FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia
Numero 1
gennaio/marzo 2006

Il filo spinato della memoria

INTERVISTA A RICARDO FEIERSTEIN

a cura di Sara Pagnini


Come si vive in Argentina dopo il tragico attentato contro l'AMIA (la sede della Comunità Ebraica di Buenos Aires), del 1994?

L'inconscio è, in un certo senso, generoso. Il passare degli anni fa in modo che la memoria diventi più selettiva, che dedichi meno tempo a pensare all'orrore attraversato, che si possano progettare - ancora una volta - piani di vita per il futuro. Nonostante questo, il trauma rimane. E' come se ci fosse un punto interrogativo sulla possibilità di una continuazione della storia ebraica in Argentina. Soprattutto per l'impunità vergognosa con la quale hanno operato gli assassini: dieci anni dopo non c'è nessuno che sia stato incriminato o sospettato (quando tutti sanno chi sono i responsabili politici che hanno protetto i terroristi). Oggi rimane comunque la paura, e se ci fosse un altro attentato? Inoltre, come dicono gli israeliani, "la vita non è un pic-nic".

Secondo la sua opinione, perché questo attentato ha avuto luogo?

C'è stata una serie di cause, secondo quanto si è potuto apprendere dalle indagini e dagli articoli sui giornali. Sul piano internazionale l'attentato fu una vendetta contro Israele, per la morte di un capo degli Hezbollah in Medio Oriente - essi avevano minacciato di attaccare "ogni ebreo nel mondo", un delirio che poi è divenuto una tragica realtà -; per quanto riguarda l'Argentina, la causa dell'attentato andrebbe ricercata nel desiderio di vendetta contro l'allora presidente Menem (di origine arabo-siriana), di cui avevano appoggiato finanziariamente la campagna elettorale in cambio della promessa di un reattore nucleare che Menem, però, non consegnò mai a causa delle pressioni da parte degli Stati Uniti. Si vociferò, inoltre, che si era potuto trattare di un prestito non restituito legato ad operazioni di narcotraffico. C'è comunque una buona probabilità che abbia agito anche un gruppo antisemita all'interno delle forze dell'ordine, che da decenni sono infettate da correnti filo-naziste, in cambio di svariati milioni di dollari. Si sono verificati fatti davvero scandalosi al riguardo come quello dei poliziotti che stavano di guardia e che si allontanarono dalle porte d'ingresso giusto pochi minuti prima che gli attentati, contro l'Ambasciata d'Israele (1992) e contro l'AMIA (1994), avessero luogo. Tutto questo non è mai stato indagato con la dovuta serietà.

Che sensazione prova quando pensa al fatto che il suo paese sia stata una delle nazioni che maggiormente ha accolto criminali nazisti?

L'Argentina è il paese più democratico e pluralista del mondo, che ha ricevuto e fatto integrare milioni di immigrati di tutte le nazionalità, soprattutto durante la fine del XIX secolo e le prime decadi del XX secolo. La sua legge di educazione comune per i figli degli immigrati e le sue caratteristiche di società aperta resero possibili processi esemplari di "argentinizzazione". Allo stesso tempo, è uno dei paesi che più al mondo ha accolto criminali nazisti. Nonostante si tratti di una minoranza, si sono potuti infiltrare tra le fila del potere: Forze Armate e dell'Ordine, Potere Giudiziario e Chiesa Cattolica pre-conciliare. È strano che possano coesistere queste due realtà, ma è così. Siamo un paese assolutamente contraddittorio.

Dal 1994 a oggi, ha notato un incremento dell'antisemitismo in Argentina? E, se così è, la difficile situazione economica ha influito?

L'antisemitismo argentino è endemico. Appare e scompare per ragioni molto più complesse di quelle economiche. Sicuramente la miseria porta risentimento e gli ebrei, in questi casi, ricoprono da sempre il ruolo di capro espiatorio (oggi, insieme agli immigrati peruviani, boliviani o cinesi). Però, l'antigiudaismo organizzato è utilizzato anche come mezzo politico dai gruppi di potere, per deviare lo scontento sociale su un preciso obiettivo o per altre ragioni. Al giorno d'oggi esistono leggi contro la discriminazione e un istituto ufficiale nel quale è possibile denunciare questo tipo di attacchi, di modo che la situazione, perlomeno a livello legale, è migliorata.

Come nasce e come si sviluppa il processo creativo che segue durante la stesura di un'opera letteraria o poetica?

Difficile da spiegare in meno di dieci pagine. C'è una parte dell'inconscio, misteriosa, che lavora sempre - soprattutto di notte, durante i sogni - e genera diversi "circuiti" con scene, dialoghi, sensazioni, ecc. Nella parte cosciente c'è come un'intenzione, un po' nebulosa all'inizio, che si schiarisce nel proseguire, di "circondare" un determinato tema o sensazione umana, attraverso dei personaggi che crescono con salti improvvisi (niente appare mai completo all'inizio). Un'andata e ritorno permanente lavora questo materiale letterario come se fosse argilla, facendo e disfacendo. Quasi sempre, credo, la totalità di situazioni e personaggi sono vincolati a esperienze personali o di individui che conosciamo (e che dobbiamo combinare, in funzione della trama). Al contrario, quel che risulta alla fine non è, nella mia esperienza, verosimile, ma arbitrario e pieno di convenzioni. Ciò che è personale si trasmette con più sicurezza. Per questo, la "non-fiction" è la categoria nella quale rientra la maggior parte delle mie opere. Questo per quanto riguarda i romanzi. Le poesie, invece, possono nascere di colpo, anche se in seguito subiranno infinite correzioni.

In che modo può spiegarci come intende il meticciato culturale e, in particolare, quello argentino?

Il meticciato culturale, che io avevo già preannunciato nel mio romanzo Mestizo, pubblicato nel 1988 è la conseguenza inevitabile della globalizzazione su scala planetaria, per l'avanzata delle comunicazioni, i mass-media e, soprattutto, l'apparato finanziario, con le sue imprese multinazionali che fanno affari a qualsiasi ora con un piccolo computer portatile e viaggiando in aereo. Ciò permette una mobilità incomparabile, qualcosa che i filosofi moderni come Zygmunt Bauman definiscono "modernità liquida": a differenza delle solide istituzioni e situazioni del XX secolo, al giorno d'oggi le cose fluiscono di continuo e non si compongono mai in una forma definita, proprio come accade con i liquidi (che scorrono, debordano, vanno e vengono). Sul piano culturale, le creatività "nazionali" si trovano a essere invase di continuo dal resto del mondo (immigrazioni, traduzioni, lingue che s'incrociano tra loro, colonialismo culturale, etc.). Di fronte a questa prospettiva vi sono due soluzioni: una è la Frammentazione paese per paese, ovvero l'intento di mantenere "un'anima nazionale" a tutti i costi, che spesso, alla fine, porta a scontri e massacri (come nel caso dell'ex Yugoslavia). L'altra soluzione è l'idea di Totalità, ossia, l'inevitabile riconoscimento del fatto che non esistono culture "rigide", complete, ma che tutte cambiano di continuo, partendo da un tronco comune (la storia, la lingua, il bagaglio culturale), e che si arricchiscono con l'apporto delle varie minoranze culturali. Quest'ultima soluzione è sicuramente la più saggia, ma anche la più difficile. Come arricchirsi senza perdere il cammino di un universalismo astratto? Come conservare le proprie particolarità senza impoverire la totalità? Questa è la sfida.


QUATTRO POESIE

Argentina 1983 

La esperanza es una danza
áspera e indecisa como la acción
del fuego sobre el mosaico y
no termina de elegir
si se transforma en lenguas de humo
pinceles tiznando la realidad
chíspas envainadas
que juegan de amargura en conjetura
tibios oráculos de superficie
o, animándose, ya
traspasa el frío suelo con su aguja
bisectriz entre grietas
quiebra gordas capas de concreto
hasta tomar contacto con la tierra
para un baile caliente, arborescente
y esas pequeñas llamas
generan incendios subterráneos
explósion de púberes y piedras
donde saltan los trozos por el aire
para estrechar manos que
son unión, calor, fuga de sombras
son una muesca de sol enamorado
son blando peñasco del amanecer.

  
 

*****

Nacionalidad

Nací en Buenos Aires en 1942.
Aquí ya tuve
mi primer amor, los resbalones de la lluvia
una pelea donde metí el otro en una zanja
la marcha peronista en los parlantes de la calle
cine con tres películas, barriletes asmáticos
la primera televisión que llegó al barrio
uniformes y caballos, fervor y mucha gente
la loca camiseta de San Lorenzo
tallé un corazón en el pupitre de la escuela
fui al entierro de Evita por ser mejor alumno
pude ajustar los fríos anteojos de la noche
recorrer árboles, prostitutas, ruidos, siestas
espejos de luz al brotar los ojos de mis hijos
miré al sol como un acordeón contra el crépusculo
trepar montañas, plegar amaneceres.
Llevo esta tierra en mi sangre.

Nací en Buenos Aires en 1942.

Ese mismo año
mil o cienmil o un millón o varios millones
se convirtieron en flamantes columnas de humo
ennegrecieron los cielos germanos y polacos
posiblemente muchos pero ya nunca futuros
hermanos-amigos míos estuvieron allí
también supe que fuegos rojos y alabanzas
desmoronan los caballos de la noche
una vieja historia me fue invadiendo los sentidos
dibujó un cántico azul sobre el mapa de mi ancestro
entre las venas encontré la palabra judío
la hice bailar, soñar con plumas, sembrar el viento
rodar por los caminos como una torpe arandola
para reunirse con su sal y sus temblores
y a los tropezones ando tras de ella.
Llevo este eco en mi sangre.

Nací en Buenos Aires en 1942.
Ocho días después fui circuncidado.

*****

Viejos Judíos

Sobrevivientes
golondrinas sin retorno posible
llegados desde Lodz, Odesa y Vilna
Praga y Lemberg, quizás hasta de Viena
con el cielo europeo entre los ojos
carreteles de perdido esqueleto
hechizados por algo a nuestra espalda
y buscando más allá
distraídos por su añorar de azules
huérfanos a pesar del esfuerzo
del curvo mentón hacia adelante
de temblores a veces contenidos
de vocales aprendidas que se abren
jambas de una ventana al infinito.

Son los viejos judíos
laboriosos caníbales de afecto
poetas que compartieron la historia
y las cárceles y el pan de los grandes
en un glorioso pasado, bajo
retículas de estrellas europeas
en pétalos de idish que se desgranan
como único equipaje
ya no calle ancha y gemido de carros
ya no borrachos y nieve en la ventana
ya no taberna de sillas ruidosas
ya no aquellos rabinos cabalistas
con su lenguaje de espinas y corcheas
propio, rastrillado por el día

Y también los otros:
lituanos que bordan hilos ajenos
carniceros kósher de oscura barba
y gorreros de rara profesión
mercachifles de Damasco y Estambul
matrícula de oficios judaicos
de orgullosos buzos de superficie
y todos, todos ellos
ruidosos y ágiles como delfines
deambulan por las calles porteñas
sin feca, grela, mina ni canyengue
la mano en un costado, como si recién
se percataran de haber perdido algo
en su sabiduría de inmigrantes.

Niños atornillados
a su sorda extrañeza de estar vivos
perdidos entre los guiños cómplices
de una ciudad abierta y ya sin celos
son los viejos judíos, fiel flotilla
de corsarios sin mar ni comandante
que caligrafían sus esperanzas
con ecos del espanto.
Y aquel que, en calles varsovianas
fuera un político de sutilezas
ahora empequeñece turbios negocios
o especula con sus paisanos ricos
de torpe y hemipléjica cultura
para esquivar asì los baches del hambre.

Y en verdad quién puede
no enternecerse viendo esos mástiles
que golpean con furia a ambos lados
llenos de sonidos sin energía
presagios y recetas afiladas
conmovedores congresos de ídish
sólo iluminados por recuerdos de
fuegos encendidos
en una lejana selva junto al Rhin
años atrás y ya sin combustible
radiales pasajeros de la noche
dueños, no obstante, de nuestras carencias
en los retoños hebreos de un jardín
que no hemos plantado pero amamos.

Ay, mis viejos judíos
pasaportes de apretados diptongos
de vestir extraño y ojos móviles
de caminar urgente, como si algún
cono de sombra esperara su regreso
corriendo por la máquina del tempo
con bruscos y oxidados cuchicheos
corbatas de mal nudo
entre sociedades de residentes
y sordos benefactores de asilos
que escupen de costado y encuadernan
el pulso de rencores sin sentido
abanderados de causas perdidas
siempre desubicados frente al mundo.

Buhoneros, tozudos
con su rencor y envidia que claman
ciegos, alérgicos a la alegría
tan lejanos de mí, tan sin palabras
y obstruyen el avance de lo nuevo
y oponen la historia a la aventura
y hasta se hacen odiar por su torpe
manera de ser malos
y, sin embargo, cuando pienso
en todo aquello que pudieron ser
si el viento no los hubiera arrancado
truncando un vuelo que recién nacía
cuando imagino a la tierra estéril
y a esas raíces desgajadas
ay, como os quiero, mis viejos judíos.

*****

La última batalla de los jinetes polacos

En su última carga, la caballería
polaca (jóvenes húsares, sables
y galas contra blindados) elige
su azul propia canción fúnebre:
deshacerse contra los
tanques invasores, allá en la frontera.
Muerte rómantica. ¿Quizás absurda?

Este contó, hace años, Moishe Búrej
judío orgulloso y
polaco de veinte generaciones
que huyó hacia América, desde esa
tierra bordada por antisemitas.

Y él, mi abuelo, hacia su final
adivinó el momento en que iba a irse.

Reunió mujer e hijos alrededor
se despidió de cada uno, cruzó
líneas memorables con mi abuela.

"¿Dónde me dejás?" (ella)
"¿Hacia dónde voy yo? (él).

Cabalgó hacia el horizonte y su
corazón se detuvo.

En la siguiente generación, Isaac
que de niño montaba en pelo y
soñó que podría ser granadero
partió de esa misma tierra polaca y
fue un orgulloso argentino, mi padre.

Después soportó por muchos años
una difícil, traidora enfermedad.
Luchó con valor, una batalla tras otra
con torres invasoras a la vista.

Al filo de su tiempo, ya cabalgaba
solamente para darnos el gusto:

"¿Hasta cuándo?" (sus ojos cansados)
"No te vayas, papá" (repetíamos).

Y concedía otro mes, y otro más
los últimos regalos
de un anciano jinete a sus hijos....

Así fue que, al final del recorrido
(tres días en terapia intensiva
focos, tubos, sondas, respiradores)
lo hundieron en un sueño hipnótico.
Pero también él supo decidir.

Desafió los récords de la ciencia
para que mamá, la última que faltaba
llegara a despedirse. Y después
miró lejos, espoleó el caballo y su corazón
se detuvo.

Roto por la pérdida
y vibrando de dolor como un niño
injerto las palabras, me interrogo
perplejo, entre espumas de silencio,
en qué nivel de la conciencia
uno adivina el final inminente.

Ese postrer instante de coraje
donde emprende la última
carga de caballería contra los
oscuros globulosos invasores.

Si, en definitiva,
mi propio corazón podrá retomar
esa herencia de jinetes, cuando
las metálicas narices dibujen
el horizonte, ceniza y borrador
de la batalla final que se avecina.

Pregunta inútil y sin respuesta.

Argentina 19831

La speranza è una danza
aspra e indecisa come l'azione
del fuoco sopra il mosaico e
incapace di decidere
se trasformarsi in lingue di fumo
pennelli che anneriscono la realtà
scintille inguainate
che giocano da amarezza a congettura
tiepidi oracoli di superficie
o, animandosi, già
trapassa la fredda terra con il suo ago
bisettrice tra le fenditure
spezza spessi mantelli di concretezza
fino a prendere contatto con la terra
per un ballo appassionato, arborescente
e quelle piccole fiamme
generano incendi sotterranei
esplosione di giovinetti e pietre
dove saltano i pezzi per aria
per stringere mani che
sono unione, calore, fuga dalle ombre
sono una fila di spighe raccolta dal sole innamorato
sono tenera roccia del giorno che nasce.

1 Anno delle prime elezioni democratiche, dopo
la dittatura militare.

*****

Nazionalità

Sono nato a Buenos Aires nel 1942.
Qui ho avuto
il mio primo amore, gli scivoloni sotto la pioggia
una rissa dove ho buttato l'altro in un fosso
la marcia peronista dagli altoparlanti per la strada
cinema con tre film, aquiloni asmatici
la prima televisione arrivata nel quartiere
divise e cavalli, fervore e tanta gente
la pazza maglietta del S. Lorenzo
ho intagliato un cuore sul banco della scuola
sono andato al funerale di Evita come alunno migliore
ho potuto adattare i freddi occhiali della notte
percorrere alberi, prostitute, rumori, siestas
specchi di luce nel vedere gli occhi dei miei figli
ho guardato il sole come una fisarmonica contro il crepuscolo
scalato montagne, piegato aurore.
Porto questa terra nel mio sangue.

Sono nato a Buenos Aires nel 1942.

Quello stesso anno
mille o centomila o un milione o diversi milioni
diventarono fiammanti colonne di fumo
annerirono i cieli tedeschi e polacchi
probabilmente molti ma non più futuri
fratelli-amici miei si trovavano lì
ho anche saputo che fuochi rossi e ostentazioni
sgretolarono i cavalli della notte
una vecchia storia mi ha invaso i sensi
ha disegnato un cantico azzurro sulla mia mappa ancestrale
tra le vene ho incontrato la parola ebreo
l'ho fatta ballare, sognare con piume, seminare il vento
rotolare per i sentieri come una goffa girandola
per riunirsi col suo sale e i suoi tremori
e inciampando vado dietro di essa.
Porto quest'eco nel mio sangue.

Sono nato a Buenos Aires nel 1942.
Otto giorni dopo sono stato circonciso.

*****

Vecchi ebrei

Sopravvissuti
rondini senza ritorno possibile
arrivati da Lodz, Odessa e Vilna
Praga e Lemberg, forse addirittura da Vienna
con il cielo europeo negli occhi
spole senza scheletro
stregati da qualcosa alle nostre spalle
e cercando più in là
distratti dalla loro nostalgia di azzurri
orfani nonostante lo sforzo
del mento ricurvo in avanti
di tremori a volte contenuti
di vocali imparate che si aprono
stipiti di una finestra sull'infinito.

Sono i vecchi ebrei
laboriosi cannibali d'affetto
poeti che condivisero la storia
e le carceri e il pane dei grandi
in un glorioso passato, sotto
reticoli di stelle europee
in petali di yiddish che si sfogliano
come unico equipaggio
non più strada ampia e gemito di carri
non più ubriachi e neve alla finestra
non più taverna di sedie rumorose
non più quei rabbini cabalisti
con il loro linguaggio di spine e crome,
rastrellato dal giorno.

E anche gli altri:
lituani che ricamano fili estranei
macellai kosher dalla nera barba
e scrocconi di rara abilità
ricettatori di Damasco e Istanbul
matricola di professioni ebraiche
di orgogliosi palombari di superficie
e tutti, tutti loro
rumorosi e agili come delfini
deambulano per le strade porteñas
senza caffè, sgualdrina, ragazza né balera
la mano su di un fianco, come se si fossero
appena accorti di aver perso qualcosa
nella loro saggezza d'immigranti.

Bambini abbarbicati
alla loro sorda stranezza d'esser vivi
persi tra gli ammiccamenti complici
di una città aperta e senza più gelosia
sono i vecchi ebrei, fedele ciurma
di corsari senza mare né comandante
che scrivono le loro speranze
con echi della paura.
E colui che in strade varsaviane
fu un politico di sottigliezze
rimpicciolisce adesso torbidi affari
o specula coi suoi ricchi paesani
di oscura ed emiplegica cultura
per schivare così le buche della fame.

E in verità chi può
non intenerirsi vedendo questi alberi maestri
che colpiscono con furia a entrambi i lati
pieni di suoni senza energia
presagi e formule affilate
commoventi conversazioni in yiddish
illuminate solo dai ricordi di
fuochi accesi
in un vecchio bosco vicino al Reno
anni addietro e senza più combustibile
radiali passeggeri della notte
padroni, nonostante tutto, delle nostre mancanze
nei germogli ebrei di un giardino
che non abbiamo piantato ma che amiamo.

Ahi, miei vecchi ebrei
passaporti dagli stretti dittonghi
dal bizzarro vestire e dagli occhi vigili
d'affrettato camminare, come se un
cono d'ombra stesse aspettando il loro ritorno
correndo con la macchina del tempo
con bruschi e ossidati bisbigli
cravatte dal nodo mal fatto
tra società di residenti
e sordi benefattori di ospizi
che sputano di lato e legano
il polso di rancori senza senso
portabandiera di cause perse
sempre sradicati di fronte al mondo.

Chincaglieri testardi
col loro rancore e invidia reclamano
ciechi, allergici all'allegria
così lontani da me, così senza parole
e impediscono il procedere del nuovo
e oppongono la storia all'avventura
fino a farsi odiare per il loro goffo
modo di essere cattivi
e, comunque, quando penso
a tutto quello che potevano essere
se il vento non li avesse strappati
troncando un volo che stava appena nascendo
quando immagino la terra sterile
e queste radici spezzate
ahi, quanto vi amo, miei vecchi ebrei.

*****

L'ultima battaglia dei cavalieri polacchi

Nella sua ultima carica, la cavalleria
polacca (giovani ussari, sciabole
e alte uniformi contro i blindati) sceglie
la sua azzurra canzone funebre:
disfarsi contro i
carri armati invasori, laggiù nella frontiera.
Morte romantica. Forse assurda?

Questo raccontò, tanti anni fa, Moishe Burech
ebreo orgoglioso e
polacco da venti generazioni
che fuggì in America, da quella
terra circondata da antisemiti.

E lui, mio nonno, prossimo alla fine
presagì il momento in cui se ne sarebbe andato.

Riunì moglie e figli intorno a sé
si accomiatò da ognuno, scambiò
parole memorabili con mia nonna.

"Dove mi stai lasciando?" (lei)
"Verso dove me ne sto andando?" (lui).

Cavalcò verso l'orizzonte e
il suo cuore si fermò.

Nella generazione seguente, Isaac
che da bambino cavalcava senza sella e
sognava di diventare granatiere
partì da quella stessa terra polacca e
fu un orgoglioso argentino, mio padre.

Poi, sopportò per tanti anni
una difficile, traditrice malattia.
Lottò con valore, una battaglia dietro l'altra
con file d'invasori in vista.

Allo scadere del suo tempo, cavalcava ormai
soltanto per farci piacere:

"fino a quando?" (i suoi occhi stanchi)
"non te ne andare, papà" (ripetevamo).

E concedeva un altro mese, e un altro ancora
gli ultimi regali
di un anziano cavaliere ai suoi figli....

Fu così che, alla fine del tragitto
(tre giorni in terapia intensiva
analisi, tubi, sonde, respiratori)
lo sprofondarono in un sonno ipnotico.
Ma anche lui seppe decidere.

Sfidò i record della scienza
per far sì che mamma, l'ultima che mancava
arrivasse a congedarsi. E poi
guardò lontano, spronò il cavallo e
il suo cuore si fermò.

Spezzato dalla perdita
e tremando dal dolore come un bambino
innesto le parole, mi interrogo
perplesso, tra schiume di silenzio,
a che livello della coscienza
s'indovina la fine imminente.

Quest'ultimo istante di coraggio
in cui s'intraprende l'ultima
carica di cavalleria contro gli
oscuri globulosi invasori.

Si, forse,
il mio cuore potrà riprendere
questa eredità di cavalieri, quando
le metalliche narici disegnino
l'orizzonte, cenere e brutta copia
della battaglia finale che si avvicina.

Domanda inutile e senza risposta.


Ricardo Feierstein RICARDO FEIERSTEIN

Ricardo Feierstein è nato a Buenos Aires l'8 agosto del 1942, da una famiglia ebrea di origine polacca. Fin dai primi anni '60 ha iniziato a militare all'interno di associazioni progressiste e pacifiste ispirato da "l'immaginazione al potere" degli studenti del "Maggio francese". Ciò che ha maggiormente contraddistinto la generazione di Feierstein è stato l'impegno politico, a sua volta profondamente influenzato dalla filosofia esistenzialista di Jean Paul Sartre. A tutto ciò Ricardo Feierstein lega il concetto di Totalità in opposizione a quella che è diventata la Frammentazione della cultura e dell'esistenza. Dopo aver partecipato all'esperienza d'impegno politico in Argentina, è entrato a far parte del movimento pionieristico (Halutziano) e, subito dopo aver conseguito la laurea in architettura, è partito con la sua famiglia alla volta d'Israele, dove ha vissuto in un kibbutz ai piedi delle alture del Golan, vicino al confine siriano. E' rimasto in Israele anche durante la guerra di Yom Kippur e solo qualche tempo dopo, in seguito a vicende familiari, ha fatto ritorno in Argentina. A Buenos Aires ha dovuto ben presto scontrarsi con la terribile realtà politica e sociale della dittatura militare e del genocidio da questa messa in atto.
Il tema centrale delle sue opere, siano esse poesie, romanzi o saggi, è sempre stato lo studio dell'identità ebraica nel suo paese, riuscendo a esprimere il senso profondo dell'appartenenza a una duplice cultura: nel caso specifico, quella argentina e quella ebraica. La visione che Feierstein ha dell'ebraismo è moderna e assai aperta. La sua è una personalità estroversa, qualità ampiamente riscontrabile nelle sue opere, sempre pervase da riferimenti autobiografici.
Egli ha raccontato le vicissitudini della generazione ebreo-argentina in cinque romanzi: i primi tre compongono una trilogia intitolata Sinfonía Inocente (1984), in relazione alla condizione basica dei bambini, l'innocenza appunto, che la maggior parte delle persone perde o abbandona quando cresce. Negli ultimi due romanzi l'autore focalizza l'attenzione sulla cultura multi-etnica argentina, in particolare quella ebraica, e su quello che sarà il suo futuro; è ciò che viene ampiamente analizzato in Mestizo (1988) e in La logia del Umbral (2001). Ha inoltre pubblicato numerose raccolte di poesia (l'ultima delle quali, Las Edades/The Ages, edita negli Stati Uniti), e saggi riguardanti la società ebraica argentina. Nel settembre 2005 ha tenuto una conferenza presso l'università di Saarbrucken sul linguaggio dei fumetti: "Stereotipi e razzismo nel fumetto argentino". Le sue opere sono state parzialmente tradotte negli Stati Uniti, in Germania, Francia e Israele. In Italia è ancora del tutto inedito.

 

sara.pagnini@virgilio.it