FILI D'AQUILONE rivista d'immagini, idee e Poesia |
Numero 6 aprile/giugno 2007 Scorie & Rifiuti |
MANGANELLI POETA di Fabio Pedone |
Le verità ultime, per chi non crede in altri mondi, giacciono al livello delle ossa. Come qui: «Webster fu molto ossessionato dalla morte; / Sotto la pelle vedeva sempre il cranio». Il giovane Giorgio Manganelli (1922-1990) forse apprezzava questi versi di T.S.Eliot, stando almeno alle poesie che emergono ora dal magma degli inediti. Dovrebbe essere poco meno che un evento la pubblicazione dei versi (non tutti e non solo "giovanili") del massimo prosatore italiano formatosi nel secondo dopoguerra: poco letto tuttora e ancora meno amato, malgrado i frequenti revivals; inchiodato - e dunque sottratto a più mobili, feconde interpretazioni - all'etichetta di "funambolo" o "barocco" che è la cifra peculiare della sua prosa più sorprendente e provocatoria. Il volume di cui parliamo (Giorgio Manganelli, Poesie, Crocetti , pp. 356, postfazione di Federico Francucci, euro 20) è una delle più belle occasioni di quella "archeologia manganelliana" che forse ci darà altre sorprese negli anni a venire. Provenienti dall'archivio di Lietta Manganelli, figlia dello scrittore, e curate da Daniele Piccini, che offre anche un germinale approccio filologico nelle note ai testi, queste "prove di laboratorio" sono ripartite in tre sezioni: le "Poesie", raccolte dall'autore in una forma prossima ad un'elaborazione finale (con tre appendici); una sezione di "Altre poesie" e l'ultima di "Poesie giovanili", che in larga parte conoscevamo già da un'anticipazione del '99 nella rivista "Poesia". Ci troviamo di fronte, per quanto ne sappiamo, alla quasi integrale opera in versi di un autore coltissimo quanto erratico, ancora in cammino per diventare se stesso, che dopo i primi esperimenti, tra neoclassici e postermetici, alla metà degli anni Cinquanta (sulla soglia dei 35 anni) vive una disperata crisi e dà una svolta alla propria produzione poetica in direzione spesso antisentimentale e volentieri sarcastica. Ne nascono versi faticosi e ostili, pervasi dall'ossessione della morte e del sesso, dall'occulto commercio con i fantasmi, con un sentore carnale di putrefazione e l'insistente fantasticheria sul proprio destino perituro:
una imprevedibile chiarezza dentro il mio corpo che decade. Un sentimento a volte incerto della forma significa che l'angoscia (nume e demone manganelliano) non ha ancora provocato uno stile, come invece succederà nel libro d'esordio in prosa del quarantenne scrittore, quell'Hilarotragoedia (1964) propiziata dalle risolutive sedute con il dottor Ernst Bernhard. In queste poesie l'io - tra ironico e disperato - è ben presente ma è orientato lontano dalla "letteratura come menzogna" che un decennio più tardi sarà lo stemma retorico del Manganelli più noto. Un lessico ricco e di nervosa densità, quasi "oggettuale", convive qui con un'insolente tendenza al fulmine satirico (con singolari affinità con il feroce Delfini delle Poesie della fine del mondo). Nel "tanatocentrismo" di questo inferno privato, che avrà poi modo di svilupparsi nelle prime opere edite in prosa, agisce una prima persona ancora orgogliosa e ingombrante. Dunque è qui la distanza di questo "protoManganelli" da quello che conosciamo: l'io che parla in queste poesie pretende comunque all'autenticità, dà ancora per scontato che il lettore esista e che gli creda, non si è ancora nascosto dietro la maschera manierista dello stile ma già attiva delle artificiose strategie per difendersi dal pathos ostentato che consegue al parlare di sé, dalle trappole del lirismo.
Nei versi del Manganelli anni Cinquanta al centro della percezione e della scrittura stanno il corpo e i suoi malesseri, spiati nel loro digradare verso «la mite carne del verme, / l'amicizia improvvisa della morte». «Nella pace della coscia» si cercano solo «false soluzioni»: non servono «argini di libri», «il catalogo freddo dei possibili» non salva dal niente in agguato, i «cattivi sillogismi / di una divinità qualunque» non possono eludere la verità della decomposizione della «compagine carnale».
una certa quantità d'amore che non mi riesce di collocare; fu bestia già rissosa e calda; ora in quella, già sclerotica, s'impaccia l'anima; oggetto greve, risibile, punto funzionale, grossa scatola, o scardinata macchina, abat-jour sfasciato, goffo soprammobile deforme per polvere, corrotto. La triste decadenza del corpo lo fa poi rancore, ira, demenza. Intorno al '60, come testimoniato nella sezione "Altre poesie", Manganelli escogita una forma più libera, anarchica e diffusa («Quello che scrivo / non scrivo per scrivere scritture»), che si apre a violente invettive sulla contemporaneità e a deformazioni grottesche e assurde, fino alla filastrocca oscena.
mitrrrragliare il vecchio questurino dell'universo che ci inibisce l'accesso alle fregne gagliarde il celerino del niente che piomba alle tue spalle mentre chiavi e ti dice: È peccato, e marca a fuoco le tue chiappe adolescenti. Questa visione satirica e poliziesca della divinità, foriera di gran divertimento per lo spassionato lettore odierno, è l'esito della rivolta di Manganelli contro la religiosità ossessiva della madre; del resto, nel '61 sarà proprio il suo "psicopompo" Ernst Bernhard (lo ha notato Gilda Policastro) a definire l'attività intellettuale una forma di "ipercompensazione" nei confronti di una Madre dall'affetto labile o assente, ma la cui influenza sul figlio, reso infermo e impotente dalle sue pretese ricattatorie, rimane schiacciante. Pur renitente al riversarsi senza mediazioni in "diario di un dolore", la sensibilità dell'io biografico appare particolarmente sollecitata in queste poesie. Nel leggerle si dovrebbe evitare di cadere in un errore di taratura sovradeterminando i presentimenti del Manganelli del "dopo", al fine di evidenziare forzatamente in esse la stessa sfacciata ed elusiva retorica; per cogliere l'essenziale singolarità di questi esperimenti di "non-finito" in versi, alcuni dei quali mostrano appunto un potente (e affascinante) carattere di incuria formale, sarà piuttosto opportuno far pesare le discontinuità. Ma in un'edizione così attentamente allestita bisogna evidenziare una notevole pecca: un lungo testo su cui pure il curatore si sofferma nell'introduzione, "Ode pour l'élection de son sépulchre", è segnalato come ars poetica dell'autore («testo altamente programmatico e metaletterario») senza avvedersi che si tratta in realtà di una peraltro sintomatica traduzione di una poesia di Pound, e non delle meno note: si trova infatti in Hugh Selwin Mauberley (1920), che chiude il periodo londinese dell'autore dei Cantos, e la sua quinta parte è stata addirittura tradotta con sapida efficacia da Montale nel '48. Piccini nelle note ne riporta la versione dattiloscritta con le varianti, segnala scrupolosamente la provenienza delle varie citazioni di cui è intessuta, da Omero a Ronsard, ma del nome di Ezra Pound neanche l'ombra.
Immediatamente tangente al primo gesto creativo pubblico dell'autore, lo pseudo-trattato Hilarotragoedia, la pratica manganelliana dei versi, sempre più accanita e disordinata, si interromperà proprio nel momento dell'elaborazione di quel libro labirintico ed umorale, per non riprendere più. Il suo probabile atteggiamento verso l'ipotesi di una tardiva pubblicazione dei versi potrebbe forse essere riassunto con le parole usate in Letteratura come menzogna a proposito delle poesie di Beckett: «Quando uno scrittore, già noto per singolari imprese di romanziere e drammaturgo, ci affronta con un fascio di poesie, quasi fosse agli acerbi inizi di una incerta carriera, lo accogliamo con assai misti sentimenti: una simpatia curiosa ma non generosa, ed anzi un poco ironica, per lo scrittore che osa esibirsi nella più ambiziosa e perigliosa delle imprese letterarie; cautela contigua alla diffidenza, giacché sa di soperchieria questo commerciar poesia sotto una insegna già altrimenti illustre; e anche una punta di deplorazione per il romanziere che, sospettiamo, mosso da una incauta pietas verso se medesimo, recupera i documenti di un estro da tempo estinto.» Nel suo futuro di scrittore edito Manganelli non si appagherà più di una forma e cercherà di provocarne molte, facendole esplodere dall'interno, scavando il vuoto nei loro gusci retorici: un vuoto abitato da una voce che dirà «io» soltanto per mentire meglio. Per "prendere la propria 'verità' per i capelli e trascinarla in una regione in cui il vero non ha alcun privilegio sul falso", quell'inferno in cui la letteratura discende sempre, alleviata del peso mortale del corpo. |
SEI POESIE DI GIORGIO MANGANELLI
mi riconcilierò, già lo comprendo, con il limite delle scatole di latta, accetterò, gli sarò amico, il durissimo mattone, le stagioni che muovono il grembo delle donne. Accetterò gli assensi ed i rifiuti la donna consumata la donna che rifiuta le visioni a mucchio, senza senso, l'affronto dei miracoli - toccherò con grande pazienza il mio corpo mediocre, l'onta delle membra, notando i dolci segni della mia consumazione - deposta ogni ambizione astratta mi conforterò nell'indulgenza dell'amichevole peccato.
potrà ingannare questa radice di morte che ci cresce affettuosa nel centro del corpo - quale donna, o inganno di parole, quale sofisma di credente o viltà di sillogismi ci indurrà ad eludere la salda vocazione che dispone il disordine del corpo nella maternità del niente?
se non per questo dolore continuo dell'orecchio, una lettera d'amico, il gusto denso della birra contro le gengive. Fuori del sigillo della paura ininterrotta non ho altro indizio della mia continuità.
non bello, comune, ma continuo, oscuramente ci sgomenta, allude, significa, è concreto, oggettivo, esiste, è resistente, misurabile. Non varcherà quel volto chi non paghi un pedaggio di sospiri, di voluttà, di rifiuti di morire. Prefigura una serie di assensi prevedibili. Presuppone gesti funzionali. Desiderio ed ansia muove in chi la scopre: ma chiede odio, odio pretende, per resistere, rifiutare, esistere.
o innamorato, esperimenti gesti solenni, inevitabili che propongono nuovi lineamenti: o squassa una danza arcaica le membra inveterate, o scelta d'una femmina; in vite altre da te, a te sottratte individui il ritmo che la tua vita squadra in tempi ragionevoli; non ti appartieni più, sei totalmente morto: e sei salvo.
una frammentaria divinità anche in una scatola di sigarette, in un giro di danza in un denso bicchiere di malvasia; e ci si può suicidare nella gioia di vivere improvvisa d'un lunapark nei battiti dei fucilini ed in ogni gesto del corpo che muova solamente il corpo senza moto dell'anima nel corpo - trascurando con un sorriso imprevisto il calcolo demente dei problemi e con elusivo gesto della mano allontanare la disperazione. Non per questo si riposerà la lunga solitudine, né l'inganno della musica ci porrà una mano su una spalla contro l'uragano dell'assenza; ma si tratta solo di ingannare di mentire con placida umiltà di gustare un corpo perituro educare al nulla una mano elegante, abbandonarsi al dolce amichevole vino - gustare la joie de vivre, dimenticare il corpo perituro la solitudine essenziale, - incenso di incenso devoto offrire un fumo di sigarette alla nostra distratta, frammentaria divinità. |
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