"Il ventitrè marzo, dunque, nella caserma dei Reali, a Marino. Levatosi a notte, disceso a bruzzico, un milite attendeva nel cortile. Il Pestalozzi apparve, scura persona, dal buio". Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1957), capitolo ottavo: la "pigrizia" della mattina romanesca fa il verso a celeberrime descrizioni manzoniane2:"Il sole non aveva ancora la minima intenzione di apparire all'orizzonte che già il brigadiere Pestalozzi usciva (in motocicletta) dalla caserma degli erre erre cic ci di Marino per catapultarsi alla bottega-laboratorio dove non era minimamente aspettato, almeno in quanto brigadiere fungente".
Comincia, poco oltre, la discesa del brigadiere incaricato dal protagonista del romanzo commissario Ingravallo di indagare nei pressi della lenona Zamira, per cercare di svelare i misteri di via Merulana: "La cavalla coi due cavalcatori in groppa rotolò giù rattenuta, bofonchiando, piegò a dritta, poi a manca verso la porta del borgo, tra muraglie di peperino nere e ombre, sotto a finestrette quadrate, cui munivano rugginosi ferri ad incarcerare la tenebra... Passato l'archivolto, la strada prese a dilungarsi verso l'Appia: andò tra uliveti appena argentati dall'alba e proni scheltri di viti nelle vigne... Al primo tornante rigirò pure la veduta. Il Pestalozzi levò il capo un attimo, spense il motore, frenò, fermò la corsa, con una certa cautela; sostò due minuti, da strologare il mattino".
È l'alba. Non è la prima sosta di questo tipo che troviamo nei romanzi di Carlo Emilio Gadda. La più espressiva è quella del secondo capitolo che sorprende Ingravallo in una splendida mattinata romana, prima della sciagura del delitto di Liliana.
"Era l'alba, e più". È sufficiente una aggiunta brevissima, eppure magistrale, per dare alla scena il carattere di parodia: "e più".
"Magia repentina il Soratte, come una rocca di piombo, di cenere. Di là dai gioghi di Sabina, per bocchette e portelli che interrompessereo la lineatura del crinale, il rivivere del cielo si palesava lontanamente in sottili strisce di porpora e più remoti e affocati punti e splendori, di solfo giallo, di vermiglione: strane lacche: nobili riverberi, come da un crogiulo profondo".
Prima di riprendere la motocicletta per la discesa verso l'Anziate, Gadda infila la sua stoccata di sarcasmo: "Di là, da dietro a Tivoli e a Càrsoli, flottiglie di nubi orizzontali tutte arricciolate di cirri, con falsi fiocchi di zafferano, s'avventavano l'una dopo l'altra a battaglia, filavano gioiosamente a sfrangersi: indove? dove? chissa! ma di certo indò l'ammiraglio loro le comandava a farsi fottere, come noi il nostro, con tutti i velaccini in tiro nel vento".
L'attimo di meraviglia, che pur si dovrebbe riconoscere nella natura in un momento di splendore, - "se sente aricciciasse ar core un nun socché, un quarche cosa che rissomija a la felicità" - è fortemente irriso attraverso la parodia del modello originale e con la metafora delle nuvole senza guida, a rimarcare l'eterna vittoria del caos. L'accenno sarcastico alle nuvole che vanno "a farsi fottere" denuncia la mancanza di quell'ordine così mirabilmente descritto negli scorci del frammento Terra lombarda, dove il modello manzoniano non era deriso, ma ammirato. Ordine che contempla l'unione misteriosa di intenti tra l'uomo e la natura sintetizzato dall'espressione "il popolo dei pioppi", di cui si è persa totalmente l'origine. Il risultato è che "anche noi", gli uomini, analogamente alle nuvole senza padrone, andiamo a "farci fottere".
Intanto Pestalozzi ha ripreso la strada è ha guardato da lontano, dall'alto dei Colli la città addormentata e ora "filava in discesa verso li Du Santi". L'eterno caos di concause psicologiche, fisiche, termodinamiche, perfino oniriche che si sovrappongono in questo capitolo ne fanno uno dei più celebrati del romanzo.
In questo contesto metaforico, microcosmo scoppiettante del groviglio del mondo, tenuto stretto tra gli opposti della meraviglia e della percezione di una dolorosa labilità incongrua, si deve pur andare in "missione". Il brigadiere assolve serio alla sua finché non precipita di nuovo, per alcuni attimi, dentro l'erotico sogno della notte, nella celebre digressione del topo/topazio. L'allucinazione onirica lo ricaccia nella notte, lo trascina in uno stato di ebbrezza estatica, segno di un'altra orbita, altrettanto reale del paesaggio ammirato poco prima. Ma "il tempo in cui diremmo si stendono i sogni ha viceversa la rapidità diaframmante d'uno scatto di Leika, si misura per fulgurativi tempuscoli, per infinitesimi del quarto ordine sul tempo orbitale della terra, detto comunemente solare, tempo di Cesare e di Gregorio". E allora, fatti pochi passi, di nuovo dentro l'antelucano dovere, quando "il bububbù si spense alli Due Santi, in una breve strusciata delle ruote", l'altra digressione, di argomento sacro, complementare alla prima, nella dirompente evidenza delle ragioni del corpo a fronte di quelle "spirituali" o religiose, per addivenire ad un ideale capovolto, terreno per sua natura, trattandosi di piedi, anzi di diti/ditoni:
Una luce livida e pressoché surreale, o escatologica forse, propone l'Idea-Pollice, altamente incarnandola vale a dire ossificandola, a' primi piani del contingente: e la recupera subito a' metafisici livori dell'eternità.
Sostano, infatti, i due militi, si ricorderà, davanti ad un tabernacolo, dove i rappresentanti della fede cristiana, soldati anche loro, accenna Gadda, rivivono in vetusti affreschi, impolverati, inzaccherati. Due Santi, missionari, con "quattro piedi insospettati", visibile retaggio della gloria della "pittura nostra" di molto "tributaria agli alluci", ritratti da pittori celebri "con particolare vigore enunciativo, in un mirabile adeguamento al magistero dei secoli".
L'antisublime satirico travolge gli eroi del Cristianesimo, (identicamente all'inizio del capitolo con l'ammicco alla missione santa del Cristoforo manzoniano) ma ne racconta per storto e sghembo, la miracolosa essenza, sospesa tra effimero ed eterno: gli alluci sono "lo strumento fisico del loro itinerante apostolato", dritto verso "uno scopo" non dettato dal dovere, ma dalla libera adesione ad un disegno di salvezza da portare oltre i confini del mondo.
Intanto il brigadiere intento a riparar la moto, inceppata nel compimento del dovere, alza un poco la testa e compone velocemente un segno di croce davanti al tabernacolo. Il suo subalterno, prova, con fatica, a leggere le iscrizioni in latino e si ritiene soddisfatto: merita la licenza elementare. Chissà a chi rivolgono i loro gesti frettolosi, e un poco meccanici, forse inconsapevolmente all'Idea-Pollice, geniale figura sarcastica di una idea del divino antisublime che "un poco intronato nella capa, si affacciava da un pulvinare sul trambusto dell'Appia", ovvero nel groviglio del mondo dove ogni missione, al fondo, sembra andare "a farsi fottere".
Arrivato dalla Zamira, non prima di un'altra irriverente sosta iperbolica sulla gallina, il solerte brigadiere spinge alla confessione la Lavinia Mattonari, che inguaia l'altra Mattonari, Camilla, una cugina alla lontana. E allora si riparte, verso Casal Bruciato, per la strada de Castel de Leva, tra le terre bruciate dal sole tra il mare e i Castelli. Ma siamo ormai nel capitolo nono, in viaggio verso il ponte del Divino Amore, verso la conclusione del romanzo, che avverrà nel decimo capitolo.
Se il filo narrativo della Cognizione del dolore era elementare, quello del Pasticciaccio è tortuoso: il lettore disattento può perdersi tra le digressioni o confondere figure che volutamente Gadda dipinge identiche, come quelle dei ladruncoli con nomi virgiliani o delle ragazze della Zamira e delle domestiche di Liliana. La trama è canovaccio esile che permette a Gadda di innescare la sua innata teatralità, l'"impulso a descrivere". La grande arte del libro consiste allora nei ritratti psicologici degli interrogati, negli scorci cittadini e dei Colli albani, nella continua e angosciosa riflessione di Ingravallo, e proprio nelle divagazioni, veri e propri racconti a se stanti, tra cui le più celebrate hanno per protagonista, come si è visto, il brigadiere Pestalozzi, il suo sogno sul topo/ topazio, la sua sosta, in località Due Santi, il suo incontro con la gallina della Zamira.
Il guazzabuglio macaronico di esilarante comicità, la folgorante invettiva (si ricordino gli innumerevoli appellativi del duce), la desolata filosofia che si ferma davanti alla oscurità della morte, che nessuna concausa può spiegare fino in fondo, non si possono chiudere con un finale classico e risolutore. Tuttavia, come Gadda ha sottolineato più volte, il Pasticciaccio è un romanzo compiuto. Il finale corrisponde al "consapevole desiderio di chiudere in apocope drammatica il racconto che tendeva a deformarsi3". Dunque il tortuoso percorso del libro si raggruma e prende significato dalla scena finale dove, ancora una volta si affrontano, disegnate sul viso di Ingravallo, le ragioni del Male e la commossa pietà per la "debilitata ragione umana", che sembra innocente dello stesso delitto che porta con sé:""No, sor dottò, no, no, nun so' stata io!" implorò allora la ragazza, simulando, forse, e in parte godendo, una paura di dovere: quella che nu poco sbianca il visetto, e tuttavia resiste a minacce. Una vitalità splendida, in lei, a lato il moribondo autore de' suoi giorni, che avrebbero a essere splendidi: una fede imperterrita negli enunciati di sue carni, ch'ella pareva scagliare audacemente all'offesa, in un subito corruccio, in un cipiglio:"No, nun so' stata io!" Il grido incredibile bloccò il furore dell'ossesso. Egli non intese, là pe llà, ciò che la sua anima era in procinto d'intendere. Quella piega nera verticale tra i due sopraccigli dell'ira, nel volto bianchissimo della ragazza, lo paralizzò, lo indusse a riflettere: a ripentirsi, quasi".
L'"apocope drammatica" è realizzata dai contrasti in questa pagina di chiusura: la vitalità istintuale di bellezza terribile e la morte (la ragazza e il padre morente); la simulazione e le ragioni della povertà; il dolore ossessionante di Ingravallo e il volto bianchissimo della ragazza: insomma l'ira e la pietà.
Come ne La cognizione del dolore che è uno dei più alti testi del Novecento4 "anche per questa sostanziale pietà per l'uomo sofferente, che può rappresentare una sorta di vivo cuore nel groviglio del caos, nel labirinto dell'esistenza. Anche Ingravallo alla fine del Pasticciaccio, quando sta forse per sciogliere il nodo dell'indagine, sosta silenzioso e pietoso davanti al dolore, e il dedaleo movimento del libro si ferma lì".
Una forma di pietà che si rivela in momenti estremi, di fronte alla morte. In questo senso si possono considerare analogici i delitti efferati commessi nei due romanzi maggiori di Gadda. A quello della Madre fa eco quello di Liliana Balducci, nel Pasticciaccio. Sono colpiti quei volti che diversamente rappresentano "il sistema alto e dolce della vita", turbato dall'"orrore dei sistemi subordinati". Atrocemente colpiti da un male non imputabile alla "debilitata ragione umana", ma insondabile. È chiaro, dunque, che l'enigma non può risolversi trovando un colpevole.
1 Località poco fuori Roma, compresa tra via Appia Nuova e la via dei laghi, all'altezza del bivio per il lago di Castel Gandolfo, dopo Frattocchie, l'attuale via Spinabella. Non mi è riuscito, come del resto ad altri studiosi di Gadda, di trovare traccia del tabernacolo. Sono tuttavia convinto che Gadda partisse da uno spunto reale. L'ipotesi più probabile, dalle testimonianze e dai testi trovati sui Due Santi, che i due affreschi di Pietro e Paolo si trovassero, non su tabernacolo ma affrescassero la parte superiore di una delle colonne poste nel parco della villa proprio ad angolo con l'Appia Nuova, di proprietà Torlonia.
2 Si confronti la lunga descrizione posta in apertura del IV capitolo dei Promessi sposi, di cui qui si rammenta solo l''inizio: "Il sole non era ancora del tutto apparso sull'orizzonte, quando il Padre Cristoforo uscì dal suo convento di Pescarenico".
3 Gadda risponde a Moravia in "Corriere della sera", 17 dicembre 1967.
4 Il cavaliere e l'esistente, dialogo con Emerico Giachery, in Fabio Pierangeli, Quei loro incontri, tempo avvenimenti in Pasolini; Pavese, Leopardi, Peguy, Verga, Roma, Nuova Cultura, 1994.