FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia
Numero 3
luglio/settembre 2006

Signore Bestie

MIRTA YÁÑEZ
Nessun richiamo dalla foresta

a cura di Antonella Ciabatti


Il cane era rimasto. Probabilmente non si chiamava Buck e non leggeva i giornali, per questo non ebbe sospetti. La casa venne chiusa e il giardino rimase dietro una recinzione alta due metri, coperta a tratti da rampicanti. Il cane stava in piedi davanti al portone, vigile, con le orecchie dritte, in atteggiamento d'attesa. Dalla strada non si riusciva a vederlo bene. Dal finestrino dell'autobus invece si vedevano il cane e il sigillo ufficiale che chiudeva la casa.

Il cane era bianco, con alcuni ciuffi di pelo scuro sul petto e sul dorso, pelo corto e lucido, ben curato. I primi giorni stava piantato sulle quattro zampe, sicuro e altero. Non annusava il vento e non si muoveva, semplicemente aspettava. La casa era una di quelle vecchie case del Vedado, scrostata e con l'aria decadente. Invece il giardino era bello verde, si vedeva che era stato potato da poco. Il soffio d'abbandono che gradatamente si sarebbe impossessato d'ogni suo anfratto, non aveva ancora cancellato la memoria delle mani che una volta lo avevano curato.

Dopo alcuni giorni, il cane era ancora nella stessa posizione, di fianco alla porta principale. Di sicuro non si voleva muovere per poter essere il primo a vedere il ritorno di coloro che, lui lo sapeva, avevano diritto a entrare nella casa e a riannodare la vita, l'unica vita che il cane aveva conosciuto. Restava al suo posto, con la stessa espressione orgogliosa, fiduciosa, anche se il suo bell'aspetto cominciava a sciuparsi. Si poteva quasi pensare che cominciasse a spazientirsi, il gioco non lo divertiva più, lo scherzo era durato abbastanza.

Una settimana dopo il cane accusava un certo sconcerto. Che stava succedendo? Che cosa poteva avere fatto di male? Perché i suoi padroni, i suoi dei, non tornavano? Stava ancora in piedi e guardava verso il punto esatto dove aveva visto la sua famiglia per l'ultima volta, ma ormai con una certa inquietudine e fatica, e sicuramente anche con fame e sete. In realtà non gli importava molto la mancanza di cibo. E neanche tanto il non poter entrare per andare a mettersi nella sua cuccia preferita, raggomitolarsi tutto, sospirare e addormentarsi con il cuore calmo. Tutta la sua piccola testa era concentrata a nel cercar di capire a cosa fosse dovuto quel castigo che non credeva di meritare.
Il cane non aveva sentito parlare di Buck, così che non si sentiva un eroe. Non aveva mai visto neve, né slitte, né ghiacciai e quelle non erano le gelide regioni del Klondike. Nessuno lo aveva mai preso a bastonate. Quando passeggiava nel quartiere lo portavano in giro con comode cinghie che piuttosto servivano a farlo sentire protetto e non aveva neanche idea che altri cani come lui potessero ammazzarsi a morsi. Questa era la casa dove aveva sempre vissuto da quando ce lo avevano portato ancora cucciolo. Dietro la porta sbarrata erano rimasti i suoi nascondigli, la sua ciotola per l'acqua e quella per il cibo. Eppure tutto questo era il meno. Perché lo avevano abbandonato?

Quindici giorni dopo stava ancora in piedi, con rassegnazione, come la vittima di un errore incomprensibile. Ma lo sfinimento lo vinse e si vide obbligato, controvoglia, a reclinarsi contro la porta. Gli si chiusero gli occhi e sognò. Sognava che la famiglia tornava, che la casa si riempiva di voci e di rumori conosciuti, che le finestre si aprivano al sole del mattino e si svegliò felice, con un latrato che si trasformò in silenzio e in scoppi d'ira. Si sentì ingannato, furioso, l'incubo della casa sbarrata, del giardino che, come il suo corpo, si seccava era ancora lì. Ormai non si chiedeva più che cosa poteva aver fatto di male, voleva soltanto che il castigo finisse.

Qualche tempo dopo, aveva un aspetto miserevole, anche se continuava ancora a fissare lo stesso punto. Le orecchie dritte erano l'unico residuo che restava della prestanza dei primi giorni. Aveva il corpo scarnito e consumato, il pelo appiccicoso e lo sguardo vitreo. L'attesa stava per finire e qualcosa di simile alla pietà, al perdono entrava nel suo leale cuore di cane. Loro, i suoi dei, avranno saputo loro perché lo avevano fatto.

Ortensia la mamma di Julia, viveva all'ultimo piano del palazzo vicino alla casa del cane. La sua scala non aveva illuminazione e Ortensia andava perdendo poco a poco la vista, per questo non usciva mai e si sedeva al balcone solo per ascoltare i suoni della strada. Neanche Ortensia, come Buck, leggeva i giornali. Le sarebbe piaciuto ascoltare la radio, i suoi polpettoni, come diceva Julia, ma era un secolo che si era rotta. Manchita, prima di morire, era la sua compagnia. Ortensia le dava il buongiorno, la brontolava e a volte le raccontava i suoi problemi. Con Manchita l'esistenza trascorreva più piacevolmente. Ortensia ne sentiva molta nostalgia, ma come poteva fare, se ormai non ce la faceva più neanche a badare a se stessa, dimmi tu come avrebbe potuto accudire un nuovo cagnolino. La vicina che ogni tanto l'aiutava non parlava mai molto, aveva i suoi guai, e ringraziare che veniva a dar aria alla casa e a portarle la spesa. Ortensia si vergognava a disturbarla anche solo per chiederle che per favore le leggesse le lettere della figlia che, di tanto in tanto, arrivavano dall'Argentina. Quando Julia le mandava uno di quei pacchettini con le saponette e la medicina per il cuore, Ortensia regalava le saponette alla vicina. Le sarebbe piaciuto anche ascoltare la voce di Julia, ma, madonnina santa, guarda quanto sono care le telefonate da quel posto così lontano. E passavano gli anni, e continuavano a passare, aspettando l'arrivo di tempi migliori. Sia ringraziato il cielo che almeno la medicina e le saponette non le mancavano mai. E per fortuna era quasi cieca così non poteva vedere il cane.

Un mese dopo il cane non c'era più. Non lo avevano vinto le nevicate, né i lupi, né la fame, ma solo quella tristezza che gli impediva di fare altro che continuare a proteggere la casa e aspettare, solitario, il ritorno.


traduzione di Antonella Ciabatti



Nota al racconto

Nessun richiamo dalla foresta è tratto da una esile raccolta di 11 racconti brevi Falsos documentos (Ediciones UNIÓN, La Habana, 2005) situati tutti in quella zona che si trova a metà strada tra il reale e l'irreale. Invenzioni assurde e verosimili a un tempo e spesso legate al mondo letterario, come il presunto ritrovamento di un manoscritto di Dante o il leggero rumore di pagine sfogliate, in una notte di Natale. Una concezione speciale di realismo, in cui qualcosa di soprannaturale si amalgama al quotidiano, letto, interpretato, attraverso la chiave dell'humour nero e dell'ironia.

Mirta Yáñez, poeta, narratrice, saggista, ha iniziato la sua carriera di scrittrice proprio con il racconto, forma letteraria che ritiene particolarmente consona a sé: un aneddoto, o, a volte, un trabocchetto letterario che inducano alla riflessione filosofica sui temi a lei cari della comunicazione, del passare del tempo, del destino della gente comune attraverso uno stile sorvegliato e curato che sintetizza cubano e linguaggio letterario.

In Nessun richiamo dalla foresta, Yáñez mette a nudo la ferita profonda provocata nel tessuto sociale cubano dalle separazioni, più o meno volontarie, più o meno reversibili, dovute all'espatrio, alla partenza dall'isola di alcuni (non necessariamente "dissidenti") che dolorosamente decidono, o sono costretti a decidere, di andarsene, lasciandosi dietro affetti profondi, gran parte di sé e della propria vita; tema delicato e amaro per ogni cubano, che qui è affrontato da un punto di vista eccezionale e insolito, quello di un cane, il cane che la famiglia emigrando non ha potuto portare con sé.
Il registro dell'ironia, rivendicato dalla stessa autrice come cifra della propria opera, è qui estremamente rarefatto e sottile; possiamo trovarlo nel confronto improbabile fra questo anonimo cane e l'eroico Buck de Il richiamo della foresta così come nell'improvviso cambio di prospettiva e di tono, non appena la narrazione corre il rischio di avvicinarsi pericolosamente ad accenti di struggimento. Ma più che altro, forse perché l'ironia è qualità peculiarmente umana, affettuosamente ironico si mostra lo scorrere dei pensieri di Ortensia, la vecchia madre che Julia ha lasciato dietro di sé, emigrando nella lontana Argentina. Sottovoce, senza patetismi né retorica, questo racconto breve e forte evoca, e affronta, l'universale dolore di vivere.




Mirta Yáñez MIRTA YÁÑEZ

È nata a Cuba nel 1947. Poeta, narratrice e saggista ha ricevuto nel 1988 e nel 1990 il "Premio de la Crítica" e nel 2001 il "Forderpreis der Iniative LIBeraturpreis", di Francoforte. Nel 2004 è stata ospite della MEET, Maison des Écrivains Étrangers et des Traducteurs, a Saint-Nazaire. Laureatasi in Scienze Filologiche all'Università dell'Avana, dove ha insegnato per molti anni, è oggi una delle principali studiose cubane di letteratura latinoamericana del XIX secolo e di letteratura cubana contemporanea, con una particolare attenzione al mondo della narrativa femminile. Ha tenuto seminari, corsi e conferenze in varie università. Ha curato la pubblicazione di numerose antologie e raccolte di testi letterari e di critica. Diversi suoi libri sono stati tradotti all'estero.
Opere principali di poesia: Las visitas (1971), Las visitas y otros poemas (1986), Algún lugar en ruinas (1997), Un solo bosque negro (2003), Poesía casi completa de Jiribilla el conejo (1994, per bambini).
Narrativa: Todos los negros tomamos café (1976, racconti), Serafín y su aventura con los caballitos (1979, per bambini), La Habana es una ciudad bien grande (1981, racconto), La hora de los mameyes (1983, romanzo), El diablo son las cosas (1988, racconti), Narraciones desordenadas e incompletas (1997, racconti), Falsos documentos (2005, racconti).
Saggistica: El mundo literario prehispánico (in collaborazione, 1986), La narrativa romántica en Latinoamérica (1990), Una memoria de elefante (1991), Cubanas a capítulo (2000), Camila y Camila (2003), El Matadero: un modelo para desarmar (2004).

 

antonellaciabatti@virgilio.it