brescia, Morcelliana, 1978, p. 82.




Silvio D'Arzo SIVIO D'ARZO

È lo pseudonimo di Ezio Comparoni nato a Reggio Emilia nel 1920 e morto di leucemia nel 1952. Tra le sue opere raccolte postume nel volume Nostro lunedì (1960), risaltano soprattutto il romanzo All'insegna del buon corsiero (1942) e il racconto Casa d'altri (1953). Nel 1976 è apparso il romanzo giovanile Essi pensano ad altro. Quest'anno è uscito per Einaudi Casa d'altri e altri racconti.

fabio.pierangeli@tiscali.it