FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia
Numero 6
aprile/giugno 2007

Scorie & Rifiuti

GIANNA MANZINI E LA FINE
DELL'INTESA TRA UOMO E NATURA

di Magda Vigilante


Nell'epoca odierna si susseguono i gridi d'allarme per il degrado della natura compiuto dall'uomo: scienziati, politici, uomini di cultura, teologi mettono in guardia l'umanità dall'assalto sistematico alle risorse naturali, che non sono inesauribili, perpetrato a ogni livello del suolo, del sottosuolo, dei mari. Continuano però la distruzione della natura e il suo stravolgimento da parte degli uomini attraverso l'emissione di gas nocivi nell'atmosfera, l'alterazione di ecosistemi, lo sperimentalismo su animali e specie vegetali per produrre nei laboratori organismi geneticamente modificati o clonati.
Che cosa avrebbe scritto di fronte a un tale alterato rapporto tra l'uomo e la natura una scrittrice come Gianna Manzini, la quale si era particolarmente distinta, tra le autrici italiane novecentesche, insieme ad Anna Maria Ortese, per la sua partecipe immedesimazione con le creature non umane della terra nei racconti delle raccolte Boscovivo1, Animali sacri e profani2 e Arca di Noè?3

Nella premessa, intitolata Il mio Bestiario4, alla raccolta Animali sacri e profani la scrittrice, pur ribadendo la sua lunga fedeltà al tema "dilettissimo" degli animali, notava come il suo rapporto con loro fosse diventato nel tempo "più entusiasmante", ma anche più "accorato". Qualche riga più sotto chiariva questo mutato atteggiamento verso gli animali con queste affermazioni: "Un tempo li guardavo sorridendo, e nel piacere di quel sorriso palpitava quasi una larva di complicità, una specie di festosa ammissione: ora li guardo con un turbamento che non ha nulla che fare con l'intesa facile di allora".5

La Manzini avanzava due ipotesi: quella dell'innocenza che ora la commuoveva e la rapiva come "un barlume superstite dell'antico Giardino", ma anche, insieme con l'innocenza, quella del mistero. A differenza della scrittrice il cui rapporto con la natura e, in particolare, con gli animali, era stato modificato dalla scoperta della complessità e del mistero che ogni essere reca con sé, gli uomini d'oggi ignorano con estrema disinvoltura il mistero inerente a tutte le creature umane e non, decretando così la fine dell'intesa tra natura e uomo in modo totale. Tuttavia scrisse anche il racconto Capponi diventati don Giovanni6 dove analizza le prime trasformazioni operate dall'uomo sugli ignari animali precedenti gli attuali e ben più sconvolgenti esperimenti. L'autrice descrive con la consueta precisione il nuovo aspetto e comportamento indotti artificiosamente dall'uomo nei poveri capponi:

Una decina di capponi dietro una rete, riparati da una tettoia. Testa bassa, cresta e bargigli ridotti a nulla, coda miserabile, obesi, ricchi soltanto d'una gorgiera spiovente, becchettano, becchettano, e, malinconici convertiti, ripensano non sai se carichi di vergogna o di rimpianto a una vita di gagliarde sfrenatezze intravista come un miraggio all'alba del primo chicchirichì.7

È vero che la trasformazione del gallo in cappone è un'invenzione antica e contadinesca, ma a questa ora se ne sovrappone "una moderna, scientifica, cittadina. Un animale nuovo di zecca: un cappone ardito più d'un gallo, d'una bellezza veemente, con una cresta battagliera più di quella di un qualsiasi gallo, con un piumaggio tutto lucidi elettrici coltellini ed una voce fremente di furore e di imperio: è il cappone ultra-ricostituito, un demonio...".
Ai capponi iniziali, animali goffi e tristi, si contrappone la nuova razza dei capponi ultra-ricostituiti, trattati con il propinato di testosterone e la vitamina E, le cui caratteristiche sono opposte a quelle dei loro ridicoli antenati. Il cappone moderno, "ultrarigenerato", ha infatti una cresta più dritta di quella di un gallo, ma soprattutto emette un grido aggressivo e furente, insomma è diventato un demonio, essere forsennato e malefico.

La profanazione degli organismi originari compiuta dall'uomo non si limita a produrre un nuovo esemplare di cappone "tappa clamorosa di una serie di ricerche, [alla quale] gli scienziati sono giunti... ricercando nientemeno che il siero di giovinezza",8 ma dà vita anche a una sottospecie: i capponi che hanno avuto il propinato di testosterone al quale però non è stata aggiunta la vitamina E. La scienza umana è riuscita quindi a isolare in alcuni animali la bellezza senza il concorso di altri significativi caratteri: questi ultimi capponi sono infatti "solo belli", ma la Manzini corregge subito la valutazione, scrivendo che sono "appena belli", quasi per rivendicare il valore non riproducibile della bellezza originaria e spontanea, mentre i capponi che hanno ricevuto il trattamento completo sono sì belli, ma di una bellezza innaturale, demoniaca appunto.

Fin qui la scrittrice ha presentato la diversa tipologia dei capponi rivelando compassione per i poveri capponi non sottoposti ad un trattamento speciale, però si è mantenuta neutrale verso le manipolazioni condotte dagli scienziati sugli animali (anche se ha sottolineato gli sforzi che deve compiere il cappone ultra-ricostituito per dimostrare che è addirittura più valido di un gallo) ma, avviandosi verso il finale, svelerà invece le fatali incongruenze della scienza umana.

Sotto gli occhi degli "esterrefatti spettatori" avviene un nuovo esperimento con l'introduzione da parte di una guardiana di una gallina nei vari gruppi di capponi secondo un turno stabilito. Le conseguenze dell'intrusione sono rappresentate con immagini vivide e azioni repentine dagli effetti esilaranti: i "capponi-capponi" indietreggiano, "forse seccati, forse mortificati e vergognosi", mentre quelli che hanno subito un trattamento parziale sembrano "temere nella gallina la nemica che li può smascherare". Con un disperato svolazzare si ritirano sul tetto e, "gonfi di sgomento, e fors'anche di invettive contro la tentatrice e i tentatori, hanno l'aria di farla da puritani". Il termine finale fa emergere una nota di garbata ironia nell'immaginare i capponi, solo ormonizzati, come pudibondi puritani che vogliono sfuggire la tentatrice.

In seguito però la vis comica si scatena nel descrivere la reazione dei capponi che hanno ricevuto il trattamento completo con la vitamina E, "genio malizioso degli ormoni" commenta la scrittrice prima di riprodurre quanto avviene dietro la rete solo all'apparire della gallina. Gli animali ringalluzziti, è il caso di dirlo, anzi super ringalluzziti, "cacciano il becco fuor delle maglie e gridano a squarciagola. Alcuni saltellano come i giocatori di calcio prima che s'inizi la partita; altri... vanno di ronda da un capo all'altro del recinto, sognando, svagati e fanatici, la vittoria imminente e raccontandosela come fanno tutti gli sciocchi superbi...".9

Inutile insistere oltre, presentando anche quello che succederà con l'effettivo ingresso della gallina. Non può essere altro che "un pandemonio, un macello" dove si distingue un cappone più bello e coraggioso degli altri a cui non si può certo rivelare che la sua felicità non era affatto prevista dagli scienziati che gliel'hanno donata come un effetto collaterale del trattamento provato su di lui in quanto animale biologicamente molto vicino all'uomo.

Proprio questa non prevista conseguenza susciterà nella scrittrice alcune considerazioni sia verso gli scienziati che si giudicano neutrali perché non violano il mistero della vita, ma vogliono solamente rigenerare "gli affaticati tessuti che compongono il corpo umano", sia verso quanti si scandalizzano per il loro operato che condurrebbe ad alterare il destino naturale di uomini, piante ed animali. Costoro però accettano senza batter ciglio la metamorfosi del gallo in cappone rinunciatario, ma non viceversa il cappone tornato baldanzoso galletto.

Chi ha dunque ragione? Gli scienziati che compiono le loro scoperte per donare sempre maggior benessere all'uomo o quanti disapprovano i loro esperimenti per timore della fine di un ordine naturale che dura da tempo immemorabile?
L'autrice non emette il suo verdetto, ma chiude il racconto con l'immagine di un gallo decrepito che, trattato in modo opportuno, sfoggia la sua recuperata vitalità a danno di un galletto di primo pelo destinato a soccombergli nel combattimento, se non venisse prontamente allontanato dalla gabbia. Giudichi dunque il lettore quanto i cambiamenti introdotti dalla scienza possano essere utili o dannosi.

Non è stato sottoposto ad un trattamento ormonale, ma è stato ugualmente deturpato nel suo aspetto originario il pero nano a cui è dedicato il racconto omonimo.10 Nel suo caso l'uomo l'ha gravato di una stampella per ogni ramo e di un sacchetto di carta trasparente per ogni frutto, trasformandolo nel crepuscolo in un ragno mostruoso, oppure, alla luce del sole, "in uno di quei bambini che reggon male il testone, traballanti nella cesta di vimini...".11 La trasformazione dell'alberello suscita nell'autrice un sentimento di tenerezza svelato nel paragone tra il pero nano e uno di quei bambini che non sono ancora in grado di sollevare la testa e oscillano buffamente nella cesta dove sono stati deposti.

Nelle righe successive è ripreso il paragone tra l'albero e un fanciullo innocente, ma stavolta per sottolineare la vera natura del pero, quando era un albero snello, non ancora stravolto dall'intervento umano, che accoglieva "a braccia spalancate" l'arrivo della primavera. Ora, invece, oppresso dal peso dei suoi frutti, diventati presenze estranee per la carta che li avvolge, l'alberello era diventato "il facchino di se stesso sonnecchiante in una sbornia bianca".12 Di fronte al buffo spettacolo dell'albero con le sue grucce e i suoi sacchetti, "un ragazzo aveva cominciato a ridere, ridere e non smise finché non lo portarono via".13

L'umiliazione peggiore per il pero era però quella di attirare l'attenzione di tutto l'orto, sentendosi quindi un essere strano, non più appartenente alla comunità vegetale. Lo consolava solo la speranza di raggiungere, anche così snaturato, la sua piena maturità che avrebbe trovato compimento nella produzione dei frutti dorati e succosi. All'improvviso, però, "un urto distrae l'equilibrio difficile dell'alberello", creando un momento di sospensione durante il quale viene meno "quel vibrio d'ali" dei mosconi e delle vespe che sembra alla Manzini "la voce della gran luce" dove vibra soltanto "la spira dell'«esse» che impone silenzio".

La causa del fastidioso scompiglio si rivela una vera beffa, se non proprio una malefica "stregoneria" per il povero pero: l'ha provocato, infatti, una gallina starnazzante che, dopo essersi appollaiata su uno dei suoi rami, si gonfiava di soddisfazione, e continuando a gonfiarsi, "cercava di pesare di più sull'alberino gracile e oppresso".14 Anche qui, come nel racconto precedente, la gallina diventa un elemento perturbatore: per i capponi in quanto smaschera la loro scarsa vitalità, per il pero nano in quanto sostituisce goffamente i passerotti e i fringuelli, saltellanti sugli alberi vicini, con i quali i rami hanno in comune "un progetto di volo" nel loro slanciarsi verso l'azzurro del cielo.



1 Milano, Treves, 1932.
2 Roma, Casini, 1953.
3 Milano, Mondadori, 1960.
4 In op.cit., pp.VII-XIII. Successivamente ristampato come prosa e con il titolo Arca di Noè nel volume omonimo, pp.11-18.
5 Ibidem, p.IX
6 In op.cit., pp.101-105. Successivamente ristampato nel volume Arca di Noè, cit., pp. 143-147
7 Ibidem, p.101.
8 Ivi, p.102.
9 Ivi, p.104.
10 Un pero nano in Boscovivo, op.cit., pp. 72-74.
11 Ibidem, p.72.
12 Ivi, p.73.
13 Ivi.
14 Ivi, p.74.



GIANNA MANZINI
Capponi diventati don Giovanni

Una decina di capponi dietro una rete, riparati da una tettoia. Testa bassa, cresta e bargigli ridotti a nulla, coda miserabile, obesi, ricchi soltanto d'una gorgiera spiovente, becchettano, becchettano, e, malinconici convertiti, ripensano, non sai se carichi di vergogna o di rimpianto, a una vita di gagliarde sfrenatezze intravista come un miraggio all'alba del primo chicchirichì.

Tutt'altro che lieti della loro pace, la subiscono come una penitenza, e, muovendosi nel breve recinto, tentano invano lo scatto originario della zampa, quando il pavimento pareva scottasse, e ogni passo era pretesto per un altolà carico d'insolenza; lo cercano, lo imitano goffamente, mentre fra un chicco e l'altro di becchime consumano l'eterno banchetto di castità che quasi li dispensa di vivere, condannandoli ad un torpore propizio al loro peso. Peso natalizio.

Ma il cappone è una bestia inventata; inventata con un sopruso o addirittura uno degli infiniti delitti che son diventati regola nella soave campagna.

A questa invenzione, antica e contadinesca, se ne sovrappone una moderna, scientifica, cittadina. Un animale nuovo di zecca: un cappone ardito più d'un gallo, d'una bellezza veemente, con una cresta battagliera più di quella di qualsiasi gallo, con un piumaggio tutto lucidi elettrici coltellini, ed una voce fremente di furore e di imperio: è il cappone ultra-ricostituito, un demonio: lo dice l'occhio imperterrito di vetro giallo, lo dice il passo il passo che - sbaglio? questione di sfumatura? - ha sì lo scatto con cui il padre del cappone soggiogò tutto il pollaio (uno schizzinoso ed arrogante toccar terra, una sfuggenza provocatoria) ma non mantiene la grazia di quando lo zampino penzolava floscio sotto il petto, come il fazzoletto che il giocoliere potrebbe gettare dopo la bravura. Il cappone ultra-ricostituito, nel timore di essere un po' meno d'un gallo, si comporta indefessamente come se fosse più d'un gallo. Anche perché, trattandosi di un animale dimostrativo, è impegnatissimo nella sua dimostrazione: ha da spiegare ora di fronte a noi, esterrefatti spettatori, le virtù magiche di un filtro. Infatti, all'invenzione di questo animale, tappa clamorosa di una serie di ricerche, gli scienziati sono giunti appunto ricercando nientemeno che il siero di giovinezza.

Fra i capponi-capponi, ed i capponi ultra-rigenerati, c'è di mezzo il propinato di testosterone e la vitamina E, la vitamina della fecondità, scoperta circa trent'anni or sono, e della quale si parlò come della fonte segreta della vita.

In una terza stia, si raggruppano capponi che hanno avuto un altro siero; propinato di testosterone senza vitamina E. Son belli; ma appena belli.

A questo punto devo raccontare quel che è successo al cospetto della gallina.

Medici, guardiane, visitatori, eravamo sulla terrazza dove si compiono questi esperimenti e dove galline e capponi vivono una vita a dir poco stravagante.

Già ormai sanno talmente quel che sta per accadere che, all'ingresso del primo visitatore sulla terrazza, fra i capponi "trattati" è un'ira di Dio: in venti gridano come fossero duecento.

Fra qualche minuto, il professore che ci guida chiederà ad una guardiana di prendere da una stia poco distante una gallina. Ci siamo. La gallina viene presentata ai veri capponi che l'avvistano e indietreggiano, forse seccati, forse mortificati e vergognosi, forse impensieriti per il becchime minacciato dall'ingordigia dell'intrusa. I più le voltano le spalle. Poi vien portata ai capponi ormonizzati; a quelli cioè che hanno subito un trattamento parziale. Quasi che in questi albeggiasse un barlume di coscienza, la coscienza di una loro forza priva di spirito e di iniziative, come un vigore ottuso, sembran temere nella gallina la nemica che li può smascherare. Un che di disperato nel movimento delle loro ali, nella protesta del loro vociare. Ritirandosi sul tetto, gonfi di sgomento, e fors'anche di invettive contro la tentatrice e i tentatori, hanno l'aria di farla da puritani.

Intanto gli altri, quelli che hanno avuto il trattamento completo -oh, questa vitamina E, genio malizioso degli ormoni - già starnazzano dietro la rete, già cacciano il becco fuor delle maglie e gridano a squarciagola. Alcuni saltellano come i giocatori di calcio prima che s'inizi la partita; altri ariosissimi, vanno di ronda da un capo all'altro del recinto, sognando, svagati e fanatici, la vittoria imminente e raccontandosela come fanno tutti gli sciocchi superbi. Arriva la gallina (poverina: respinta dai capponi-capponi, sfuggita da quelli soltanto ormonizzati...). Arriva dunque la gallina... Be', non ne parliamo: è un pandemonio, un macello.

Fra questi diavoli, ce n'è uno considerato il più bello e il più valoroso di tutti; bianco il piumaggio, quanto mai vermigli bargigli e cresta, rosata la zampa: una sciccheria. Tanto riconosciuto superiore anche dai compagni, che è necessario tenerlo in una gabbia separata; per gelosia del suo fatale prevalere, lo sbranerebbero. - Guardi qui... - mi dice la guardiana, mostrandomi, prima di rinserrarlo, un bargiglio lacerato e risarcito.

Sarebbe bello raccontare la storia di questo bianco pennuto da quando era un piccolo gomitolo giallo a quando sopportò lo smacco che lo convertì, fino alla sorpresa di trovarsi splendido e temuto don Giovanni. Ne sarebbe sbigottito lui stesso.

Per non mortificarlo - ma chi riuscirebbe a mortificarlo ormai, questo campione di baldanza - non gli diremo che gli scienziati non pensavano affatto alla sua felicità: gliela hanno regalata quasi senza volere, perché provavano su di lui - animale biologicamente tanto vicino all'uomo- gli effetti del propinato di testosterone combinato con la vitamina E.

A questo punto gli scienziati, tengono a precisare: "Non pretendiamo di violare il mistero della vita, bensì di rigenerare gli affaticati tessuti che compongono il corpo umano".

"Il mistero della vita". Con la cautela, tinta dell'astuzia, che le è naturale, la scienza qui anticipa la risposta a coloro che vedranno in ciò un oltraggio al destino. Curiosa; finché si sottrae qualcosa alla vita, rendendola più patita, tutto va bene; del gallo che diventa il rinunciatario cappone, nessuno trova da ridire, mentre di fronte al cappone o al decrepito galletto ridiventato simbolo di vitalità e di gioia, ecco che ci si può insospettire ed allarmare. Curiosa.

Si tratta anche d'un gallo decrepito? Sicuro. Fu raccolto morente a un'età pari ai nostri novant'anni. Adesso, pettoruto, penne lucenti, colori vividi, collo eretto, si pavoneggia solo solo nella sua gabbia. Gli metton vicino un galletto di primo pelo e il vecchio inizia un combattimento furibondo. Bisogna intervenire e sottrarre il malcapitato, il quale a distanza continuerà a subire provocazioni e minacce.


GIANNA MANZINI
Un pero nano

In mezzo all'orto, con una stampella per ogni ramo e un sacchetto di carta trasparente per ogni frutto, pareva un riccone ammalato o, allorché il sole era scomparso, un ragno mostruoso che si provasse a scappare da quell'aiola incerta e commovente quanto un "o" fatto da un ragazzo; oppure, in certe mattinate che esigono eleganza e nitidezza, e danno slancio alle cose e quasi le sollevano, uno di quei bambini che reggon male il testone, traballanti nella cesta di vimini; ma non somigliava davvero l'albero snello che fu quando a braccia spalancate accolse la primavera, vestito di bianco, proprio fanciullo innocente.

Le piante vicine avevano in ogni foglia una sillaba lucida di sdegno; ché, nell'ingrossare di quei frutti era tradita la fioritura casta del recente aprile, rivelato un segreto impudico tutto succo e polpa che offendeva la magrezza del verde, sfogata una malattia della stagione; ed esso pure avrebbe considerato se medesimo con meraviglia, stentando a riconoscersi, se tutto quel peso di pere da far diventare dolci non l'avesse reso un po' ottuso e spento, senza tregua facchino di se stesso, sonnecchiante nella nebbia d'una sbornia bianca.

Una volta un ragazzo gli si fermò a un passo di distanza e, guardandolo, cominciò a ridere, e ridere, e non smise finché non lo portarono via.

Così ridotto, tra grucce e fasciature, sentiva sopra di sé, annoiante più del solletico che gli facevano le formiche su e giù per il tronco e per le rame l'attenzione di tutto l'orto. Il giorno gli girava attorno: cerchio massimo in cui impazziva il volo dei mosconi e delle vespe. Curvo, decrepito e come senza ciglia, il pero credeva gli s'indicasse con quel ronzio assiduo e avvolgente l'equatore della propria maturità, e ne godeva, aiutato. Poi, ecco, uno sbattimento contro la carta sonante che protegge il frutto. L'urto distrae l' equilibrio difficile dell'albero, e crea un momento di sordità, sicché sembra cessare a un tratto quel vibrio d'ali che forse è la voce della gran luce, la voce in cui suona soltanto la spira dell'"esse" che impone silenzio; e il pero teme d'essere in un deserto di sole fermo e di piegare finalmente sotto il peso sconsolato della propria dolcezza che vuol risolversi in oro e succo.

La giornata si chiudeva con una beffa, se non proprio con una stregoneria. Mentre su gli alberi vicini saltellavano passerotti e fringuelli, e si capiva che fra le ali e il ramo c'è parentela, essendo questo un progetto di volo, sul pero nano saliva ogni sera, goffa e starnazzante, una gallina: volgeva la testa di qua e di là, e dopo un coccodé, appollaiandosi, gonfiava di soddisfazione, continuava a gonfiare, cercava di pesare di più sull'alberino gracile e oppresso.




Gianna Manzini GIANNA MANZINI

Nacque a Pistoia il 24 marzo 1896 da Giuseppe Manzini di agiata famiglia originaria di Modena e da Leonilda Mazzoncini di ricchi industriali pistoiesi. Il matrimonio verrà sempre osteggiato dai genitori di Leonilda a causa della fede anarchica e delle ristrettezze economiche di Giuseppe. Le difficoltà quotidiane della coppia determineranno la fine dell'unione, evento che segnerà per sempre la vita di Gianna. All'avvento del fascismo, Giuseppe fu obbligato al confino, dapprima a Pracchia e dopo a Cutigliano, nell'Appennino pistoiese, dove morì nel 1925. Pur vivendo con la madre, la Manzini provò sempre un'ammirazione particolare per il padre, che incontrava saltuariamente. Trasferitasi a Firenze, alla fine del 1914, per proseguire gli studi al Magistero, la scrittrice si formò idealmente alla scuola del De Robertis. Dopo la laurea in Lettere, la Manzini cominciò il suo apprendistato letterario pubblicando numerosi racconti, negli anni Venti, su diversi giornali, tra cui "La Nazione" dove era critico letterario Bruno Fallaci, che sposò nel 1920.

Nel clima fervido di fermenti culturali della Firenze della fine degli anni Venti, la scrittrice aderì al gruppo di scrittori e critici riuniti attorno alla rivista "Solaria" e pubblicò nel 1928 il suo primo volume Tempo innamorato (Milano, Corbaccio), che venne subito apprezzato dalla critica come opera nuova e stimolante. Successivamente uscirono le due raccolte di racconti Incontro col falco (ivi, 1929) e Boscovivo (Milano, Treves, 1932). Nel 1933, fallito ormai il suo matrimonio con Fallaci, la Manzini si spostò a Roma dove divenne la compagna del critico Enrico Falqui.

Nel nuovo ambiente della capitale, produsse diverse raccolte di racconti: Un filo di brezza (Milano, Panorama, 1936) Rive remote (Milano, Mondadori, 1940), Venti racconti (ivi, 1941), Forte come un leone (Roma, Documento, 1944; con disegni di Scipione), successivamente ristampato nel volume Forte come un leone e altri racconti (Milano, Mondadori, 1947), Carta d'identità (Roma, Nuove edizioni italiane, 1945). Tra il 1945 e il 1946 si occupò della direzione dei quaderni internazionali di "Prosa" e si dedicò anche ad una intensa attività pubblicistica su vari quotidiani e riviste. Nel 1945 aveva pubblicato il testo sperimentale Lettera all'editore (Firenze, Sansoni, 1945; Milano, Mondadori, 1946) nel quale si prospetta, sotto forma di appunti progettuali su un romanzo da farsi, una svolta decisiva nella futura produzione della Manzini. Il libro, che ottenne il Premio Costume, suscitò molto interesse nell'ambiente letterario. A partire dagli anni Cinquanta furono ristampati i volumi: Ho visto il tuo cuore (Milano, Mondadori, 1947; ivi, 1950) e Il valtzer del diavolo - premio Soroptmist - (Milano, Mondadori, 1947; ivi, 1953) mentre uscirono le nuove opere: Animali sacri e profani (Roma, Casini, 1953), Foglietti (Milano, All'insegna del pesce d'oro, 1954), La sparviera (Milano, Mondadori, 1956) - premio Viareggio - e Cara prigione (ivi, 1958).

Intensa fu la successiva produzione manziniana con i volumi: Ritratti e pretesti (Milano, Il Saggiatore, 1960), Arca di Noè (Milano, Mondadori, 1960 ), Un'altra cosa (ivi, 1961), Il cielo addosso (ivi, 1963), Album di ritratti (ivi, 1964), Allegro con disperazione (ivi, 1965), e con il saggio Domenikos Theotokopoulos detto El Greco (in L'Opera completa del Greco, presentazione di Gianna Manzini, Milano, Rizzoli, 1969). Nel 1971 la scrittrice raggiunse uno dei momenti più alti della sua narrativa con il romanzo Ritratto in piedi (Milano, Mondadori) , dedicato alla memoria del padre, con il quale vinse il premio Campiello; due anni dopo pubblicò l'ultima sua opera Sulla soglia (ivi). Morì a Roma il 31 agosto 1974, a pochi mesi dalla scomparsa di Enrico Falqui, a cui era stata lungamente legata.


BIBLIOGRAFIA

Per la bio-bibliografia della Manzini si segnalano i seguenti volumi:

  • L. Fava Guzzetta, Gianna Manzini, Firenze, la Nuova Italia, 1974;
  • E. Panareo, Invito alla lettura di Gianna Manzini, Milano, Mursia, 1977;
  • Gianna Manzini tra letteratura e vita, a cura di C. Martignoni, catalogo della Mostra bio-bibliografica omonima, tenuta a Firenze, Palazzo Strozzi, maggio-giugno 1983;
  • Gianna Manzini tra letteratura e vita, a cura di M. Forti, Atti del Convegno Pistoia-Firenze del 27-29 maggio 1983, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 1985;
  • Gianna Manzini. Pagine di critica e testimonianze 1974-1984, a cura di F. Santucci, Roma, Editoriale Azzurro, 1985;
  • Gianna Manzini, a cura di F. Bernardini Napoletano e G. Yehya, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 2005.

Numerose le riedizioni di racconti e romanzi della Manzini delle quali si ricordano quelle della casa editrice Via del Vento di Pistoia:

  • Bastimento in bottiglia e altri racconti dimenticati, a cura di M. Ghilardi, 1991;
  • Favola dell'ulivo e altre prose liriche, a cura di C. Martignoni, 1994;
  • Bestiario. Tre racconti, a cura di M. Del Serra, 1996;
  • Il merlo e altre prose, a cura di M. Vigilante, 2005;
  • Cielo di Pistoia e altri racconti, con uno scritto di Indro Montanelli, 2006;

e quelle delle Edizioni Libreria dell'Orso di Pistoia:

  • Ritratto in piedi, a cura di C. Martignoni, 2005;
  • Sulla soglia, a cura di C. Martignoni, 2005;
  • La sparviera, a cura di M. Ghilardi, 2005.

Altre edizioni postume:

  • Lettera all'editore, a cura di C. Martignoni, Palermo, Sellerio, 1993;
  • Autoritratto involontario e altri racconti, a cura di M. Ghilardi, Milano, La Tartaruga edizioni, 1996;
  • La moda di Vanessa, a cura di N. Campanella, Palermo, Sellerio, 2003 (che raccoglie una selezione degli articoli di moda scritti dalla Manzini, dagli anni Trenta sin quasi agli ultimi anni, su "Giornale d'Italia", "Oggi", "Panorama", "Fiera Letteraria" con gli pseudonimi di Vanessa e Pamela).

     

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