FILI D'AQUILONE rivista d'immagini, idee e Poesia |
Numero 6 aprile/giugno 2007 Scorie & Rifiuti |
LA POESIA DI VIVIANE CIAMPI di Alessio Brandolini |
È stata pubblicata nell'aprile 2006 l'ultima raccolta poetica di Viviane Ciampi, francese di origine toscana, nata a Lione nel 1946, ma che da molti anni vive e lavora a Genova. S'intitola Pareti e famiglie (Liberodiscrivere, Genova) e si divide in tre parti. La prima si compone di quindici tesissime poesie, ed è quella che dà il titolo all'intera raccolta: una specie di poemetto in cui l'autrice ripercorre luoghi e situazioni legate al mondo dell'infanzia, come a cercare le impronte lasciate dai ricordi: la casa di Lione, il Rodano, la madre, la sorella morta tragicamente (v. Ciò che nasce e che brucia, dove le domande siedono, per il troppo dolore, "nel gelo del fiume"). Il tono dei versi è quasi distaccato, dubitativo, o ironico: gli indizi del passato vanno rivisitati con prudenza, come tenuti a bada perché potrebbero ribellarsi e far male, o condurre altrove, distanziarci troppo dal vivere quotidiano o, nel peggiore dei casi, seppellire sotto macerie. La poesia d'apertura (Finti affetti) chiarisce da subito e senza indugi, oltre agli intenti poetici di questa importante sezione del libro, l'estraneità che si può percepire non solo degli altri (familiari o amici) ma anche di se stessi. Per questo il passato va osservato senza modificarne (addolcirne) fatti e circostanze, rivissuto senza indulgenze persino nei confronti dei giorni più duri, quelli che hanno segnato in profondità la nostra esistenza, il nostro carattere, lasciando impronte indelebili tra le piccole (fragili) pareti della mente e del cuore. Immergere lo sguardo con discrezione in quello "strano dormire" che ora ci sembra l'infanzia, fatto di giorni d'attese, di sogni e paure "in bilico sulla finestra", di sorrisi congelati. In questa poesia c'è qualcosa che non viene detto e getta un'ombra sul mondo dell'infanzia: "regalami un fiore / ti mostro il mare" potrebbe essere il sogno (la purezza, la fiducia) che va in frantumi, il pericolo incombente, il mostro (magari amico) che regala il male. Con il successivo senso di colpa e il desiderio di fuga. E così a seguire, tutti i testi della sezione sono "Colpi d'ala / per recidere il bianco", ovvero lo sforzo poetico - fitto di domande - teso a comprendere, a strappare inganni e veli ("Con le dita sollevi la maschera"). Pur sapendo perfettamente che la verità, nonostante gli sforzi di chiarezza, è sempre ambigua, impenetrabile nella sua essenza, e ci si può rivoltare persino contro se si prova ad afferrarla, o sotto lo sguardo si scioglie come neve ("La neve dei segreti / scivola dal tetto"), si fonde (e confonde) al fiume inarrestabile della vita.
che prende il sentiero della mano sinistra attinge l'anima e la interpella con parole riciclate? Perché mai alterarla nelle sue abitudini fino al midollo? La misura classica del dettato (non a caso l'autrice cita Dante e Petrarca) si fonde a un pessimismo che succhia via all'amore la dolcezza (quella "alterata") e impregna di morte la vita (ed ecco l'epigrafe di Céline, che spolpa e trafigge l'innocenza dell'uomo). L'infanzia qui perde il vizio della bontà, della bellezza assoluta e si ricopre di paure e incertezze, di dolore e morte:
a furia di star seduta sulla mia stessa pietra tombale di purificarmi nel lavacro chiedendoti l'ora e il giorno della rinascita. Questo viaggio a ritroso nel tempo (con le sue "mappe impiccate"), privo di nostalgie e turbamenti sentimentali, con il relativo legame materno e l'enigma dell'esistenza è ripreso, in modo più articolato ed esplicito, nella Lettera alla madre, uno dei testi più belli del libro:
quando erompe l'incendio. Di quale anima nera stai parlando? Sono una bambina con il buio appoggiato alle tempie [...] Mappe impiccate all'albero - imparo a memoria - perché le fughe allentano i nervi e scacciano nenie affollate nel cranio. "E ora che facciamo?" suona un verso: domanda d'una bambina e/o d'una donna che si rivede bambina. Ecco, se la prima parte di Pareti e famiglie esplora il passato, i legami familiari, le pareti domestiche con i suoi nodi e i suoi misteri, l'ultima sezione del libro (la più fitta) si apre all'esterno, sconfina. Però tra le due parti c'è un sottile e tenace legame: il dolore, che dall'infanzia di una persona (o, più in generale, dall'infanzia di qualsiasi uomo) si trasferisce a quello del mondo, alla vita quotidiana, alle violenza in città (v. Caccia notturna) a quella portata dalla guerra, come Guernica, di marzo e in Bassora, dove si torna a parlare dell'infanzia e della morte ("C'è questo lungo silenzio guerriero / il coito incessante della morte"), e di bambini, come quelli massacrati a Beslan il 1º settembre del 2004 (Dama in rosso). Barbarie dei nostri tempi dove
in un libro dell'infanzia senza foresta, senza fate, senza eroi, senza storia. (De quel ciel). Nella Lettera dal fronte (e come non pensare a "Le déserteur" di Boris Vian), l'ironia tesse versi duri e violenti sull'uomo che si scontra con un proprio simile ("indovino il mio seme in te disarmato"), sull'umanissima umanità che si autodistrugge. A stemperare il pessimismo di questi versi e, più in generale, quello che pervade l'intera raccolta, ci pensano gli zulù con il loro canto guerriero: Se avanzi muori / se indietreggi muori / allora perché indietreggiare?, messo in epigrafe alla poesia Il senso del fare che chiude la raccolta. Nella terza sezione si parla anche del lavoro del traduttore ("Ti chiedo: quale parola / quale fonema / fa del sogno il tuo sogno?") e ci sono anche poesie insolite, con un timbro nuovo, dove l'ironia s'attenua e avanza una voce più suadente e lirica (Infrapensiero, Incontro, Verifiche, Accettazione), ma intrecciate di versi strani e stranianti, che percuotono il lettore: "Sei tu il perno / di questa mandibola"; "C'è l'osso dell'avvenire / nella fodera della giacca"; "la civetta si ciba beccandomi le mani" ecc. Poesie diverse, "altre", quindi, e infatti così s'intitola questo terzo percorso all'interno di Pareti e famiglie, il più incisivo e carico di nuove aperture poetiche. Tra le due sezioni (la prima e la terza) c'è quella più breve "D'amore, perché no?", con sette testi dove si parla dell'amore ("formiamo in due un arco di roccia"), ma anche della propria scrittura ("ho lingua da pungitopo"), delle bozze da correggere, della vita di tutti i giorni, dove si aspira a non avere sorprese: "e sarà questa la vera sorpresa". Un lento procedere verso una leggerezza basata sull'onestà e la conoscenza, tirata su pian piano, a fatica, scrostando le pareti del passato, e della mente. Allora a Céline, ai "poeti maledetti" francesi di fine ottocento, s'affianca la levigatezza esistenziale (spesso pessimistica ma sempre vitale, gioiosa) di tanta e raffinata canzone d'autore (Brassens, Ferré, Béart, Trenet, Lauzi, De André, Paoli...), non a caso legata ai poli dell'esistenza di Viviane Ciampi: la Francia e Genova.
Il tratto originale della poesia di Viviane Ciampi sta nella tensione etica, nella consapevolezza della propria scrittura (di poeta e traduttrice), nell'aspra ricerca esistenziale, nell'indignazione civile scevra di retorica (Fortini), sul lavoro paziente e accurato sulla lingua ("Corri sui binari / mia lingua plurale") e su quel suo verso (e il sentire poetico ad esso fortemente ancorato) rapido e spinoso, che sembra voler innestare il francese all'italiano. |
POESIE DI VIVIANE CIAMPI
Da Pareti e famiglie (2006)
innocent des malheurs qui arrivaient. Céline non ci giurerei ma era l'alba e non so chi parlasse nella stanza per il chiasso del Rodano il vaso dei fiori qualcuno lo aveva spostato di questo sono certa il profumo si allontanava aveva riempito meravigliosamente il mio angolo in precedenza. Ora le ombre si muovevano piano E io in bilico sulla finestra.
È illudersi. E si battono come gladiatori.
Nell'unica foto che possiedo di te Nelle foto c'è come un inganno
Eccola finalmente
Eccoti sospesa piccolo movimento Corso d'eloquenza Una distanza ti separa È come entrare
Da un giardino di novembre
Che vieni a fare sull'orlo del mio letto?
L'adolescenza, una volta freddata
La finestra si spalanca
Una porta per allontanarmi da me
Sei inediti in versione bilingue
fuggono verso altre migrazioni. Gli antichi ponti si screpolano prima di chiamarsi rovine. Qualcuno vi ci cammina o vi ci camminava il che non cambia. Acerbe vite strapazzate, ma non abbastanza perché le si avvicini. Meringhe che franano sotto i nostri occhi. Nessun dubbio tuttavia: regna oggi una pace agghiacciante.
alla fiera delle parole, concerto di respiri drammatici. Basterebbe ascoltare; piacere non si dice più è finita l'era del piacevole. Il grigio frusta l'aria la sera dei defunti. Ciò che viene taciuto pesa come un ristagno, come un'entità di dubbio che attraversa gli occhi.
esce dal quadro con quell'innocenza. Pellegrinaggio dell'occhio che guarda, è guardato.
dimentica di mentire dimentica ciò che ha dimenticato. La sua memoria svapora l'essenziale lo attinge lì allo stesso racconto. Ancorato. Opera nella piccola distanza. Semina il buio nella neve.
dal rappresentare il divino si rappresenta egli stesso nell'atto di rappresentarsi.
il bambino articola la lingua, inciampa sulle sillabe. Non esiste l'esattamente ma oh metallo dei suoni ciò che ne consegue è magnifico.
|
INTERVISTA A VIVIANE CIAMPI
Viviane, partiamo dalle domande più difficili: la tua poesia, dal punto di vista linguistico, a volte sembra un innesto tra italiano e francese. Spesso traduci i tuoi testi da una lingua all'altra, come per gli inediti che proponi su questo numero di "Fili d'aquilone". Che rapporto c'è, in te, tra le due lingue? E poi, tanto per restare nel complicato, aggiungo: è solo un rapporto di lingue o anche di culture che si fondono, o - al contrario - si sfidano? Mi piace che tu abbia utilizzato il termine di "innesto" perché mi fai pensare che in agricoltura si usano gli innesti sulle piante al fine di migliorarle ma nello stesso tempo mi dai luogo di riflettere che per compiere quest'operazione si debba usare un coltello. Dunque, c'è nell'innesto una sorta di piccola violenza. Ora, prima di addentrarmi nel fatto di "tradurre" i miei stessi testi, debbo per forza di cose parlarti del mio stato di "bilingue". Tu sai che esiste il bilinguismo vero e il bilinguismo acquisito che è tutt'altra cosa. Nel mio caso, sono nata in Francia, ma ho avuto la fortuna di vivere in una famiglia "mista". Ora, non ricordo se la prima parola fu da me pronunciata in italiano o in francese. Ricordo solo che uscendo di casa e andando prima all'asilo, poi a scuola, a Lione, avveniva la metamorfosi del cambiare pelle in modo automatico. Non mi dicevo: "Ora sto parlando francese". Passavo, nell'arco della giornata, un'infinità di volte da una lingua all'altra, come un camaleonte, senza farmi domande e senza traumi.
Hai pubblicato tre raccolte di poesia: Domande Minime Risposte (2001), La quercia e la memoria (2004), e Pareti e famiglie (2006). Fin dai titoli: la memoria (e quindi l'infanzia), la famiglia, l'assillo delle domande. Come si articola la tua poesia in questi tre lavori? Domande Minime Risposte ruota soprattutto attorno alla riscoperta della nuda parola dopo anni di occultamento della stessa. È una raccolta alla quale sono affezionata perché con quella ho rotto il silenzio. Non a caso, la prima poesia è intitolata "Armadio a muro". È incredibile quello che si trova negli armadi a muro. Talvolta aprendoli saltano fuori tracce di presenze, vecchi quaderni, ma anche spazi d'incanto, senza dimenticare gli specchi che ci rimandano la nostra immagine, la quale non è mai esattamente quella che speravamo. Allora davanti allo specchio ci si può interrogare su chi siamo. In realtà anche da ragazza scrivevo perché avevo sempre letto. E leggendo entravo in dialogo con le poesie che leggevo. Ma a pubblicare non ci avevo mai pensato. Direi che è stato il caso: dieci anni fa mi trovai come semplice spettatrice al Festival Internazionale di Poesia di Genova. Sul palcoscenico c'era il poeta Fernando Arrabal (l'inventore, insieme a Jodorowsky del Teatro Panico) impegnato a raccontare in francese, davanti a un Palazzo Ducale gremito, i fatti salienti della sua vita, i rapporti con Salvador Dalì, con sua moglie Gala, con i surrealisti ecc. Ad un certo punto accadde un fatto curioso: chi lo stava presentando e traducendo svenne di colpo in scena, forse per il caldo. Ebbene, uno degli organizzatori chiese al microfono se qualcuno in sala parlasse francese. Non so come, mi ritrovai sul palcoscenico e il pubblico pensò che fosse una performance di Teatro Panico inventata da quel diavolo-genio di Arrabal. Nessuno smentì. Andò bene e da allora non smisi più di frequentare grandi poeti di ogni paese.
Nell'introduzione alla tua poesia parlo d'una cultura classica (e tu citi Petrarca e Dante) che si amalgama alla poesia moderna. Anche in contrasto. Per esempio citi Bonnefoy e Céline. Come dire l'armonia con il deragliamento linguistico. Ma nei tuoi versi si sente anche la voce (la vitalità e la gioia) degli chansonniers francesi e magari genovesi. Qual è, allora, il retroterra della tua poesia, del tuo sentire poetico? Comincia - effettivamente - con quello che gli italiani, chiamano comunemente gli "chansonniers". In realtà, in Francia, gli chansonniers sono soltanto coloro che un tempo facevano la canzone politico-satirica. Se parliamo invece di Brel, Brassens, Béart, Ferré, Gainsbourg sono chiamati "auteurs-compositeurs-interprètes" (l'equivalente dei cantautori). Allora sì, sono stati il mio pane. Quando andavo in vacanza in italia (a Tirrenia e a Cascina in provincia di Pisa) portavo i dischi dei francesi alle amiche italiane, le quali ovviamente volevano conoscere le parole e il significato. Poi facevo il lavoro di "traghettare" al contrario: quando alla fine d'agosto tornavo in Francia, portavo i dischi di Bindi, Paoli, Gaber alle amiche di Francia. Senza contare che mio padre, da giovane cantava, scriveva canzoni e faceva lunghe tournées con il grande Charles Trenet, il padre di tutti i cantautori, che i francesi volevano consacrare come poeta alla "Académie Française". Trenet veniva in casa nostra (io ero piccolissima) mangiava i ravioli di mia nonna e beveva Chianti. Poi ho amato ancor più l'Italia attraverso la poesia di Dante che ho scoperto verso i quindici anni quando mia mamma (francesissima) ha voluto che l'accompagnassi alla Dante Alighieri di Lione perché desiderava approfondire la Divina Commedia. Io ne ero molto fiera perché Dante era toscano come i nonni e pensavo ci fosse un merito particolare a essere l'erede del sommo poeta! Allora, come adesso frequentavo la letteratura in un gioioso disordine. Provo un fascino particolare per la scrittura di Céline che non amo come persona perché diventò antisemita e mi chiedo come abbia fatto un genio come lui a scrivere il suo "Voyage au bout de la nuit" che tocca la miseria umana in ciò che ha di più disarmante. E non cerca di abbellirla. Ma noi dobbiamo amare artisti e poeti per la loro opera, non per quello che sono. Torniamo agli inediti qui proposti. Le certezze vanno fuori strada / fuggono verso altre migrazioni. Sono i due versi iniziali della silloge. Impossibile non pensare ai testi finali di Pareti e famiglie dove si parla del viaggio quasi in modo ossessivo, come una necessità inderogabile e poi, allo stesso tempo, anche del pericolo, del rischio che esso comporta: A tratti il viaggio c'innamora / e dobbiamo ammetterlo / c'è del buono a prepararlo / a contemplare mappamondi / mentre avanzano, lente, / le culle del mare ("Modus Vivendi"). E "In transito": Il viaggio è pericoloso / e la parentesi che abito / ha seni alquanto turgidi. Ecco, oltre al viaggio reale, e il mare di cui parli abbraccia la tua Genova, leggendo i tuoi versi viene in mente anche un viaggio metafisico e, in modo più specifico, un viaggio surreale con il quale tenti di cucire assieme i vari momenti della tua esistenza. E al bene dell'esistenza, il male. Sì, è vero sono abitata dal viaggio e ancora, in modo bizzarro, legata ad un'idea di confine, di frontiera, anche se ormai le hanno abbattute. Ho passato queste frontiere in macchina coi nonni e bisnonni (eravamo una famiglia in cui coesistevano cinque generazioni), sempre col cuore stretto perché negli anni cinquanta non si potevano portare che pochi spiccioli e qualche sigaretta. Allora i nonni me li nascondevano addosso perché i doganieri non perquisivano i bambini. Tremavo dalla paura e mi sentivo una grande peccatrice. Dietro, sul sedile, la mia bisnonna recitava il rosario a voce alta affinché ai controlli doganali (numerosi allora), tutto andasse bene. Passata la frontiera vomitavo lungo tutto il Moncenisio per la paura, le curve e l'odore delle "Gauloises bleues" di mio bisnonno, odore che si mischiava all'odore di macchina e benzina. Però la paura era un viatico che mi permetteva di accedere all'altra cultura, di rivedere le amiche lasciate l'anno prima, di ritrovare l'odore di pagliaio e cipressi della Toscana. Genova è un amore scoperto in seguito, insieme all'amore per un genovese. Abito a due passi dal borgo di Boccadasse dove ha vissuto Gino Paoli in gioventù con la sua gatta, passo per le strade che furono di Tenco e Montale, di Lauzi e Caproni e spesso vado sulla tomba di Firpo a Sant'Ilario che è non lontana da quella di Maciste! Genova è la mia Parigi col mare.
Oltre a scrivere poesia ne traduci parecchia. Che rapporti hai tra le due cose: il fare poesia e il tradurla? Leggere, scrivere poesia e tradurla sono nella mia esperienza un tutt'uno. Ora sto traducendo insieme a Isabella Checcaglini un monologo teatrale del grande Bernard Noël, un raffinato lavoro attorno a Mallarmé. Tradurre è il viaggio nel sogno di un altro. Ogni tanto mi riposo con la mia scrittura (il mio viaggio) e mi riposo della mia scrittura con la lettura. Va anche detto che ogni poeta, inconsapevolmente è traduttore. Perché anche se non conosce una lingua straniera deve comunque "mettere in parola" la lingua personalissima del suo sentire. Quella è la più difficile delle traduzioni. Ma se sbaglia, almeno, sbaglia in proprio. Quando traduco indosso il saio francescano dell'umiltà. Perché ho la consapevolezza che quel tale poeta sarà conosciuto, forse, soltanto attraverso le mie parole. Bisogna essere pazzi per fare il traduttore. O incoscienti! Però traducendo e poetando ho scoperto qual è la mia vera lingua materna: non è né l'italiano né il francese. Si tratta di una lingua intermedia che si chiama poesia. "Dimentica ciò che hai dimenticato", è un verso dei tuoi inediti che sembra suggerire che, in fondo, non si dimentica mai nulla. Che tutto resta "ancorato" e che il buio seguita a seminare nella neve, così scrivi in questo testo. Un testo che ci riporta al nucleo fondante di Pareti e famiglie. Come se le pareti fossero di piombo, indistruttibili? Il passato, con il dolore che può contenere, ci marchia per sempre? "Dimentica ciò che hai dimenticato" mi ricorda una canzone che cantava Giuliette Gréco: "On n'oublie rien de rien / on n'oublie rien du tout / on s'habitue c'est tout" (Non si dimentica niente di niente / non si dimentica proprio niente / ci si abitua e basta). In Pareti e famiglie evoco pareti da abbattere che sono quelle del silenzio. Non il silenzio positivo di cui tutti abbiamo bisogno e che ci permette di fare il pieno di energia fisica e mentale. Parlo del silenzio del non detto. Mi chiedi se il passato, il dolore ci marchiano. Mi pare che ci possano marchiare se vogliamo far finta che non esistano. Certo, abbiamo il dovere per noi e per chi ci sta intorno di trasformare il dolore (ma senza rinnegarlo), in modo che non diventi il prosieguo di un dramma perpetuo. Ci è d'esempio Goethe che quando morì suicida il figlio, ebbe un tale dolore che non riuscì ad andare neppure sulla tomba. Ma quando trovò il coraggio di parlarne, in una poesia scrisse "Dobbiamo scavalcare le tombe". Si può tradurre anche come "oltrepassare". Lui intendeva "guardare al di là", "superare" anche il più atroce dei dolori. Il senso, naturalmente, è diverso da quello di Boris Vian e del suo provocatorio "J'irai cracher sur vos tombes" (Sputerò sulle vostre tombe), che tanto scandalizzò la Francia di quegli anni. Ma prima di superarlo, il dolore, bisogna sfidarlo. A volte, fa di nuovo capolino, il bastardo! Magari vuoi scrivere una cosa allegra e ti arriva l'ars moriendi a tradimento. Detto ciò, diffido della poesia dell'urgenza. Metto una lunga distanza di anni tra me e i fatti che accadono. Anche troppi! Ma la vita dei nostri abissi è così indisciplinata. Una domanda pirata: come vedi il tuo lavoro poetico nell'ambito della poesia italiana? a chi autrice/autore ti senti maggiormente vicina? E con la poesia straniera? A domanda pirata, risposta disperata. Ho preso - dovresti vedermi - la mia testa tra le mani per trovare le parole e mi è venuto il mal di capo. Dunque... è giusto che chi scrive si definisca o tenti di collocarsi? È già difficile collocarsi nell'universo. Forse mi basta essere una "visitatrice" di qualcuno, da qualche parte, di un solo verso, onesto (per dirla come Saba), ancora da scrivere. Pound diceva che bastano dodici o tredici pagine buone. A me basterebbe un verso. Ma come rispondono gli altri tuoi pazienti?
|
VIVIANE CIAMPI
Francese di origine toscana, è nata a Lione nel 1946 ma a poco più di vent'anni si è trasferita a Genova, dove tutt'ora vive e lavora, traduce e si traduce. Ha ricevuto premi in vari concorsi di poesia, prosa e favole in Italia e, a Dublino, il Premio degli Editori conferitole dall'Istituto Italiano di Cultura. Suoi testi sono stati pubblicati su riviste italiane e straniere e una sua pièce teatrale è stata rappresentata nel 1998 a Genova. È redattrice nelle riviste "Icaro" e "Infonopoli" e collabora con Alliance Française di Genova e vari siti culturali. Dal 1998 cura le traduzioni e le "simultanee" di poeti francesi e francofoni al Festival Internazionale di Poesia di Genova.
|