FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia
Numero 7
luglio/settembre 2007

Altre terre

FEDERIGO TOZZI, LO SPECCHIO E L'ABISSO
Tra poetica dello spazio ed estetica non aristotelica

sul libro di Marco Testi, "Altri piani, altre valli, altre montagne - La deformazione dello spazio narrato in Con gli occhi chiusi di Federigo Tozzi"

di Fabio Pedone


Negli "Appunti per un'estetica non aristotelica" usciti nel 1924 sulla rivista "Athena", Fernando Pessoa - dietro la maschera decadente, chiassosa ed estroversa del suo eteronimo Alvaro de Campos - ipotizzava un'idea di arte svincolata dai doveri rispecchianti della mimesis, un'arte in cui il punto focale non fosse né la bellezza né la simmetria, ma l'identificazione dell'energia che agisce nella sensibilità. "Credo di poter formulare un'estetica basata non sull'idea di bellezza, ma su quella di forza". Materia ed energia, in questa prospettiva, smettono di essere due concetti in contrasto.
Il rinvio esplicito ad Einstein e alle geometrie non euclidee non era marginale né arbitrario per Pessoa-Campos. Eppure, ad oggi, sono ancora in una fase inaugurale gli studi sull'influenza dei progressi scientifici del Novecento sulla poetica (e sulla diretta operatività) degli scrittori, di solito considerati arretrati se non estranei rispetto a questi sviluppi. Una precisa contestualizzazione della "modernità" di Federigo Tozzi, in questo senso e in altri, la offre Marco Testi nel suo libro "Altri piani, altre valli, altre montagne - La deformazione dello spazio narrato in Con gli occhi chiusi di Federigo Tozzi".

Testi studia da anni l'organizzazione dello spazio negli scrittori di Otto e Novecento e la trama di connessioni, rimandi e simpatie con le contemporanee arti figurative. Qui affronta uno dei maggiori narratori del Novecento, il quale - per riprendere un curioso titolo di giornale di qualche anno fa - "aspettando d'esser letto è diventato un classico". Se Giuseppe Antonio Borgese, curatore delle opere all'indomani della morte di Tozzi, incentrò sul naturalismo di ritorno di Tre croci, ultimo romanzo pubblicato in vita, velato di richiami a un cristianesimo sacrificale, la sua valutazione dello scrittore, si deve a Giacomo Debenedetti il primo e fondamentale riposizionamento critico, con l'identificazione in Con gli occhi chiusi del momento più innovativo, profondo e moderno di Tozzi - fitto di consonanze con le grandi esperienze europee (Dostoevskij, Kafka).

Al principio degli anni Novanta, mentre Luperini provvedeva un'utile introduzione alla lettura nel suo volume laterziano, Luigi Baldacci (nel fondamentale Tozzi moderno) avrebbe tra l'altro raccolto ulteriori informazioni sulla cultura tozziana, formatasi su letture inaspettatamente varie benché (o proprio perché) disordinate, e ne avrebbe valorizzato i rapporti con le scienze e la psicologia immediatamente anteriori a Freud: William James, Janet ma anche Nordau e Lombroso (Tozzi era pur sempre uomo del proprio tempo). Ma non è il solo dei suoi meriti: sempre a Baldacci spettava anche motivare come e perché, assieme a Con gli occhi chiusi, siano le migliori novelle, rimaste in ombra per decenni nella critica tozziana, a meritare di essere considerate la punta di diamante dell'opera del senese.

La descrizione referenziale, che nell'Ottocento positivista metteva io e mondo in rapporto frontale e logico, se non paritario, ai primi del secolo seguente entra in crisi. L'estraneità del reale è sentita dalla coscienza come una ferita; allora, per dirla con Pirandello, "il vuoto interno si allarga", e se la realtà non è più stabile e comprensibile sarà il soggetto a ricrearne una, proiettando sulla mobile scena del mondo il teatro interiore delle proprie angosce. Di impronta e vocazione deterministica come la scienza ad esso coeva, il romanzo naturalista pretendeva sempre e integralmente di "spiegare". Tra gli scrittori successivi, che consapevolmente o meno romperanno questa convenzione, è Tozzi che avverte con maggior chiarezza il precipitare della coscienza in quella voragine di mistero che si è aperta fra l'io e il mondo: e dunque "narra in quanto non può spiegare" (Debenedetti).

L'indagine di Marco Testi sul mondo simbolico di Tozzi parte dall'origine, e dunque da Siena, città di archetipi materni ed equorei (le Madonne delle fonti che appaiono precocemente nella sua opera), spazio infantile presto invaso dalla violenza estranea del Padre. Sono le immagini le vere protagoniste del libro: l'immagine è crocevia di emergenze dell'inconscio che diventano nella scrittura testimonianza di una psiche lacerata in disperata ricerca di un acquietamento, facendo appello al lettore con un'energia che raramente si trova in altri autori a questo livello di compressione. Per esempio la classica metafora dello specchio subisce in Tozzi una significativa deformazione che aiuta a spiegare la sua condizione di partenza: ormai non più neutro denotatore di un mondo lucido e limpido, lo specchio, rimandando il volto del soggetto, vi apre l'abisso, divenendo a un tempo metafora dell'io e della scrittura. Una linea disforica la cui successiva tappa simbolica - sulla traccia del Baudelaire studiato da Starobinski - sarà l'impietramento malinconico, la medusea condanna all'inazione e al perdersi in un mondo di immagini interiori. Il ripiegamento della coscienza su se stessa diviene caduta nell'espace du dedans e discesa agli inferi dell'io, in un fondo oscuro abitato da fantasmi annichilenti.

Il libro di cui parliamo, innervato su analisi testuali efficaci, illumina le strategie retoriche che presiedono a una scrittura come quella tozziana che anche nei suoi momenti di estenuazione appare animata da una rabbiosa energia metamorfica. La quale viene identificata isolando nuclei simbolici e "strutture dell'immaginario", sulla traccia di Jung e Durand, e mettendo in relazione i movimenti tozziani con quelli letterari a lui coevi (Campana, Boine, Viani, Pirandello) e con varie suggestioni figurative: da segnalare i convincenti paralleli con gli straniamenti fisionomici di Scipione e con la ricreazione geometrizzante degli spazi in Cézanne, nonché con il Boccioni della "Città che sale".
In Tozzi l'esperienza fondamentale, divenuta anzi la condizione entro cui filtrare ogni successiva esperienza, è il trauma: quel tradimento paterno che esclude il singolare tipo di inetto rappresentato da Pietro (protagonista di Con gli occhi chiusi) dal mondo, per imprigionarlo in un autismo non si sa se più subìto o scelto. La paralisi di Pietro, malattia di astrazione e di scollamento dalla vita, con il programmatico rifiuto dell'avvicinamento sessuale a Ghisola, viene letta da Testi sotto la lente dell'angoscia (sul piano del soggetto) e del rancore (contro la figura paterna, ma pronto a rovesciarsi in autolesionismo).

La città, come si è detto, è spazio materno invaso dal padre estraneo, e persino la campagna, che offre a volte varchi di libertà, finisce per rimandare pur sempre al 'podere' paterno e al mondo dell' "avere" che Tozzi rifiuta. Per successive opposizioni si forma dunque una poetica dello spazio che si traduce nella proiezione dell'interiorità sconvolta sullo schermo del mondo, e nella deformazione della res extensa. Il movimento della scrittura è duplice: gli oggetti sono interiorizzati oppure caricati del magnetismo dell'io grazie all'aggettivazione; al transfert semantico corrisponde una geometrizzazione delle distanze e degli spazi che ha significative consonanze nella contemporanea opera di Giovanni Boine, autore che per carattere e tensione espressiva non può non essere amato da chi ama Tozzi.

Certo bisogna andar cauti nel fare di Tozzi un rivoluzionario, anche se inconsapevole. Ma quanto è "moderno" (pur se non assolutamente) il primitivismo tozziano?
Nel corso del saggio Marco Testi rileva come la particolare forma dell'"espressionismo" italiano in pittura (una tendenza senza scuole, senza formulazione esplicita) "si mescola con motivi e temi provenienti dal primitivismo, dalla religiosità popolare, dal misticismo, dall'anarchismo". Sono gli elementi espressionistici nell'opera di Tozzi a portarlo - nelle sue punte di eccellenza - al di là di qualsiasi naturalismo, in un territorio che soltanto Bontempelli, Landolfi, Gadda e Savinio hanno attraversato "con una scrittura tesa a cogliere echi sotterranei di voci provenienti dalle scaturigini elementari e pre-logiche".
È la strategia della descrizione a stabilire la frattura con il mondo: scontrandosi con la durezza delle cose, la scrittura rivela una patologia: le deformazioni, i continui spostamenti del segno - con processi di animalizzazione, reificazione, dissolvimento dell'oggetto, geometrizzazione degli spazi - fanno di Tozzi, nell'ottica di Marco Testi, un visionario che si pone sulla traccia dei mistici, andando oltre l'oggetto. Così, in momenti cruciali di Con gli occhi chiusi, la materia diventa luce, come nei quadri di Turner di metà Ottocento, e la luce accoglie in sé la pesantezza della materia subito interpretata come disforia che colpisce la soggettività narrata.

Come si può isolare il campo semantico del guardare e prenderlo a guida per un percorso significativo che illumini tutta la vicenda tozziana, così, e con simile profitto critico, si può divinare una storia di Tozzi sui binari della metafora del "piegarsi". Dall'"anima", la contorsione passerà anche al paesaggio. Non manca, infine, l'attenzione per la sua lingua terragna e spigolosa, con valori potentemente arcaici, spina dorsale di una scrittura malinconica e virtuosamente involuta perché insiste sulla deformazione del dato, non lo complica né lo scioglie nella sua "spiegazione".
È la metafora il suo punto di snodo, che taglia i nessi analogici e i legami sintattici (i come, i simile a). Così certe metafore (come quella che crea un denso cortocircuito tra l'ombra dei rami di un albero e la febbre, sottacendo il termine medio, cioè le vene pulsanti) devono essere affrontate dal critico con tutte le armi della retorica e dell'immaginazione. Un espressionismo più nello sguardo che nella lingua, quello tozziano, non certo esposto a eccessiva consapevolezza teorica né compiaciuto di contorcimenti lessicali, ma tutto radicato nell'allucinazione come esperienza personale.
Sono queste le direttrici su cui la scrittura tozziana si muove per raggiungere il proprio scopo: rifondare gli spazi. Nulla si salva: presa in un cromatismo violento, la natura è minaccia, le cose si animano e sostituiscono gli uomini nel loro mondo. La città è una deserta plaga del silenzio, abbandonata dagli dèi come Faenza negli Orfici di Campana, o ingoiata nel disordine cubista della Parigi di Delaunay; lo spazio, geometrizzato come nelle ultime tele di Cézanne, si apre a violente torsioni, obliquo.

Tozzi era un tragico integrale, irriconciliato con le ferite della psiche; per lui l'uomo non era più né la misura né il fine delle cose, ma gettato in una storia incomprensibile, dominata da paterni Minosse, doveva comunque cercare di fuggirne identificandosi in una forma di incoscienza preumana, cose o bestie. Lo studio di Marco Testi conferma e interpreta questa fondamentale disposizione tozziana isolandone i minimi e più sottili momenti in una scrittura che aggredisce sia il mondo, sia la figura del protagonista di Con gli occhi chiusi, nel quale l'autore ha suggerito una possibilità di se stesso.

Con gli occhi chiusi, in realtà, è solo il punto di partenza e di arrivo di un viaggio che percorre anche altre strade. Lo studio di Marco Testi, ramificato in diverse direzioni e teso all'acquisizione e al raffronto di varie emergenze testuali, sia da scrittori come il prima amatissimo, poi deprezzato D'Annunzio, che da altri autori anche apparentemente lontanissimi da Tozzi (Leopardi, Landolfi, Gadda, Caproni...) proprio per la sua precisione specialistica sarà meglio letto e attraversato da chi ha una familiarità non occasionale con l'opera del senese, e in particolare Con gli occhi chiusi. E sarà goduto da chi si pone sulle tracce di una scrittura che non sia solo nudo resoconto di una visione, ma quella visione sappia invadere e trasformare; una scrittura che diventa essa stessa mondo, perché l'occhio che guarda è già un mondo in sé e proietta i propri fantasmi angosciosi sullo schermo di ciò che riduttivamente viene detto "realtà".

Una scrittura che se mostra proficui contatti con le avanguardie, d'altro canto si radica in una precisa rilettura della tradizione e a volte è più feconda proprio nel campo del 'primitivo', che va confrontato all'altro termine 'moderno', come nelle arti figurative, in modo non semplicistico o meccanico, né per forza oppositivo. Inutile ribadire che il primo Novecento è stato il periodo più generoso di stimoli e contrasti per lo sviluppo di questa scrittura del soggetto in crisi, non pacificata, non purificata, faccia a faccia con i mostri della mente e della vita.


Marco Testi, "Altri piani, altre valli, altre montagne - La deformazione dello spazio narrato in Con gli occhi chiusi di Federigo Tozzi" (2007, Pensa Multimedia, pagg. 298, euro 19.50)


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