Ecco, devo aver perso da qualche parte il piccolo quaderno giallo con i miei appunti o forse l'ho lasciato a casa, magari appoggiato sul comodino della camera da letto. Gli occhi mi bruciano da morire e da queste parti non c'è una fontana per raffreddarli con dell'acqua. Questo perché ho in mente Teresa e allora mi viene addosso una specie di febbre. Penso sempre alla mia donna, alle sue cosce, alle dolci e morbide mammelle gonfie di latte, alle sue mani, alla sua bocca grande e dolce che quando mi sorride e poi bacia la mia è come se volesse divorarla.
Oggi in piedi alle sei meno venti, dopo una pessima nottata per via dei continui risvegli di Andrea. Gli strilli del pupo arrivano all'ultimo piano e nel palazzo dove vivo tutti si lamentano. E lei la trovo già in cucina, avvolta nella sua vecchia vestaglia rossa. La mia compagna dagli occhi belli e stanchi per via del sonno arretrato, della stanchezza, mi fa il caffè, sussurra il suo indispensabile buongiorno, tira fuori il latte dal frigo, spalma sulla fetta di pane un filo di burro e uno strato di marmellata alla ciliegia. Come fa tutti i giorni, come se non avesse tre figli e l'ultimo, Andrea l'urlatore, non fosse venuto al mondo da poco più d'un mese.
Sì, ho un figlio a metà con Teresa, è il primo di tasca mia. Vorrei sposarla, la fanciulla quarantenne, ma da parte non ho un soldo, nemmeno un conto corrente bancario o postale, né un lavoro sicuro e tranquillo. Mi ritrovo soltanto due anni di contributi versati che quando sarò vecchio me la vedrò brutta. Però adesso preferisco non pensarci. Con lei ci convivo e questo mi basta, anzi non mi sembra vero che prima era mille volte peggio d'adesso e la sera bevevo parecchio fino a ubriacarmi. Vino, grappa e soprattutto vodka che me l'aveva fatta conoscere Stefano, un polacco di Cracovia incontrato a un semaforo di via Torre Spaccata.
A volte me la racconto questa storia, me la ripeto in ogni dettaglio per non dimenticarla, quando sto lì incollato al palo giallo, in piedi, in attesa che scatti il rosso. O anche quando prego, perché sì, io a Dio ci credo e non mi vergogno di dirlo se qualcuno me lo domanda. Da quando c'è lei, il mio amore, tutto sembra più bello e delicato, e i piedi giuro che fanno meno male, la fatica la sento appena e non vedo l'ora di tornarmene a casa, di riabbracciare lei, i suoi, i nostri figli. Non sarà un gran che, come dice qualche collega di lavoro, di strada e io ho dieci anni meno di lei, sì, ma Teresa cucina che sembra una cuoca di quelle vere, specializzata e poi ha due figli già grandi, Lorenzo e Franco. Uno di quattordici anni e l'altro di quindici. Avuti con un altro, ora in gabbia, al carcere di Rebibbia dopo una rapina finita male e che uscirà almeno tra quindici anni, se non ci saranno altri indulti. E poi lei con lui ha rotto da un pezzo e nemmeno i figli lo vedono o lo sentono spesso, giusto a Natale.
Io a quei due ragazzi ci sono legato visto che tifano la stessa mia squadra e non fumano per niente, studiano, e mi rispettano perché lavoro come un matto, un bue e porto i soldi a casa e da un po' di tempo non mi ubriaco più, e non alzo mai le mani contro di loro né, ci mancherebbe, contro la mamma, cioè la mia donna, il mio grande amore.
Teresa l'amo parecchio, è vero. Però io non so se amare vuol dire proprio quello che sento. Prima non ho mai amato, non ho mai conosciuto qualcuno che abbia amato e non sono mai stato amato. Amare è una parola difficile che si usa poco da queste parti, forse nel mondo intero, non so. Io amo Teresa, amo tutto ciò che è suo e, quindi, anche i due suoi figli, Lorenzo e Franco, anche se non sono i miei, perché ora è come se lo fossero.
Dall'aspetto non si direbbe che sono uno che si lega alle persone, con la faccia da scemo che mi ritrovo. Questo perché la vita che faccio non mi permette d'essere troppo gentile anche se a volte lo vorrei, mi piacerebbe. La sera torno distrutto, faccio fatica a sfilarmi le scarpe, a mettere il cucchiaio o la forchetta in bocca. Per riuscirci devo sorreggere il braccio destro con il sinistro. No, non riesco a essere gentile con tutti perché nella testa mi frulla sempre qualcosa di strano, un vortice che trita i pensieri, e poi ho troppi rumori nelle orecchie e tutto quello smog aggrappato alla trachea, ben stivato nelle narici, amaro più d'un veleno e la notte non dormo bene perché mi alzo spesso per via d'una infezione alle vie urinarie che non se ne va e io non ho tempo per andare dal medico.
Anche il mio lavoro è insicuro, sì, un lavoro appeso a un filo, al fumo. Già, e abbastanza rischioso perché se vogliono potrebbero arrestarmi e poi mi farei qualche mesetto di galera: non mi dispiacerebbe molto, potrei riposarmi e leggere tranquillamente tutto il giorno. Sono sette anni che sopravvivo vendendo sigarette di contrabbando che il lunedì, verso mezzogiorno, ritiro a Canosa di Puglia e poi distribuisco qui a Roma durante la settimana, tra la Tiburtina, Tor de' Schiavi e Centocelle. Un piccolo lavoro disonesto, è vero, ma questo o niente, e io afferro quello che passa il convento. E pensare che detesto il fumo e a casa mia non ci sono posaceneri, né accendini che in cucina la macchina del gas ha l'accensione incorporata: basta pigiare un tasto e scoccano scintille.
Ogni giorno tiro su dai cinquanta ai settanta euro. Non mi lamento, ma senza assicurazione né contributi che se sto male non so a che santo rivolgermi: prego e basta. Sono andato al lavoro con la febbre, con il mal di denti e una volta con il braccio sinistro ingessato. Mi riposo la domenica, si fa per dire, perché in casa ci sono sempre un milione di lavoretti da fare. Però il pomeriggio m'incollo alla radio e seguo le partite e poi vado con Franco e Lorenzo al parco di Villa Gordiani, quello che via Prenestina taglia a metà, e giochiamo a pallone e lì ci aspettano gli altri che noi, in tre, facciamo già mezza squadra. Una volta i due ragazzi li ho portati persino al museo di via Nazionale a vedere gli squali dentro un'enorme vasca di vetro, ma solo perché non pensavo che il biglietto fosse così caro, però sono stato contento lo stesso e loro, Lorenzo e Franco, erano molto felici che non gli sembrava vero perché nessuno li aveva mai portati da qualche parte, nemmeno al centro a fare due passi e allora siamo scesi verso piazza Venezia e sono rimasti sbalorditi quando si sono trovati di fronte l'altare della Patria con la statua del re a cavallo: così alta, così grande. Poi mi sono divertito a osservare le loro bocche spalancate quando li ho portati a Fontana di Trevi, davanti a tutta quell'acqua scrosciante. I due si guardavano attorno: tutta quella gente strana, così diversa da noi, che scatta foto e sorride e parla in lingue strane e lancia monete nella grande vasca che loro avrebbero voluto riacciuffare ma io gli ho detto che era meglio lasciar perdere, e poi i negozi tutt'intorno e le carrozzelle con i cavalli e le ragazze seminude dai denti scintillanti.
Mi hanno detto grazie i due figli acquisiti, un paio di volte e la sera, alla madre, non facevano che raccontare di questo e di quello e a Teresa, che stava dando la poppata ad Andrea, le brillavano gli occhi, a stento tratteneva le lacrime e questo per me vuol dire molto, forse è la felicità allo stato puro perché ogni volta avverto come delle piccole scosse alla testa, sotto la radice dei capelli e poi ben dentro il cervello, e un caldo strano che veloce mi corre dal collo fino in fondo alla schiena. Tanto che poi quella notte non riuscivo a prendere sonno e mi preoccupavo perché la mattina dovevo alzarmi alle cinque e partire per la Puglia per il carico settimanale delle sigarette.
Il bambino venuto al mondo un mese fa si chiama Andrea e oltre che figlio di Teresa è anche mio, e porta il mio cognome. Pesava quasi quattro chili quando è venuto fuori da dentro la pancia della madre e me lo hanno dato in braccio tutto sporco che io ero lì, presente, con il grembiule verde, copricapo e mascherina, in sala parto, con il ginecologo e l'ostetrica. Era buffo guardare quel batuffolo di carne generato da me e da Teresa perché lui, Andrea, non ti guardava negli occhi e dalla bocca chiusa usciva saliva a palloncini e lei, la mamma, ogni tanto gliela asciugava con un bavaglino bianco e profumato. Tutt'ora il piccolo mi fa tanta tenerezza, ancora non mi ci sono abituato e quando torno la sera lo prendo stretto tra le braccia e non faccio che guardarlo, come se mi ci dovessi riempire gli occhi e lo stomaco. E questo anche se avrei preferito che si chiamasse Giuseppe, come mio nonno paterno nato e morto a Canosa, che ai suoi tempi andava a cavallo e detestava viaggiare sui mezzi a motore, persino sui treni.
Ogni tanto prendo appunti su un piccolo quaderno, il "Quaderno giallo", lo chiamo. Così, una specie di gioco iniziato da qualche anno, tanto per sentirsi un po' vivi anche durante le lunghe ore di lavoro. Oggi l'ho lasciato a casa, forse sul comodino della camera da letto, comunque spero di non averlo smarrito. Se così fosse mi auguro che nessuno legga quello che ho scritto. Anche se non è nulla d'importante. Se lo avessi portato con me avrei potuto scriverci qualcosa durante la pausa del semaforo verde, che qui, dove ora mi trovo, dura parecchio e i pedoni a volte mi stanno accanto e scalpitano perché vogliono attraversare la strada prima possibile. Loro le sigarette mica le comprano, forse per non portarsi dietro il peso, il fastidio della stecca infilata sotto il braccio.
Per esempio nel quaderno avrei raccontato che stanotte ho davvero rischiato la pelle, e sì, stando in casa, poi. Già altre volte mi era successo, però mai in questo modo: ci sono andato proprio vicino, ma nulla dirò a Teresa che magari si preoccupa e mi costringe ad andare dal dottore e a fare le analisi che chissà quanto costano e quanto tempo ti portano via e io non posso non lavorare. Dopo uno di quei risvegli improvvisi in cui si è presi dall'irresistibile voglia di pisciare e allora si va in bagno e a fatica si fanno due gocce, per via di quella maledetta infezione che ho alle vie urinarie. Insonnolito, nervoso e stanco attraverso di corsa la camera da letto, passo in mezzo ai letti di Lorenzo e Franco, ed ecco che sterzo all'ultimo momento che altrimenti avrei preso in pieno lo spigolo della porta: l'ho solo sfiorato d'un millimetro a una velocità pazzesca. Quando mi sono reso conto di ciò che era accaduto, ho avuto paura. Di sicuro mi sarei rotto la testa e il sangue sarebbe schizzato dappertutto. Forse per la gran botta mi sarei lesionato un occhio. Salvo per miracolo, allora. Lassù, ne sono sicuro, qualcuno deve avermi protetto, forse le preghiere servono anche a questo. Perché poi non so come avrei fatto a lavorare. Proprio ora che è ripresa la scuola e i ragazzi hanno bisogno di libri e quaderni che io li voglio far studiare fino al diploma e per questo adesso, per la famiglia, fanno ben poco. Solo il grande, Lorenzo, ogni tanto fa qualche lavoretto, aiuta il mio amico Nando a fare piccoli traslochi. Di solito il sabato pomeriggio.
Non ho idee da far lievitare, non sono in attesa di fatti eclatanti, né di vincite al lotto. Ho Teresa con le sue mammelle gonfie di latte e questo mi basta, sarà pure un cibo povero ma è sostanzioso. Adesso poi ho un altro figlio e quindi dovrò fare in modo d'aumentare la vendita delle sigarette: la sera a piazza dei Mirti devo arrivarci tranquillo, soddisfatto. Ha solo 32 giorni, Andrea, e già costa di più dei due fratelli più grandi, Lorenzo e Franco, che ogni tanto, stufi della tivù o dei giochi spaccatutto alla playstation, se lo spupazzano un po' lanciandosi il fratello come fosse una palla. Il neonato consuma montagne di pannolini che se potessi venderli a peso, così, pieni di merda, farei soldi a palate.
Ogni giorno macino decine di chilometri, spesso mi fumano i piedi e io, anche se vendo sigarette, detesto il fumo. Tant'è che a tutte le scarpe con il cuoio ho fatto mettere le suole di gomma che altrimenti ne consumerei un paio al mese. Mi faccio i semafori principali della Tiburtina, Collatina, Prenestina, Casilina e la sera quando arrivo a casa sono più morto che vivo, ma di solito il peso dello zaino dove ripongo le stecche di sigarette è diminuito parecchio e il portafoglio, aprendolo, mi sorride.
Dopocena siedo un po' davanti alla tivù con le gambe frullate dalla stanchezza e mi fanno ridere storto i politici e i professori che se ne stanno comodi e rilassati nelle poltrone di pelle bianca o rossa, ospiti nel salotto televisivo di "Bussa alla Porta". Parlano di continuo, sorridono spesso, ammiccano, s'aggiustano il nodo della cravatta, si toccano il rolex al polso sinistro. Sono esperti di tutto, ma la vita di tanta gente non la conoscono per niente, né gli interessa conoscere la vita di chi soffre, dei proletari e dei "piccoli borghesi", come li chiamano con disprezzo. No, loro non sanno nemmeno che esistiamo. E penso che se il ministro della sanità non la finisce di parlare male del fumo e di prendere provvedimenti a riguardo dovrò cambiare mestiere. Non saprei proprio cosa mettermi a fare e di là in cucina c'è Teresa che lava i piatti e in camera da letto ci sono i nostri tre figli ai quali non deve mancare niente. No, proprio niente, se non il superfluo.