FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia
Numero 3
luglio/settembre 2006

Signore Bestie

LA POESIA DI ADALBERTO ORTIZ

di Sara Piazza


Il nome di Adalberto Ortiz (1914-2003, Ecuador) è senza dubbio da annoverare tra quelli dei più grandi scrittori latinoamericani del secolo scorso nonché tra i fondatori della dottrina culturale e letteraria della "Negritudine". Ciò che lascia perplessi è la scarsa popolarità e considerazione che l'autore ha riscosso tra il pubblico sudamericano e tra gli ecuadoriani suoi connazionali. Juyungo. Historia de un negro, una isla y otros negros (1943) è l'unica opera di Ortiz che continua a essere pubblicata e diffusa anche all'estero. Un discreto successo dovuto al tema che tratta: la vicenda narrata è quella di un nero e della sua difficile lotta contro una società contaminata dai pregiudizi razziali, in cui la dignità dell'individuo si misura in base al colore della sua pelle. L'argomento, mai affrontato prima dagli scrittori sudamericani, viene raccontato da Ortiz con delicatezza e originalità, con il dolore di chi ha vissuto questo dramma in prima persona e con l'orgoglio di chi ha voluto e ha potuto superarlo.

Adalberto è infatti figlio di neri, abitanti della selvaggia e verde terra di Esmeraldas, sul versante pacifico dell'Ecuador. Nel 1914, anno di nascita dell'autore, questa regione divenne tragico scenario di una sanguinosa guerra civile. Al conflitto seguì una profonda crisi economica che colpì la stessa famiglia di Ortiz, obbligandola a trasferirsi nella città di Guayaquil. Solo il padre di Adalberto rimase a Esmeraldas, unendosi alle file del Governo Centrale: è così definitiva la separazione dal figlio, che lo ricorderà sempre come poco affettuoso e distante. Anche la madre sarà poco presente nella vita del giovane Ortiz. Dopo essersi stabiliti a Guayaquil, lei decide di entrare in convento, lasciando Adalberto alle cure della nonna materna, che di fatto diventa la sola responsabile della sua crescita ed educazione. Per sfuggire alla quotidianità amara e opprimente, dedica molto tempo alla lettura di grandi opere (Don Chisciotte, I tre moschettieri, La Divina Commedia), finché all'età di 11 anni compie l'esperienza più significativa della sua vita viaggiando per tre mesi in canoa, con la nonna, per tornare a Esmeraldas: scopre così tutto il fascino e il potere della selva, che giocherà un ruolo importantissimo nei suoi scritti. Alcuni anni dopo ritorna a Quito per iscriversi al Collegio Juan Montalvo finché ottiene, a 23 anni, il titolo di maestro. Decide dunque di trasferirsi a Esmeraldas per iniziare l'attività di insegnante, ma un libro di Emilio Ballagas intitolato Antología della poesía negra hispano-americana, lo costringe a cambiare i suoi progetti, scatenando l'esplosione dei ritmi negroidi che ribollivano dentro di lui.

Così Ortiz si avvicina alla poesia, nella maniera più incosciente e spontanea possibile. Compone il suo primo poema Jolgorio e ne scrive poi altri fino a terminare con un libro di poesia nera e mulatta intitolato Tierra, son y tambor, che verrà pubblicato solo dopo alcuni anni. Nel 1939, dalle pagine del Telégrafo J. G. Lara gli permette di pubblicare le sue poesie e lo introduce al "Gruppo di Guayaquil", un'associazione di scrittori e artisti indipendenti che si riunivano per commentare i rispettivi lavori e scambiarsi opinioni, in risposta ai poeti influenzati dal movimento modernista di Darío. Si forma in questi anni e in questo clima la personalità poetica di Adalberto, anche se sarà la terra di Esmeraldas la vera fonte d'ispirazione della sua poesia, dato che in essa si racchiudono tutti gli elementi, umani e naturali, che Ortiz desidera esplorare. In questa regione si concentra la più alta percentuale di neri di tutta la nazione: su queste coste, nella metà del 1500, si incagliò un galeone spagnolo su cui viaggiavano alcuni schiavi africani. I naufraghi s'impadronirono del territorio, formando una vera colonia che si fortificava ogni giorno di più nei costumi, nella lingua e nel folclore. Lo stesso Ortiz, in quanto discendente di questa razza e sostenitore della sua terra e dei suoi costumi, non ha intenzione di assistere impotente al crollo della sua civiltà, così decide di servirsi della scrittura per denunciare il disagio di una classe povera e sfruttata, nella quale il nero è protagonista.

In Ecuador, sui litorali e nella selva risuonava la musica primitiva della marimba: è quel tun tun inconfondibile che riecheggia nelle liriche di Ortiz come marchio indelebile della sua origine e che ricorda il ritmo degli schiavi, il loro canto dalla melodia inconfondibile e finora sconosciuta. La realtà dei neri viene dunque raccontata e incorporata addirittura in una dottrina culturale specifica, alla quale Ortiz è uno dei primi ad aderire: la "Negritudine". Il termine, di formazione abbastanza recente, deriva da "negro" e vuol essere il grido di rivendicazione di questa razza contro le false accuse d'inferiorità e la perdita dell'originaria identità.
Il concetto di negritudine non è imposto da persone o cause esterne, ma nasce da chi ha sofferto personalmente la dominazione e la discriminazione in nome di una presunta superiorità dell'uomo che non è nero. È un'auto-definizione attraverso cui l'individuo prende coscienza di sé e riafferma con forza tutta la sua umanità. In realtà la negritudine è sempre esistita, solo che mai prima d'ora si era costituita in dottrina consapevole e strutturata, capace di accomunare il nero africano con quello americano, salvandoli da una spersonalizzazione imminente.

In ambito letterario, anche se in Spagna durante il Siglo de Oro si possono incontrare alcuni poemi di stampo "negrista" nella poesia di Góngora e Lope de Vega, si dovrà aspettare fino alla metà del 1800 per riconoscere un vero precursore di questa specifica corrente letteraria nel colombiano Candelario Obeso, nonostante le sue opere siano imbevute di numerosi spunti romantici. Solo un secolo più tardi, quando i neri prenderanno coscienza della loro identità e del loro valore creativo, appariranno le opere più meritevoli, tanto nella poesia come nel romanzo, il cui obiettivo principale sarà quello di informare il lettore e fornire una testimonianza preziosa su fatti reali attraverso il potere immaginativo della parola.

In Ecuador il movimento compare attorno agli anni '30, quando il poeta e romanziere Nelson Estupiñan Bass e lo stesso Adalberto Ortiz iniziano a scrivere le loro opere negriste arricchite di elementi e dettagli di carattere nazionale. La negritudine si afferma come mezzo di comunicazione attraverso il quale i neri trovano maggior facilità d'esprimersi, utilizzando un linguaggio che gli appartiene e una retorica che nasce dai ritmi tribali, dalla fonetica e dall'onomatopea in uso nei paesi africani. Ortiz si propone un linguaggio che attribuisca alla lirica e alla prosa del romanzo la qualità e le sonorità della musica africana e dei suoi strumenti a percussione, pur ammettendo che tali abbellimenti formali, o "bembosidades", come le chiama il sociologo e saggista cubano Fernando Ortiz, rappresentano solo un aspetto della negritudine, quello stilistico, al quale si deve associare un messaggio serio e significativo.

L'interesse dello scrittore per la forma e lo stile cresce notevolmente nella produzione letteraria posteriore agli anni '50. La sua poesia diventa più ironica e disincantata e si allontana dal motivo negrista per dedicarsi ad altre tematiche. Una continua inquietudine e smania di ricerca orientano l'autore verso nuovi cambiamenti poetici e lo fanno propendere verso una varietà di argomenti e stili che in realtà non possiedono caratteristiche ben definite. Questa frammentazione sembra testimoniare ancora una volta la difficile condizione esistenziale dell'autore, disorientato dal suo essere mulatto e disgregato a livello umano e letterario.

Nel 1961 esce un volume intitolato El animal herido che contiene Tierra, son y tambor (1945), El vigilante insepulto (1954) e Camino y puerto de la angustia (1945), dove si abbandonano definitivamente i temi afro-ispanici. Va ricordato che nessun scritto dell'autore è mai stato pubblicato in Italia.




Cinque poesie

ROMANCE DE LA LLAMADA

Voz humana estremecida
vibra en el aire caliente;
cantos negros incompletos,
como el guarapo se vierten.
Monte vivo, cielo rojo,
un tono perdido tienes
y un vuelo de aves te lleva.
Canto amargo, de repente,
se oye en el bronco cununo
y hay un grito como jebe
en el tun de la marimba.

En tu piel, las grietas mudas,
son la herencia del ancestro
y sudan las manos, sudan,
dejando huella en la tierra.
Negro sudor de negruras,
alma de un fondo rebelde
dormida en la selva pura,
como la noche en el día,
como paisaje en la bruma.
Quebranta ya tu silencio
y en tu machete perdura.

Eres hombre y eres negro,
mal descendiente de esclavos,
esclavo para ser libre
en el monte desolado.
Olvida más tu marimba
y arroja al suelo tu vaso.
Cuelga también la guitarra
y empuña tu propia mano.
Desde antes que el alba llegue
tu bandera está esperando.


ROMANCE PROFUNDO

Entre la sombra y la luz,
¡qué sola va el alma mía!

Mi espíritu se quebró
entre una boca indecisa,
y un caballo de cristal
por mal camino me guía,
llevando todo mi ser
bajo una estrella maldita.

¿Qué me haré yo con tu amor?
¿Con tu amor, yo qué me haría?
Si volcará mi pesar
y podrá notar distintas.

Claros de luna sin fin
todas las noches habría,
y densa, densa emoción
de mi estrella con envidia.

¿Pero cuando volverá?
Me pregunto noche y día.
Quién sabe si ha de venir
tan breve como una chispa
o como llega también
el sol, el agua y la brisa.

Entre la sombra y la luz,
¡qué sola va el alma mía!


LA LUZ DEL DESALIENTO

Qué mudo y cansado voy.
Cansado y solo. Despierto
de la tierra, y la humedad,
hoy me atormenta los dedos.
De lo que antes era yo,
no me queda ni recuerdo.
Por eso no he de soñar
en suave claror de espejos,
en voltear la cruz del sur
ni en regresar del invierno.

Aquí murió mi canción,
dando sus caras al viento,
como nadie la iba a ver
emprendió su vuelo lejos.

Ave de rara inquietud,
encontró sólo silencio.


CONTRIBUCION

Africa, Africa, Africa,
tierra grande, verde y sol,
en largas filas de mástiles
esclavos negros mandó.
Qué trágica fue la brújula
que nuestra ruta guió.
Qué amargos fueron los dátiles
que nuestra boca encontró.
Siempre han partido los látigos
nuestra espalda de cascol
y con nuestras manos ágiles
tocamos guasá y bongó.
Sacuden sus sones bárbaros
a los blancos, los de hoy,
invade la sangre cálida
de la raza de color,
porque el alma, la del Africa
que encadenada llegó,
en esta tierra de América
canela y candela dio.


EL VIENTO Y YO

Cómo pudiera tener
su voz y el viento,
viento que azota la luz,
la luz del tiempo.

Recuerdo la fatal angustia,
viento herido.
Llevas la espina de mis amores,
viento lascivo.
Ahora crece la flor confusa
del viento amigo.

Hoy bajo un cielo nublado,
mañana, ¿dónde estarás?
Y no saber por qué camino,
por cual camino te vas.
El viento se me ha perdido,
quién sabe si volverá.

¿Dónde ella? ¿Dónde? ¿Dónde su voz?
¿Dónde mi luna?
¿Dónde mi sombra?
donde la luna sin alma y yo.

ROMANCE DELLA CHIAMATA

Accorata voce umana
vibrante nell'aria calda;
incompleti canti neri,
come guarapo si spandono.
Monte vivo, cielo rosso,
è affievolito il tuo tono
e gli uccelli ti conducono.
Canto amaro, all'improvviso,
sorge nel rauco cununo,
e un grido come di gomma
c'è nel tun della marimba.

Piaghe mute alla tua pelle,
sono eredità degli avi
e sudano le mani, sudano,
lasciano orme sulla terra.
Nero sudore di neri,
anima su fondo ribelle
nella selva addormentata,
come la notte nel giorno,
come paesaggio di nebbia.
Rompi ora il tuo silenzio
e fatti viva nel machete.

Uomo sei e nero sei,
figlio cattivo di schiavi,
schiavo per tornare libero
in mezzo al monte desolato.
Dimentica la marimba,
getta a terra il tuo bicchiere.
Appendi anche la chitarra
e brandisci la tua mano.
Da prima che spunti l'alba
ti aspetta la tua bandiera.


ROMANCE PROFONDO

Soglia tra l'ombra e la luce,
come è sola la mia anima!

Il mio spirito è infranto
per una bocca indecisa,
e un cavallo di cristallo
mi porta per brutte strade,
tutto quanto mi trascina
sotto una cattiva stella.

Cosa farò del tuo amore?
Del tuo amore, che farei?
Se cambiasse il mio dolore
dandomi note diverse.

Chiari di luna infiniti
avremmo tutte le notti,
e una densa, densa emozione
della mia stella invidiosa.

Ma quando ritornerà?
Mi domando notte e giorno.
Chi sa se vorrà tornare
veloce come scintilla
o come sanno arrivare
il sole, l'acqua e la brezza.

Soglia tra l'ombra e la luce,
come è sola la mia anima!


LA LUCE DELLO SCONFORTO

Silenzioso e stanco vado.
Stanco e solo. Mi risveglio
dalla terra, e l'umidità,
oggi mi attanaglia le dita.
Di quello che ero prima,
non mi restano ricordi.
Perciò non devo sognare
il bagliore di specchi,
capovolgere le stelle
o resistere all'inverno.

Qui morì la mia canzone,
offrendo il suo volto al vento,
nessuno l'avrebbe vista
allora volò lontano.

Uccello raro irrequieto,
incontrò solo silenzio.


CONTRIBUTO

Africa, Africa, Africa,
terra grande, verde e sole,
in lunghe file di navi
schiavi neri mandò.
Che tragica fu la bussola
che guidò la nostra rotta.
Che amari furono i datteri
che incontrò la nostra bocca.
Le fruste han sempre ferito
la nostra schiena di ebano
ma con le agili mani
suoniamo maraca e bongo.
I loro barbari suoni
turbano i bianchi, di oggi,
il sangue caldo si sparge
della razza di colore,
perché l'anima, africana
che incatenata arrivò,
in questa terra d'America
portò cannella e candela.


IL VENTO E IO

Come potrei avere
la voce e il vento
vento che sferza la luce,
luce del tempo.

Ricordo l'angoscia mortale,
vento ferito.
Porti la spina dei miei amori,
vento lascivo.
Ora cresce il fiore indistinto
del vento amico.

Oggi sotto un cielo di nubi,
domani, dove sarò?
E non saper perché cammino,
per qual cammino vai.
Il vento io l'ho perduto,
chi sa se ritornerà.

Dove lei? Dove? Dove la sua voce?
Dove la mia luna?
Dove la mia ombra?
dove la luna senz'anima e io.
 

(traduzione di Sara Piazza)

sarapiazza@yahoo.it