FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia
Numero 2
aprile/giugno 2006

Cuore d'Africa

RODOLFO HÄSLER
Il muro

a cura di Antonella Ciabatti



Il muro è da sempre simbolo di protezione e di separazione. Entrambi, desiderio di protezione volontà di separazione, nascono dalla paura; per questo, forse, la storia dell'umanità è piena di muri. Da quelli reali e concreti, che vanno dalla Muraglia Cinese al Muro di Berlino, a quelli meno visibili, ma non per questo meno pericolosi, che sono le nostre barriere mentali. Muro d'incomprensione, muro d'odio, muro d'omertà, muro di parole, muro di silenzio. Perfino noi stessi, nella totalità del nostro essere, possiamo essere muro: Ho sentito il muro della mia pelle. Io sono Io. Questa pietra è una pietra: la meravigliosa fusione che c'era stata tra me e le cose del mondo, non esisteva più... (Sylvia Plath).

Il muro di Rodolfo Häsler è un muro reale e contemporaneo. Quando nel 1989 è stato abbattuto, fra la gioia e l'entusiasmo collettivi, il muro di Berlino, abbiamo creduto o sperato che non ce ne sarebbero stati altri. Ed ecco che pochi anni dopo, nel 2002, inizia poco lontano, in Palestina, la costruzione di un nuovo enorme muro. Un muro ipertecnologico in cemento, alto 8 metri, con fossati, filo spinato, recinzione elettrificata, con numerose torri di controllo, sensori elettronici, sistemi di rilevazione termica e telecamere, e strade per le vetture di pattuglia. Un muro che divide israeliani da palestinesi, ma anche palestinesi da palestinesi, interi villaggi dalle proprie terre, ragazzi dalle scuole; un muro che alla fine misurerà 750 km. Un muro che forse proteggerà Israele dagli attacchi suicidi, ma che certamente non aiuterà un reale processo di pace.

Rodolfo Häsler, che ha studiato l'ebraico, è stato negli anni ottanta per due volte e per molti mesi in un kibbutz e conosce bene la realtà israelo-palestinese.
Ritroviamo in questi versi sensazioni e immagini di quell'epoca non poi così lontana. Ritroviamo il dolore e la fatica, ma anche i paesaggi, i colori, ricostruiti, o meglio evocati, attraverso versi brevi, un linguaggio asciutto, essenziale, un lessico spruzzato di parole di origine araba (almíbar, tahona, azorada), un fluire del discorso uniforme, senza l'interruzione ottica di una sola maiuscola.
Rodolfo Häsler va oltre il muro e crea con i suoi versi un ponte fra due culture, due mondi che in questo momento non sanno trovare punti di incontro e di comunicazione.

La selezione di poesie che qui proponiamo è tratta dalla raccolta Cabeza de ébano che sta per essere pubblicata dalla casa editrice Igitur di Barcellona.




falta aire,
respirar el aire,
fuelle de la fragua,
la población, los clavos,
el suelo desaparece
bajo las huellas,
la tierra blanca, calcárea,
se excava,
límpido olivar,
su fruto verde, negro,
el olivar y la enramada
mueren sin ser socorridos,
busca un deseo
que sea fruto borde,
un deseo de virtud
en una tierra arrasada
por la raíz de la nada,
no digas nada,
no puedes decir,
qué decir,
el olivar rugoso,
las manos tiemblan
de tanto peso muerto.
la cosecha arrancada
y aplastada,
no es así la vida,
lágrima del ojo
que no puede mentir.
dejar de existir,
¿para quién? ¿qué es?
desviar los párpados
de la colina encendida,
el joven que cava
en el huerto, sueña,
no sólo sueña,
su deber es perpetuar,
dejar la risa y el esfuerzo
en la escena del dolor,
cielo encapotado,
pero no llueve,
es niebla en el olivar.

 

la puerta de damasco,
la piedra de jaffo,
el montículo de la esperanza
hundido entre zarzas,
el fuego te lastima
con su golpe celeste,
no puedo caminar,
no hay por dónde ir,
cierra la puerta
y no escuches la voz,
sigue sin voz
un camino solitario,
una vereda torcida,
la miel se descompone
en el panal olvidado,
la reina de la estirpe
se apodera del granado.
belleza que te serena,
el pozo está seco,
brusco sobresalto
entre rocas afiladas,
huerto cerrado,
fuente sellada,
cae de un lado, del lado
que equivale a más,
un desperdicio el suelo,
muerte inútil,
cuentas lo que no tienes,
piedras que raspan,
vuelve a levantar la voz
por un trago de agua.
la vida disminuye
su fuerza donde no cabe,
una flor de hibisco
y un mazo de perejil
son el ripio,
la destrucción.

 

en la frente
se agita el tiempo,
un campo de centeno,
de pan ácimo,
pan y aceitunas,
poco más
para saciar el hambre.
el café narra los secretos,
la ausencia de los días,
la trágica prensa diaria,
mirar y esperar
y otra vez empezar.
toma arena en la mano,
el polvo de los dedos
borra la simiente,
no pierdas el compás,
un racimo tras otro
marca la proximidad del otoño,
grisácea la mirada
festeja el rito maronita.

 

la higuera hendida,
la rama se adentra
en la casa desolada,
la higuera es alta
y el fruto es dulce
como almíbar,
como almíbar de la tahona.
cómo te vas a negar,
la rama
señala al horizonte,
de donde mires
el fruto es dulce
y negro el tronco,
ojo que vuela,
sabe lo que vale.
en el cobertizo
gime la higuera,
gime y muere.

 

soledad, soledad,
no te transformes,
sigue porfiando,
es una losa
donde exclamar,
donde expresar
la extrañeza del reino
del meridión,
estar en la tierra soñada
no más que el ciclo
de una cosecha,
una siega, una hoz,
el trigal espera
tu aparición.
la flor de plata
de la pobreza
se deja adorar,
pero no dice más,
un sol, un astro,
una constelación morada
que atrapa a la noche;
no la toques,
deja la espina volar
y marcar el cuerpo
del celebrado.
el muro sentencia
la duración,
nadie se rinde
ante su recorrido,
cumplir el calendario
de un mes de vida,
la floración,
el goce diario.
tu boca saborea
la pasta de garbanzos,
el vinagre adereza
la casa de maría,
para escuchar,
ausentarse, ausentarse,
cuánta desposesión.

 

la sangre huele,
sigue su rastro
ancho, tenso,
el río cuajado
de la existencia
es una arteria
que cercenar,
sin tregua
en el viento preñado.
la sangre resbala,
húmeda, espesa
en el grito que sube
a la garganta,
caliente líquido
que asombra,
la vista azorada
la rechaza,
no hay más,
una culebra se yergue
en la punta de la cola,
dos corderos agonizan,
el betún de sus cuellos
tiene el sabor de una nube,
el poder de nombrar
para ser uno más,
el tono, la sangre,
el adiós.
reconocerla
no es lo propio,
busca el asiento,
un fresco sitial
bajo la parra,
la sangre entorpece
el labio, el paladar,
la cuchilla
se hunde certera,
no logras recordar.
anunciación repetida
semejante al duelo,
la náusea,
la sequedad,
el destino se decide
en un lugar
desollado,
sin piedad,
cercano al hueso.

 

desierto de farán

la delicadeza,
la debilidad,
lector compulsivo
de lírica oriental,
un amorío
con patas de cabra,
un tacto ralo,
una aproximación
que la mano conduce
hasta el lugar.
perdiz asada,
copioso plato,
filtro de amor.
una garza que goza
un beso.
la luz se quiebra
por la agitación,
un soldado,
una hazaña
cuida el guerrero,
la ropa
encima de la silla,
hoy no se va a ejercitar
el hijo de la chumbera,
día de asueto
que pide el señor.

manca aria,
respirare aria,
mantice di fucina,
il paese, i chiodi,
il suolo sparisce
sotto le orme,
nella terra bianca, calcarea,
si scava,
limpido oliveto,
il suo frutto verde, nero,
l'oliveto e la pergola
muoiono senza soccorsi,
cerca un desiderio
che sia frutto selvatico,
un desiderio di virtù
in una terra rasa
dalla radice del nulla,
non dire nulla,
non puoi dire,
che dire,
l'oliveto rugoso,
le mani tremano
per tanto peso morto.
il raccolto sradicato
e schiacciato,
non è così la vita,
lacrima dell'occhio
che non può mentire.
smettere di esistere,
per chi? cos'è?
sviare le palpebre
dalla collina incendiata,
il giovane che zappa
nell'orto, sogna,
non solo sogna,
il suo dovere è perpetuare,
lasciare risa e fatica
sulla scena del dolore,
cielo incappucciato,
ma non piove,
è nebbia sull'oliveto.

 

la porta di damasco,
la pietra di jaffa
il monticello della speranza
sprofondato fra le more,
il fuoco ti ferisce
col suo colpo celeste,
non posso camminare,
non c'è dove andare,
chiudi la porta
non ascoltare la voce,
continua senza voce
un cammino solitario
sentiero tortuoso,
il miele si decompone
nel favo dimenticato,
la regina della stirpe
s'impossessa del melograno.
bellezza che ti rasserena,
il pozzo è secco,
brusco sussulto
tra rocce affilate,
orto chiuso,
fonte sigillata,
resta da un lato, dal lato
che vale di più,
uno spreco il suolo,
morte inutile,
conti ciò che non hai,
pietre che raschiano,
alza di nuovo la voce
per un sorso d'acqua.
la vita diminuisce
la propria forza là dove non entra,
un fiore d'ibisco
e un ciuffo di prezzemolo
sono ciò che resta,
la distruzione.

 

sulla fronte
si agita il tempo,
un campo di segale,
di pane azzimo,
pane e olive,
poco di più
per saziare la fame.
il caffè narra i segreti,
l'assenza dei giorni,
la tragica stampa quotidiana,
guardare e sperare
e di nuovo iniziare,
prendi rena nella mano,
la polvere delle dita
cancella la semenza,
non perdere il ritmo,
un grappolo dopo l'altro
segna l'approssimarsi dell'autunno,
grigiastro lo sguardo
festeggia il rito maronita.

 

il fico ferito
il ramo s'addentra
nella casa desolata,
il fico è alto
il frutto è dolce
come giulebbe,
come giulebbe di forno.
come puoi rifiutare,
il ramo
indica l'orizzonte,
da dove guardi
il frutto è dolce
e nero il tronco,
occhio che vola,
sa quanto vale.
sotto la tettoia
geme il fico,
geme e muore.

 

solitudine, solitudine,
non trasformarti,
continua a insistere,
è una lapide
dove esclamare,
dove esprimere
l'estraneità del regno
del meridione,
stare nella terra sognata
altro che per il ciclo
di un raccolto,
una mietitura, una falce,
il campo di grano spera
la tua apparizione
il fiore d'argento
della povertà
si lascia adorare,
ma non dice di più,
un sole, un astro,
una costellazione viola
che cattura la notte;
non toccarla,
lascia che la spina voli
e segni il corpo
del celebrato.
il muro sentenzia
la durata,
nessuno si arrende
di fronte al suo percorso,
compiere il calendario
di un mese di vita,
la fioritura,
il piacere quotidiano.
la tua bocca assapora
la crema di ceci,
l'aceto prepara
la casa di maria,
per ascoltare,
assentarsi, assentarsi,
quanta privazione.

 

il sangue fiuta,
segue la propria traccia,
ampia, tesa,
il fiume rappreso
dell'esistenza
è un'arteria
da recidere,
senza tregua
nel vento gravido.
il sangue scivola,
umido, spesso
nel grido che sale
alla gola,
caldo liquido
che stupisce,
la vista impaurita
lo rifiuta,
non c'è altro,
una serpe si erge
sulla punta della coda,
due agnelli agonizzano
il bitume del loro collo
ha il sapore di una nube,
il potere di nominare
per essere uno in più,
il tono, il sangue,
l'addio.
riconoscerlo
non gli è proprio,
cerca il sedile,
un fresco seggio
sotto la pergola,
il sangue intorpidisce
il labbro, il palato,
il coltello
affonda sicuro,
non sa ricordare.
annunciazione ripetuta
simile al lutto,
la nausea,
la siccità,
il destino è deciso
in un luogo
scarnificato,
senza pietà,
fino all'osso.

 

deserto di farán

la delicatezza,
la debolezza,
lettore compulsivo
di lirica orientale,
un amorucolo
con zampe di capra,
un tocco ruvido,
un'approssimazione
che la mano conduce
fino al luogo.
pernice arrosto,
piatto abbondante,
filtro d'amore.
un airone che gode
d'un bacio.
la luce si rompe
per l'agitazione,
un soldato,
un'impresa
protegge il guerriero,
i panni
sopra la sedia,
oggi non va ad addestrarsi
il figlio del fico d'india,
giorno di tregua
voluto da dio.


traduzione di Antonella Ciabatti



RODOLFO HÄSLER

Rodolfo Häsler, è nato a Santiago de Cuba nel 1958, ma dall'età di dieci anni risiede a Barcellona. Si dedica alla traduzione dal tedesco e alla scrittura creativa. È condirettore della rivista "Poesía 080". Tra le sue ultime raccolte: Poemas de la rue de Zurich, (2000), Paisaje, tiempo azul (2001) e la plaquette Mariposa y caballo (2002). Suoi testi sono inclusi in molte antologie. In uscita Cabeza de ébano, dalla quale è tratta la sezione qui proposta: "Il muro".

 

antonellaciabatti@virgilio.it