FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia
Numero 3
luglio/settembre 2006

Signore Bestie

NUOVO CUBANISMO ED EREDITÀ AFRICANA:
ELOY MACHADO PÉREZ

a cura di Martina Bandinelli


Eloy Machado Pérez (L'Avana, 1940), meglio conosciuto in tutta l'isola come El Ambia (parola di origine africana abakuá1 che significa "fratello"), è una figura che esce dai canoni della cultura ufficiale e rappresenta il mondo della marginalità cubana agli inizi del XXI secolo. Essendo un poeta dei bassifondi ovviamente non gode di fama internazionale come altri scrittori cubani; ciononostante la sua opera è molto conosciuta e amata a Cuba e rappresenta una sfida di notevole importanza all'interno della cultura nazionale. Tra le varie raccolte poetiche è importante citare Camán lloró (1984), Del 1 al 6 la vida (1999) e Por mi pura (2003) che hanno acquistato maggiore diffusione anche in seguito agli interventi di figure rilevanti della critica cubana e internazionale come Cintio Vitier. La poesia di Eloy Machado è quella della quotidianità, dei fatti che caratterizzano le giornate trascorse nei barrios più poveri dell'Avana, delle feste nei solares in cui si respirano l'atmosfera travolgente della rumba e dei rituali religiosi di origine afrocubana.

Uno degli elementi che più caratterizzano la poesia del Ambia è il linguaggio tipicamente popolare e colloquiale: quello dei neri che popolano le strade della capitale, composto da un elevato numero di cubanismi e di termini colloquiali derivati dalle lingue africane e usati dai neri e dai mulatti cubani. Tali termini si riferiscono soprattutto alle musiche e ai rituali religiosi afrocubani, che hanno sempre un ruolo di primo piano nella poesia di Eloy Machado. È importante ricordare che El Ambia, oltre che un poeta di notevole spessore e sensibilità, è promotore culturale e musicale, in particolare dei generi popolari cubani come la rumba. Egli è anche animatore della famosa Peña del Ambia, una sorta di ritrovo - che si tiene da molti anni ogni mercoledì pomeriggio nei locali della Unión Nacional de Escritores y Artistas de Cuba - a cui partecipano neri, mulatti e bianchi cubani e dove vengono accettati con piacere anche turisti e curiosi.

L'uso del linguaggio rende estremamente realistica questa poesia che tuttavia tratta argomenti più astratti e universali. La sofferenza del nero cubano diventa protagonista assoluta dell'opera ambiana, benché sempre in un contesto più ampio che abbraccia tutti i settori più poveri e disagiati della popolazione. Inoltre mostra una dimensione intima e personale molto intensa: la vita del poeta e dei suoi cari, fatta di emarginazione e sofferenza, sempre messa in primo piano come simbolo ed esempio delle condizioni miserabili in cui si trova a vivere il popolo nero. Eloy Machado vive totalmente immerso nella realtà di questo mondo e conosce tutte le gioie e tutti i dolori che lo caratterizzano. Egli è un nero marginale, che attraverso la sua poesia riesce a trasmettere messaggi importanti che devono arrivare a toccare la coscienza di tutti in modo da raggiungere quell'obiettivo che per primo Nicolás Guillén aveva simboleggiato nel color cubano, ovvero la costituzione di una nazione cubana attraverso la partecipazione di tutti i cittadini, senza distinzioni di razza e colore.


1Abakuá è un termine di origine africana che si riferisce a una particolare setta, detta anche secta de los ñáñigos, che fa parte del culto afrocubano della santería a cui appartiene il poeta.




Intervista a Eloy Machado Pérez

Come ha avuto inizio la sua carriera e per quale motivo ha cominciato a scrivere poesie?

Ho cominciato a scrivere nel periodo in cui lavoravo per il Ministerio de la Construcción alla costruzione dell'ospedale di Centro Habana. Lì c'era un cubano, che ora vive in Costarica, Froilán Escobar, poeta, giornalista e scrittore di grande valore che un giorno mi disse: "Ambia, vieni qua, perché non scrivi una poesia?". E un giorno arrivai con un pacchetto di fogli e mi fermai; mi venne un'idea e pur scrivendo così male, io scrivo come un bambino di tre anni, o quattro o cinque anni, presi un foglio e scrissi un verso. Non sapevo cosa fosse un verso e lo scrissi su un foglio. Froilán infilò la sua mano nella mia tasca e prese tutti i fogli e come per magia cominciò a comporre la poesia e mi disse: "Ambia! Hai scritto una poesia!" e mi dette una pacca. Così ho cominciato, anche se subito mi sono pentito perché non vedevo venir fuori le poesie e le abbandonai. Passò un po' di tempo e venne pubblicata la mia prima poesia qui nella UNEAC. In seguito Froilán portò le mie poesie a Ornelio Jorge Cardoso, un narratore cubano, e quest'ultimo le portò a Nicolás Guillén. E Nicolás gli disse: "Chi ha scritto questo?" e Froilán Escobar: "Un nero che lavora nella Construcción". E Nicolás rispose: "Portalo qua". E fu proprio il Poeta Nacional a portarmi qui.

Quanti anni aveva quando cominciò a scrivere?

Avevo l'età della vita.

Qual è il significato di Ambia?

Ambia significa "fratello" in una religione nera, o bianca se si preferisce, che si chiama abakuá alla quale non possono appartenere le donne. È una parola molto comune a Cuba. Ambia è un personaggio popolare. Tu mi vedi e già hai potuto capire come sono fatto.

La sua opera è legata a quella di Guillén?

Io non direi tanto. Sarebbe chiedere troppo. Egli scrisse un commento che ho ricevuto da un poeta che si chiama Raúl Rivero, che è come un fratello per me. E Nicolás gli disse: "Questo (Camán lloró, il mio primo libro) è il mio Sóngoro cosongo".

Quali sono i temi principali che tratta nelle sue poesie?

La vita. Ho pubblicato un libro che s'intitola Soy la vida que se va.

El Ambia è come se fosse il poeta della marginalità, non è vero?

Sì. Adoro dire questo. Pur essendo marginale la gente dice che non lo sono perché ho letto una serie di scrittori famosi. Ma questo cosa significa? La lettura è stata fatta per tutti, per i marginali e per coloro che non lo sono.

Come sono i suoi rapporti con la cultura ufficiale?

I miei rapporti sono amichevoli ma secondo me non sono molto buoni. Collaboriamo insieme, ma non c'è fratellanza tra noi.

Secondo lei, come si svilupperà in futuro questo movimento marginale? Ci saranno ancora personaggi come lei che si impegneranno per diffondere la cultura nera con la sua stessa forza e volontà?

Sì, certamente! Esisterà sempre la marginalità che è come la poesia che non smetterà mai di esistere. Immagina, è impossibile che tutto rimanga uguale. Ma questa Rivoluzione è la più grande che abbiamo mai visto, come dice Fidel. Io sono molto grato alla Rivoluzione. Se io esisto, parlo di me personalmente, è grazie alla Rivoluzione, perché se non fosse stato per lei adesso non sarei qui a parlare con te, non sarei "El Ambia", forse sarei morto o sarei un ladro nel sistema capitalista. Ma questo non è successo grazie alla Rivoluzione che è così bella, che non è bianca, non è mulatta, non è nera, ma è color cubano. Non è facile capire la Rivoluzione. Ci sono persone che se ne vanno perché non la capiscono. Il problema è che la propaganda capitalista è forte e se ti sorprende debole ti cattura.

Quindi i suoi rapporti col governo sono...

Buoni. Questo è il mio governo. Ho un rapporto migliore col governo che con gli intellettuali. Sto dalla parte del governo. Anche se sono un poeta della marginalità ho questi buoni rapporti con il governo. Devo averli come riconoscenza. Nella vita, sorella, si deve essere riconoscenti. Così diceva mia madre. Io mi sento molto riconoscente alla Rivoluzione. Parlo di me, del Ambia. E quando mi bevo un whisky dico grazie alla Rivoluzione.

I suoi libri sono legati tra loro o trattano temi diversi?

I miei libri abbracciano questo aspetto dolce della Rivoluzione. La Rivoluzione è sempre presente nei miei libri, ha un ruolo fondamentale, come mia madre, anch'essa sempre presente in tutti i miei libri. Prima della Rivoluzione viene mia madre.

Com'è il suo linguaggio?

Il mio linguaggio è completamente marginale. Non posso parlarti con la "s" e dirti entonces e después. A me non interessa né entoncesdespués. Il mio è un linguaggio colloquiale come dice Cintio Vitier. Per il mio primo libro, Camán lloró, Cintio Vitier, un critico famoso, scrisse un prologo e lo accusarono di paternalismo perché lui appartiene alla classe media ed è cattolico e i bianchi razzisti non potevano accettare che avesse scritto un prologo per me che sono marginale. Si arrabbiarono. Loro si arrabbiano sempre coi neri. Noi neri cubani abbiamo partecipato alla Guerra d'Indipendenza insieme a Martí, a tutte le rivoluzioni che ha fatto il paese e grazie a questa Rivoluzione abbiamo finalmente ottenuto la garanzia dei nostri diritti umani. Nel capitalismo i neri servivano solo per diventare pugili, sportivi in generale e spazzini. Con la Rivoluzione siamo diventati ingegneri, medici... E adesso sta accadendo una cosa molto importante. Ricordi quando il Che durante la guerriglia diceva: "Due, tre Vietnam...". Ora si sta realizzando questo, non ovunque come voleva il Che, ma sicuramente in Argentina, in Venezuela con Hugo Chávez, in Uruguay adesso... Al contrario la Bolivia non è molto integrata nel concetto di Rivoluzione latinoamericana. Queste sono mie interpretazioni. Adoro la politica. La politica è stregoneria, è magia.

Essendo un importante promotore della rumba e dei generi musicali popolari, la sua opera ha anche legami con la musica?

Sì, certamente! Ho scritto una poesia che s'intitola "Soy todo" che è stata musicata e ora è molto famosa e popolare in tutta l'isola.

Il suo rapporto con la religione...

Io non sono credente, ma la religione è presente nella mia poesia. Ciononostante, io personalmente non sono credente. La mia fede è la Rivoluzione. È che la vita mi ha dato la prova che la religione non esiste. Con tutto quello che ho passato la religione non mi ha mai aiutato. >




Dieci poesie

El niño que juega y no juega

El niño juega, pero nota
que hay en él algo que le impide moverse
con facilidad.
Sus ojos no brillan.
La sonrisa infantil se ausenta.
Mira en sus sanos sueños, despierto
como la pelota que va de aquí para allá.
Pero también ve volar la apreciada ausente
         comida,
linda y sabrosa que le depara su sano
         juicio.
Lo disocia del lugar donde se encuentra.
Choca con su faz la bola del mundo, que
         vuela
como un pájaro redondo.
Todos ríen inocentemente,
ignorando que el hermanito del juego
vagaba por el mundo de la comida.
Él los mira y una lágrima oculta
rueda por su mejilla.
Sólo él y su madre conocen el llanto del
         desespero.
Pero como es un niño, coge la pelota
con buen humor y la tira con fuerza,
como si hubiera comido lo soñado.


Il bambino che gioca e non gioca

Il bambino gioca, ma nota
che c'è qualcosa in lui che gli impedisce di muoversi
con facilità.
I suoi occhi non brillano.
Il sorriso infantile si assenta.
Osserva nei suoi sani sogni, desto
come la palla che va da qui a là.
Ma vede volare anche l'amato assente
         pasto,
bello e saporito che gli offre il suo sano
         giudizio.
Lo allontana dal luogo in cui si trova.
Sbatte contro il suo volto la palla del mondo, che
         vola
come un uccello rotondo.
Tutti ridono con innocenza,
ignorando che il piccolo compagno di gioco
vagava nel mondo del cibo.
Lui li guarda e una lacrima nascosta
scivola sulla sua guancia.
Solo lui e sua madre conoscono il pianto della
         disperazione.
Ma essendo un bambino, raccoglie la palla
di buon umore e la lancia con forza,
come se avesse mangiato ciò che aveva sognato.

***
Hombre solo

Mi alma se desgarra a nivel del payaso:
saludo con efusión, pero es mentira.
Tampoco puedo decir por qué los payasos
       sufren.
No dicen cuando lloran sino cuando ríen.
La muerte es un descanso a la payasería.
El payaso tiene un circo interior que oculta
con venerable bondad. Va de pueblo en
         pueblo
regalando llanto y sonrisa.
Cada paso que da es un desgaste moral
que sabe ocultar como una fina copa.
Hasta el pordiosero ríe también,
¿acaso no es un ser humano que
          desactiva su miseria
con una sonrisa falsa? ¿Es amor?
No, es el destino de un parque lejano.
Es él que cabalga como una tumba en vida,
con el disfraz al cuello.


Uomo solo

La mia anima si apparta alla maniera del pagliaccio:
saluto con calore, ma è una menzogna.
Non posso nemmeno dire perché i pagliacci
       soffrono.
Non dicono quando piangono ma quando ridono.
La morte è un sollievo per i pagliacci.
Il pagliaccio ha un circo interiore che nasconde
con venerabile bontà. Va di paese in
         paese
regalando pianti e sorrisi.
Ogni passo che fa è un guasto morale
che sa nascondere come un bicchiere raffinato.
Perfino il mendicante ride,
forse non è un essere umano che
          neutralizza la sua miseria
con un sorriso falso? È amore?
No, è il destino di un parco lontano.
È lui che cavalca come una tomba in vita,
con la maschera al collo.

***
Aché pa ti, hijo

La jeta, el cuero, al compás de los pies.
Un sonido sin discordia se hace sentir.
El sartén está en el aire como el chachá.
El solar se inunda pronto en sudor tropical.
Las voces, como campanadas alegres, se
        oyen
en un eco voraginoso:

        Déjala bailar pa que goce, pompeyo.
        Déjala bailar pa que enchumbe su
                 mente,
         pa que apriete chupeta.

Así bailaba la morena la rumba, como si
          fuera mambo:
de aquí para allá, de allá para acá.
El solar de cartón y tabla temblaba de pies
          a cabeza
como un ciclón del 44.
Angelita Dueña, el Puma, Dalia Sotolongo
conversaban armoniosamente
en sillas sin ser sillas, cómo robar mañana.
Humón de Quile reía de lo lindo
con sus dientes color marfil.
La timba estaba tan dura que, para buscar
un nicanor del campo, había que pintar
cocacola en el aire: sandame, nunca santoma
daba palmadas por el cuarto que también
         bailaba.
Mongo Familia, el revolucionario oculto del
         solar
escuchaba el plan derrotista de la vida,
y moviendo la cabeza en un soliloquio,
         decía:
"Hay que poner más bombas para que esta
         vida cruel
se acabe más temprano."
Salía del semibaño Papi la Horca,
          inspirándose
melodiosamente y limpiándose con flores
          blancas
y azucenas.
"Habla, la Horca", dijo con voz sudorosa.
Era el Niño el Choro, el negro de Los
          Pocitos.
"Venid para que aprendan guaguancó y
          columbia
y allí formaremos un conjunto de
          afrocubanos.
Sangre africana corre por mis venas."
Y surgió un improvisado coro: "¡Hablaaa!
Recuerden al Tío Tom, caballero""
          Cómo los americanos
          han de venir desde afuera
          a pisotear la bandera
          de nuestro Martí cubano,
          que también Quintín Bandera
          defendió con todo honor,
          Maceo que fue campeón
          con el machete en la mano,
          y a estos grandes caballeros
          hay que rendirles recuerdo.
          Cubano, ¿dónde están los cubanos?
Y los dientes de neón como luces acuáticas
resplandecían en el escenario.
La infelicidad reinaba como pedro por su
           casa
en el ambiente que todos conocían a
           quemarropa.
Pero ahí estaba el tambor,
desgraciadamente o felizmente para rendirle
            tributo
al combate que no rehuían jamás,
que acechaba como una amarga noche,
a cada mañunga, a cada soniche,
como la muerte al hambre.
Todo el mundo rumbeando y riendo, pero el
             fogón
ausente.
El montuno sopló como un viento
             huracanado
por un ciclón, en chángana.
El malafo hecho en casa volaba de
             chupacondo en boca,
y de boca en chupacondo, y las voces iban y
              venían
del vacío oyente envuelto en notas
              musicales.
"Changó, quítanos este arayé. Nuestro
              defecto
es haber nacido ángeles con cara sucia."
Interrumpió un hombre en la puerta del
               solar,
de chivo de bala, tan flaco como un pino,
tan guapo como todos los caminos que lo
               vieron cruzar.
Se sintió un grito firme, de afiméremo,
               ensordecedor.
"Se acabó la jalpanda", quiso decir el
               hombre.
Los contertulios de la rumba giraron la
               visuá
hacia la puerta, vieron el rostro sereno
como el atardecer de la mañana siguiente.
Surgieron dos voces a coro, emocionadas
dentro de la multitud acalorada de alegría:
Jacinta la Sufrida y Felicia la Caminanta.
"Aché pa ti, hijo."
Era el guerrillero Efigenio Ameijeiras.


Buona fortuna, amico

Il muso, la pelle, al ritmo dei piedi.
Un suono senza discordia si fa sentire.
Il tegame vola in aria come il chachá.
La casa si inonda ben presto di sudore tropicale.
Le voci, come allegri rintocchi, si
        odono
in un'eco vorticosa:

        Lasciala ballare perché goda, pompeyo.
        Lasciala ballare perché liberi la sua
                 mente,
         perché baci con allegria.

Così ballava la mora la rumba, come se
          fosse mambo:
da qui a là, da là a qua.
La casa di cartone e assi tremava dai piedi
          alla testa
come un ciclone del 44.
Angelita Dueña, il Puma, Dalia Sotolongo
conversavano armoniosamente
su sedie che non erano sedie, su come cavarsela l'indomani.
Humón de Quile rideva di gusto
coi suoi denti color avorio.
Il gioco era così duro che, per guadagnare
pochi spiccioli, bisognava fare
salti mortali: sandame, mai santoma
dava manate per la stanza che allo stesso modo
         ballava.
Mongo Familia, il rivoluzionario occulto della
         casa
ascoltava il piano disfattista della vita,
e movendo la testa in un soliloquio,
         diceva:
"Bisogna mettere più bombe perché questa
         vita crudele
finisca il prima possibile."
Emergeva dall'acqua Papi la Horca,
          ispirandosi
melodiosamente e purificandosi con fiori
          bianchi
e gigli.
"Parla, la Horca", disse con voce emozionata.
Era Niño el Choro, il negro di Los
          Pocitos.
"Venite perché imparino il guaguancó e la
          columbia
e così formeremo un insieme di
          afrocubani.
Sangue africano scorre nelle mie vene."
E si innalzò un coro improvvisato: "Parlaaa!
Si ricordino di Tío Tom, signori"
          Com'è che gli americani
          devono venire da fuori
          a calpestare la bandiera
          del nostro Martí cubano,
          che anche Quintín Bandera
          difese con tanto onore,
          Maceo che fu campione
          col machete in mano,
          e questi grandi uomini
          devono essere ricordati.
          Cubano, dove sono i cubani?
E i denti luminosi come luci acquatiche
risplendono nello scenario.
L'infelicità regnava come pedro in
           casa sua
nel luogo che tutti conoscevano a
           memoria.
Ma lì c'era il tamburo,
disgraziatamente o felicemente per rendere
            onore
alla lotta cui non si erano mai sottratti,
che era in agguato come un'amara notte,
ogni mattina, ogni notte,
come la morte con la fame.
Tutti che ballano la rumba e ridono, ma il
             fogón
è assente.
Il montuno soffiò come un uragano
un ciclone, in tumulto.
Il liquore fatto in casa scorreva dalla
             bottiglia alla bocca,
e dalla bocca alla bottiglia, e le voci andavano e
              venivano
dal vuoto in ascolto avvolto in note
              musicali.
"Changó, toglici questa maledizione. La nostra
              colpa
è essere nati come angeli dal volto sporco."
Irruppe un uomo sulla porta della
               casa,
come un caprone ferito, così magro come un pino,
così bello come tutti i sentieri che lo
               videro attraversare.
Si udì un grido fermo, improvviso,
               assordante.
"È finita la festa", volle dire
               l'uomo.
Gli invitati ella festa girarono il
               volto
verso la porta, videro lo sguardo malinconico
come il tramonto del giorno seguente.
Si alzarono due voci in coro, emozionate
nella moltitudine animata di allegria:
Jacinta la Sufrida e Felicia la Caminanta.
"Buona fortuna, amico."

***
Convierto a la gente en flor

Con fango en los pies,
con callos en las manos.
Tengo una secadora en mi alma.
Ahora me baño, ahora refresco,
sueño, descanso.
No me arrepiento de haber sido lo que fui.
Por eso ahora me baño y refresco.
Ya no sueño lo que toco.
Me asomo al balcón con la indulgencia a
          cuesta,
con la mirada en mi jardín.
Veo gente caminar
envuelto en flores.
Saludo:
            mariposa
            pétalos
            jazmines
            azucenas
Delicioso paraíso terrenal.
Siento una mirada que me mira,
que me besa,
que me abraza
con un manto divino.
Es la flor convertida
en Jacinta la Sufrida,
tiernamente.


Trasformo la gente in fiore

Con piedi fangosi,
con mani callose.
La mia anima è prosciugata.
Ora mi bagno, mi rinfresco,
sogno, riposo.
Non mi pento di ciò che sono stato.
Per questo ora mi bagno e mi rinfresco.
Ormai non sogno più ciò che tocco.
Mi affaccio al balcone con l'indulgenza in
          spalla,  
con lo sguardo nel mio giardino.
Vedo gente camminare
avvolta in fiori.
Saluto:
            farfalla
            petali
            gelsomini
            gigli
Delizioso paradiso terrestre.
Percepisco uno sguardo che mi guarda,
che mi bacia,
che mi abbraccia
con un manto divino.
È il fiore divenuto
Jacinta la Sufrida,
teneramente.

***
Enlloró mi ñakué

Aracelio jugó al quimbicuarta,
al trompo y a la quimbumbia,
al cabe y al ñate,
fue campeón a la viola,
jugó también al deber de la palabra
y murió ecobiándose con su conciencia.
Le escupió al semirrostro
del enemigo de su cansancio de afrentolita.
Vio al estiércol y lo entendió.
Forjador de virtudes, sencillo
como el día que lo vio sucumbir.
Combatiente del saco atereñón,
compañero saco a saco,
celador de moral a capa y espada.
El barco lloró su ñampe.
Su efión, su sangre,
corrió hacia la mar como un río luminoso
empangándose de vida en vida
y de ñampe en ñampe.
La lucha sindical lo llevó al vericueto.
Se enguaró con los coco asere de su tiempo
y se juró en la existencia.
Allí, en el combate de la ilustración,
se forjó un nuevo acero.
Fue herido de bala en la mano de Orula
por un tipajo que también cogió su ona.
Creció como la palma de su raíz,
amó a Lala con sentimiento manana,
a brazo partido como el sol de su frente.
Fue terremoto en su lenguaje,
su verdad.
Sufrió veri y allí conoció los
       laberintos
de su camino.
Revolucionó las ideas y las lluvias nuevas
revolotearon en su ser como alas libertarias.
Se convirtió en un versátil de la razón a
         quemarropa.
Tenía un fusil: la sílaba de su mirada serena
y franca.
Nació con el hambre
como cubano colonizado al fin
y vio un árbol crecer sin agua.
El camino de su muelle resplandecía
como la hamaca de su sonrisa.
Al paso de su sombra el muelle en general
tomaba la forma de su ser.
Miró al cielo una vez
Y el sudor le rindió moforibale.
Solía volar alto en su alegria.
Era firme a paso de roca.


In memoria di un amico

Aracelio giocò al quimbicuarta,
al trompo e alla quimbumbia,
al cabe e allo ñate,
fu un campione nel gioco della viola,
giocò anche con la vita
e morì riconciliandosi con la sua coscienza.
Sputò in faccia
al nemico della sua stanchezza e sofferenza.
Vide orrori e li capì.
Costruttore di virtù, semplice
come il giorno che lo ha visto morire.
Combattente dall'abbigliamento abakuá,
compagno di sbornie,
difensore a spada tratta della morale.
La nave pianse il suo morto.
La sua anima, il suo sangue,
corse verso il mare come un fiume luminoso
riconciliandosi con tutti i vivi
e con tutti i morti.
La lotta sindacale lo portò verso le prime difficoltà.
Si unì ai migliori del suo tempo
e imprecò quando era vivo.
Lì, nella lotta della cultura,
si forgiò una nuova spada.
Fu ferito da una pallottola nella mano di Orula
da un tipaccio che prese anche colpo.
È cresciuto come la palma dalla sua radice,
amò Lala di un amore puro e totale,
con tutte le sue forze come il sole acceso sulla sua fronte.
Creò sconcerto e tumulto col suo linguaggio,
con la sua verità.
Soffrì molto e conobbe così i
       labirinti
del suo cammino.
Fu portatore di idee rivoluzionarie e le piogge purificatrici
svolazzarono nel suo essere come ali di libertà.
Divenne un versatile difensore della ragione in tutte le sue
         manifestazioni.
Aveva un'arma: la sillaba del suo sguardo sereno
e franco.
Nacque con la fame
come ogni cubano finalmente colonizzato
e vide un albero crescere senza acqua.
Il cammino del suo molo risplendeva
come l'amaca del suo sorriso.
Al passo della sua ombra tutto quanto il molo
prendeva la forma del suo essere.
Guardò il cielo una volta
e la pioggia gli rese onore.
Era solito volare alto con la sua allegria.
Era fermo col suo passo di pietra.

***
Asoíro macoíro, Chano Pozo

Chano Pozo legendario azabache
en su sonrisa de palomar,
cuna de abakuá y de Ifá, reliquia
de ritmo cultural que en Cuba nació.

Chano, usuario picaresco en la mirada,
redondeaba el pasaporte de su frente
cristalinamente.

Solía dormirse en las pestañas
cuando el insomnio le tocaba la que se fue.

Conocedor en lo más recóndito del filo de la
                       vida.
Usaba yomba a lo guaño guaño, camisa corta
abombachada.
Se baquiñó limpio con la hebra de hilo.
Se juró con la lealtad de su mundo.
Excelente tumbador, como el sol de sus
dientes,
en la alegría rayana.

Caminó en la rueda cantando y bailando:
Amaria amana umparia
jeyey umparia
Con su pelo en pétalos aguacerados.

Dominaba la jerga de la venida como Juan
     que se mata.
Se vistió con la nube de la fidelidad
para bailarle a su valla, que lo vio nacer,
que lo agitaba idolatradamente.

Chano, hijo de abasí en su cultura,
bailaba con suma grandeza, orondo,
rameaba en su deleite con una
    superelegancia,
dotado de mafia inconfundible.

Su corazón respondía a la amorosa
    aclamación,  
que era su verdadera estampa.
Leoncio, hermano de ecobiasco le encamaba,
le hablaba con paciencia, con sumo esmero:

                 Asoíro macoíro,
                 abakuá mañongo impavio

Manguín, hermano también, el cantador de
                       rumba
del solar de Rancho Verde, le tocaba
                       repicándole
el bongó enchimi con suma arrogancia
de mágico esplendor.

Chano, jamás conoció el miedo, sin embargo
conoció el hambre, predispuesto.
Una vez jugando al quimbicuarta
un chamergo se pasó con carta
y se comió el miedo de acuajo,
y se tocó en su rodilla con sus prodigiosas
                      manos
un melodioso ritmo.

Rumbéen  frente al roli con la negrura
de sus emociones, rodeados de cocos secos
    nauseabundos
Cantaron a coro:
                            a mi me gusta la negra
                                   prieta,
                            el ñame con manteca

Le vociferaban con respeto encariñado-
                       melodioso
desde los balcones sin balcones.

Sabes lo que estás tocando, niño prodigio
Meneaba la cabeza ritmosamente, como una
     flor
y se extendió la rumba por todo el solar
de El Palomar, Chano se sentía feliz
en un de cierta manera, dentro de nido
    poderoso
que lo apretaba hasta hacerlo saltar.

Un día voló de su Cuba esclavizada
para entrar en Guatapeor
con su puchita y flores,
hacia el paraíso de papel
que Martí descubrió perfumada de muerte,
de su agua salvaje en el paisaje.

Allí violó reglas musicales semimoribundas.
Sostenedor de su cultura hasta el final de su
    campaña,
Chano, en sus ratos de solobanco
tarareaba magistralmente en la tumbadora,
como Brindis de Salas la Heroica de la
    novena Sinfonía:

          ja ja ja ja
          pin pon pa
          que te he visto con María
          en la puerta del solar
          ja ja ja ja
          pin pon pa
Implantó su conocimiento con los grandes
    del jazz.
Con su jícamo gritó musicalmente manteca-
    jazz.
Revolucionó el jazz y evolucionó como gente
en su contexto. Fue creativo en su
    farmaceútica fama.

Modeló de abarorí con su mano el tambor,
cantándole también en pleno aguaje a sus
    ancestros:
        Munanga efó
        acari mangó
        abasí

El tiempo no pudo borrar la imagen de su
    mente,
conjunto de su vida, como complemento
    directo.
Allí murió Chano Pozo, el seráfico,
    violentamente
con una bala con musicalización en la
    moropa entufe.
Su sangre, la menga rodó diáfana
por la ruina social que el capitalismo le
    obligó
a abrazar, paraíso de papel.


Alleluia, Chano Pozo

Chano Pozo leggendario negro
dal sorriso luminoso,
culla di abakuá e di Ifá, reliquia
de ritmo culturale che nacque a Cuba.

Chano, malizioso nello sguardo,
era comunque sincero e trasparente,
un'anima cristallina.


Era solito dormire poco
poiché l'insonnia gli toglieva il sonno.

Profondo conoscitore del filo della
                       vita.
Indossava una camicia corta
bombata.
Diventò onesto.
Imprecò contro la lealtà del mondo.
Eccellente ballerino di tumba, come la luce dei suoi
denti,
con un'allegria eccessiva.
Fece strada nella sua vita cantando e ballando:
Amaria amana umparia
jeyey umparia
Con i capelli come petali inzuppati.

Dominava rapidamente il gergo della strada come Juan
     che si uccide.
Si vestì con la nube della lealtà
per ballare da solo, di fronte a chi lo vide nascere,
a chi lo agitava idolatrandolo.

Chano, figlio di abasí nella sua cultura,
ballava con somma grandezza, pieno di sé,
muoveva le braccia con piacere e
    grande eleganza,
dotato di mafia inconfondibile.

Il suo cuore rispondeva all'amorosa
    chiamata,  
che era la sua vera impronta.
Leoncio, amico fraterno lo rassicurava,
gli parlava con pazienza, con somma attenzione:

                 Asoíro macoíro,
                 abakuá mañongo impavio

Manguín, altro fratello, il cantore della
                       rumba
della casa di Rancho Verde, suonava
                       percotendolo
il tamburo maggiore con somma arroganza
e magico splendore.

Chano, non conobbe mai la paura, ma
conobbe la fame, per predisposizione.
Una volta giocando al quimbicuarta
un bambino volle bluffare
e si beffò della paura in un sol colpo,
e suonò sulle ginocchia con le sue prodigiose
                      mani
un melodioso ritmo.

Ballino la rumba davanti alla gente con l'intensità
delle loro emozioni, circondati di cocchi asciutti
    nauseabondi
Cantarono in coro:
                            a me piace la nera
                                   ben scura,
                            lo ñame con il burro

Le chiamavano strillando con un rispetto affettuoso-
                       melodioso
dai balconi senza balconi.

Sai cosa stai suonando, bambino prodigio
Agitava la testa ritmicamente, come un
     fiore
e la rumba si diffuse in tutta la casa
di El Palomar, Chano era felice
in modo particolare, dentro al suo nido così
    potente
che lo sollecitava fino a farlo saltare.

Un giorno volò via dalla sua Cuba schiavizzata
per entrare in un posto ancor peggiore
con i suoi stracci,
verso il paradiso di cartone
che Martí scoprì profumata di morte,
con la sua acqua selvaggia nel paesaggio.

Lì violò regole musicali semimoribonde.
Sostenitore della sua cultura fino alla fine della sua
    campagna,
Chano, nei suoi momenti di solitudine
canticchiando magistralmente un'aria della tumba,
come Brindis de Salas la Heroica della
    nona Sinfonia:
          ja ja ja ja
          pin pon pa
          che ti ho visto con Maria
          sulla porta della casa
          ja ja ja ja
          pin pon pa
Entrò in contatto con i grandi
    del jazz.
Col suo tamburo unì in musica la sua cultura con il
    jazz.
Rivoluzionò il jazz e si evolse come persona
nel suo contesto ideale. Fu creativo nella sua
    farmaceutica fama.

Era un maestro con le sue mani sul tamburo,
cantando con entusiasmo travolgente ai suoi
    ancestri:
        Munanga efó
        acari mangó
        abasí

Il tempo non ha potuto cancellare l'immagine dalla sua
    mente,
insieme della sua vita, come complemento
    diretto.
Lì morì Chano Pozo, il serafico,
    in modo violento
con un colpo sonoro di una pallottola nella
    fronte.
Il suo sangue, puro divenne gracile
per la rovina sociale che il capitalismo lo
    obbligò
ad abbracciare, paradiso di cartone.

***
El negro

El negro
es un ente circunstancial
bajo ese lunar que lo cobija,
bebiendo de esa sagra sonora
en su espacio que lo cobija.
El negro,
con su huella de cayo
que no le muere en el ocambo,
las huellas de las risas
en el ocambo.
Así en ese ocamberes
he visto pasar
el ojo mudo y sordo
más callado que triste.


Il negro

Il negro
è un ente circostanziale
sotto questo neo che lo protegge,
bevendo da questa saggezza
che lo protegge fino alla vecchiaia.
Il negro,
con la sua orma d'isolano
che non scompare nel tempo,
le orme delle risate
nel tempo.
Così nella vecchiaia
ho visto passare
l'occhio muto e sordo
più silenzioso che triste.

***
Casa de chocolate

El negro con su gallardo,
el blanco con su té
de porcelana,
no vamos comparseando juntos
porque él ve el alacrán
desde su balcón.
La ausencia de la campana
ya no suma ahora,
no se preguntó de qué tribu
eres o eras,
sólo hacía falta
la voluntad y un caballo,
un sueño y una manigua.
¡Ay! Santa Fidelia,
qué vergüenza,
ya no vamos juntos
a tomar café,
ahora es el té,
ahora pesamos menos
que un comino.
¡Ay! Santa Fidelia,
¿acaso tú tomas té?
El lenguaje,
el lenguaje carabalí
es una ofensa
al vocablo,
hay que escuchar a Beethoven,
no es menos cierto,
a Franz Liszt, leer a Lezama
o Carpentier
y a Sóngoro Cosongo,
¡Ah! Sóngoro Cosongo,
solavaya, pa mi casa
no vaya.


Casa di cioccolato

Il negro col suo animo coraggioso,
il bianco col suo tè
di porcellana,
non camminiamo insieme
perché lui vede lo scorpione
dal suo balcone.
L'assenza della campana
ormai non gli importa,
non si chiese di quale tribù
sei o eri,
mancava solo
la volontà e un cavallo,
un sogno e una rivolta.
Ah! Santo cielo,
che vergogna,
ormai non andiamo insieme
a prendere il caffè,
ora è il tè,
ora siamo poco più
che una nullità.
Ah! Santo cielo,
per caso tu bevi il tè?
Il linguaggio,
il linguaggio carabalí
è un'offesa
al vocabolo,
bisogna ascoltare Beethoven,
e nondimeno,
Franz Liszt, leggere Lezama
o Carpentier
e Sóngoro Cosongo,
Ah! Sóngoro Cosongo,
malocchio, non entrare
in casa mia.

***
Nicolás y El Ambia

Chenchemayá, Nicolás,
ecobio iguanque, Nicolás.
Yemayá bailó la rumba con Eleggua, Nicolás,
chenchemayá, Nicolás,
ahí está, pelao al coco
como Juan Cocorioco, Nicolás.
Chenchemayá, Hermano,
la conga no pasó,
el plante de irongrí
ya empezó.
Vamo pá llá, Nicolás,
con Yemayá,
con la camisa de guinga de Yemayá.
Vamo pá llá, Nicolás,
con chenchemayá,
que Yemayá bailó la rumba con Eleggua.
Vamo pá llá, Nicolás.


Nicolás e l'Ambia

Chenchemayá, Nicolás,
amico ineguagliabile, Nicolás.
Yemayá ballò la rumba con Eleggua, Nicolás,
chenchemayá, Nicolás,
sta lì, con la testa pelata
come Juan Cocorioco, Nicolás.
Chenchemayá, fratello,
la conga non passò,
la protesta di irongrí
è già cominciata.
Andiamo là, Nicolás,
con Yemayá,
con la camicia a quadrettini di Yemayá.
Andiamo là, Nicolás,
con riconoscenza,
che Yemayá ballò la rumba con Eleggua.
Andiamo là, Nicolás.

***
Manos cansadas

Esos malditos negros
ya saben leer,
han evolucionado
a golpe de mirar
el sacrificio, por ventura
de la vida, no de su vida en sí.
Se agolpan en comparsas,
divierten la risa,
sus poros son limpios
como el sol naciente,
sus dientes son blancos,
marfilados.
Esos negros son el paraíso.
Cuando los oyes
hablan de cómo fueron
a la escuela,
de cómo sus padres
no tenían para darle la merienda,
de cómo muchos dejaron
la escuela
para trabajar malamente.
La luna los veía llegar
cansados, con las manos
vacías de cansancio.
Esos negros, señores,
no tienen jueces.


Mani stanche

Questi maledetti negri
sanno già leggere,
si sono evoluti
a forza di guardare
il sacrificio, secondo i casi
della vita, non della loro vita in sé.
Si raggruppano per divertirsi,
allontanano il riso,
i loro pori sono puliti
come il sole nascente,
i loro denti sono bianchi,
come avorio.
Questi negri sono il paradiso.
Quando li ascolti
parlano di come andarono
a scuola,
di come i loro genitori
non avevano da dare loro la merenda,
di come molti lasciarono
la scuola
per un misero lavoro.
La luna li vedeva tornare
stanchi, con le mani
vuote di stanchezza.
Questi negri, signori,
non hanno giudici.


Traduzione di Martina Bandinelli martina.bandinelli@tiscali.it