1.
Come in tutti gli ambiti dell’agire umano, anche nel campo letterario è possibile sviluppare cordiali antipatie. Per quanto mi riguarda, in cima alle mie idiosincrasie è saldamente in testa il poeta inglese Ted Hughes, marito e poi erede della proprietà letteraria di Sylvia Plath, una delle maggiori poetesse del Novecento.
È impossibile racchiudere in una definizione esauriente l’opera di questa autrice. Nella sua poesia, che raggiunge vertici inauditi di libertà espressiva e ferocia verbale, si manifestano, in modo viscerale e concettuale al tempo stesso, l’amore per la scrittura, il desiderio di eccellere, il dolore per l’amore deluso, le patologie psichiatriche, l’orgoglio intellettuale, l’affermazione del sé contro la cultura patriarcale e la condizione femminile del suo tempo, la voluttà dell’ultimo viaggio, il gioco con la morte di un io quanto mai creativo, perfezionista e autodistruttivo.
Sylvia Plath, nata a Jamaica Plain, sobborgo di Boston, il 27 ottobre 1932, si suicidò in una casa londinese l’11 febbraio 1963, ad appena trent’anni. Il tragico gesto, scrisse l’amico e critico letterario Alfred Alvarez, «fu la risposta a un grido d’aiuto rimasto inascoltato». Quel grido era risuonato nella casa di Sylvia alcuni mesi prima, quando aveva scoperto che l’amato coniuge Ted Hughes la tradiva con una donna pluridivorziata e spregiudicata, e che il progetto di vita in cui aveva fermamente creduto si era rivelato una dolorosa illusione.
A dispetto di inevitabili sensi di colpa, Hughes cercherà più volte di sminuire le responsabilità per il suicidio della moglie. Non solo: come vedremo, avrà un atteggiamento controverso anche con il legato letterario della poetessa Plath, per un verso promuovendo la sua opera, per un altro manipolandola a proprio vantaggio.
Sylvia Plath, finalizzando un eccezionale curriculum scolastico, impreziosito da numerosi premi in concorsi studenteschi e letterari, si era laureata summa cum laude il 6 giugno 1955 presso lo Smith College di Northampton, Massachusetts. Venti giorni prima le era stata concessa la prestigiosa borsa di studio Fulbright Fellowship per il Newnham College dell’Università britannica di Cambridge, che aveva raggiunto il 1° ottobre 1955.
Quando nel febbraio dell’anno successivo la brillante studentessa americana conosce Ted Hughes, beniamino dell’Università e talento poetico già molto apprezzato, scrive di getto alla madre Aurelia Schober: «Ho incontrato l’uomo più forte del mondo, laureato a Cambridge, straordinario poeta i cui lavori ho amato ancor prima di incontrarlo, un grande, possente, prorompente Adamo, mezzo francese e mezzo irlandese, con una voce simile al tuono di Dio – un cantore, un narratore, un leone e un giramondo, un vagabondo che non si fermerà mai».
La sintonia fra il “colosso” fisico e intellettuale e la ragazza che sogna di diventare una star della letteratura, iscritta nei comuni interessi, è immediata, come dimostra l’episodio chiave del loro primo, vero incontro. Durante il party di inaugurazione di una rivista studentesca, in un clima chiassoso e bohémien esaltato da musica jazz, ballate irlandesi e alcool, i due giovani si danno ad alcune schermaglie “poetiche”; poi Ted, all’improvviso, stampa un bacio in bocca a Sylvia, e le sottrae gli orecchini e la fascia rossa intorno ai capelli. Ma quando la bacia di nuovo sul collo, lei lo morde con forza, sino a fargli colare il sangue da una guancia.
Il senso di quell’iniziale, euforico approccio è ben definito in Red Comet – The short life and blazing art of Sylvia Plath, monumentale biografia a opera di Heather Clark pubblicata nel 2021. Vi compaiono, afferma la studiosa, due elementi che caratterizzeranno l’intera relazione fra Hughes e la Plath, ovvero il profondo interesse per la poesia e l’inclinazione per quella “violenza positiva” che entrambi riconoscevano come forza vitale e liberatrice. Nei gesti teatrali di quell’incontro si affacciano, neppure troppo velatamente, diverse influenze letterarie, da Emily Brontë a David Herbert Lawrence, da William Butler Yeats a Dylan Thomas. Plath e Hughes, afferma Heather Clark, vedranno presto, l’uno nell’altro, l’incarnazione di un criterio estetico non meno che una persona reale.
La relazione sentimentale è densa di iniziative appassionanti e costruttive: insieme fanno lunghe passeggiate nei boschi, si scambiano brani e citazioni colte, leggono e commentano poesie. Ted, nato il 17 agosto 1930 nel piccolo villaggio inglese di Mytholmroyd, è cresciuto nella campagna dello Yorkshire occidentale; grazie a lui, Sylvia viene a contatto con la vita degli animali, approfondisce le conoscenze letterarie, è stimolata a migliorare le proprie doti poetiche. Nell’aprile 1956 scrive alla madre: «Sento una forza che cresce. (…) Tutto si riunisce in una gioia incredibile. Non riesco a smettere di scrivere poesie!».
A sua volta, Ted è attratto dall’esuberanza, dalle qualità intellettuali, dalle ambizioni di Sylvia. Esattamente quattro mesi dopo il loro incontro, il 16 giugno 1956 (hanno scelto il Bloomsday, il giorno in cui avvengono le peregrinazioni di Leopold Bloom nell’Ulisse di Joyce), Ted Hughes e Sylvia Plath si uniscono in matrimonio a Londra.
Il viaggio di nozze ha come meta la Spagna; nel villaggio di Benidorm – scrive Anna Ravano, curatrice del Meridiano Mondadori dedicato alle opere della Plath – Ted e Sylvia scoprono una «sintonia perfetta nella vita a due: hanno gli stessi ritmi, gli stessi gusti, le stesse esigenze». In effetti, i primi anni di matrimonio, nonostante qualche difficoltà economica, trascorrono in un’esaltante complicità e interdipendenza. Nel febbraio 1957 Ted vince il premio del New York Poetry Center con le poesie di The Hawk in the Rain, e Sylvia esterna la sua gioia per il fatto che il marito l’abbia preceduta nella pubblicazione di un libro: «Sarà molto più facile per me quando sarà accettato il mio, di libro (…) perché allora potrò rallegrarmi molto di più, sapendo che Ted è avanti a me».
Fra viaggi avventurosi, trasferimenti di residenza, cambi di lavoro, esperienze estemporanee, Sylvia si convince che la letteratura sia la strada maestra per dare un senso alla sua vita. Gli anni 1958 e 1959 vedono alternarsi soddisfazioni (come la pubblicazione sul New Yorker di alcune liriche) e cocenti delusioni (il suo libro di poesie, cui ha mutato più volte il titolo, viene respinto da diversi editori). Nel febbraio 1960, con Sylvia incinta di sette mesi, gli Hughes prendono in affitto un appartamento a Londra, in Chalcot Square, nei pressi di Primrose Hill; la casa è piccola, ma pulita e luminosa, «come stare in un villaggio», scrive lei, «ma a minuti dal centro di Londra».
Sempre a febbraio, arriva un’altra gioia: Sylvia firma il contratto per la silloge poetica The Colossus and Other Poems; chi la incontra in quei giorni, scrive Linda Wagner-Martin, autrice dell’appassionata biografia Sylvia Plath (1999), la trova «raggiante di vita e di allegria».
Il 1° aprile 1960 nasce la figlia Frieda Rebecca, e Sylvia sembra adattarsi perfettamente al ruolo di madre oltre che a quello di moglie; ogni tanto, però, il suo lato nevrotico e possessivo torna ad affiorare e a spaventarla; all’età di ventun anni, a causa di un forte esaurimento nervoso, Sylvia aveva tentato il suicidio e subìto due cicli di terapia elettroconvulsiva.
Nel gennaio 1961, con sua moglie di nuovo incinta, Ted scrive a Moira Doolan, responsabile dei programmi della BBC per la scuola, proponendole una trasmissione radiofonica per studenti. Interessata al progetto, la Doolan telefona a Chalcot Square, per fissare con Hughes un pranzo di lavoro per i primi di febbraio; a rispondere al telefono è Sylvia, che si sorprende nell’udire dall’altra parte una voce irlandese. Il particolare è sufficiente per farle sospettare una tresca, e quando Ted, registrata la trasmissione, tarda un quarto d’ora a tornare a casa (due ore secondo Sylvia), lei strappa gli scritti e gli appunti del marito.
Ted dirà che non portò rancore a sua moglie per il gesto che a ragione definirà “inconsulto”; ma come emerge dalla biografia della Clark, nel 1974, tornando a parlare dell’episodio con Frances McCullough, editrice di una parte dei Diari della Plath, Ted confessò che in occasione degli scoppi d’ira in cui Sylvia rivelava il suo «lato demoniaco, distruttivo, come una nera elettricità», egli usava schiaffeggiarla per cercare di farle sbollire la rabbia.
La versione di Sylvia sulla reazione di Ted e le conseguenze che potrebbe aver comportato era arrivata molti anni prima. Il 6 febbraio 1961, la Plath aveva avuto un aborto spontaneo, annunciato alla madre con una lettera che portava la stessa data e dove non faceva cenno al litigio col marito. Ma in una missiva posteriore, datata 22 settembre 1962 e indirizzata alla psicologa e sua ex analista Ruth Beuscher, Sylvia era diventata più loquace sul vecchio episodio: scriveva di aver strappato, ma a metà, gli scritti di Ted, il quale aveva reagito picchiandola; un paio di giorni dopo, lei ebbe un improvviso aborto («Ted beat me up physically a couple of days before my miscarriage»).
A metà luglio del 1961, quando da qualche mese ha iniziato a scrivere il romanzo che verrà intitolato The Bell Jar (La campana di vetro), Sylvia è in viaggio con Ted nel sud dell’Inghilterra. Lei ha sempre desiderato abitare in una casa immersa nella campagna, e la graziosa proprietà con ampio giardino di Court Green, nel villaggio di North Tawton, nel Devon, sembra perfetta per lo scopo.
Gli Hughes lasciano Londra con grande entusiasmo per la nuova vita che li attende; la casa londinese di Chalcot Square viene subaffittata a David e Assia Wevill (nata Gutmann), una coppia che entra subito in sintonia con gli Hughes. Sylvia ignora che quel fatto casuale e apparentemente innocuo – un appartamento dato in affitto – segnerà l’inizio di un dramma che sfocerà nel gesto più estremo che un essere umano possa commettere.
Nell’incantevole dimora in pietra e tetto di paglia di Court Green, circondata dal verde e adornata da un meleto, alberi di ciliegie e cespugli di more e lamponi, Sylvia e Ted si danno con gioia a lavori di ristrutturazione e abbellimento; lei parla a un’amica di una «felicità paradisiaca», anche perché, oltre a scrivere e pubblicare alcune poesie, il 30 ottobre firma il contratto per la pubblicazione del suo romanzo con la casa editrice londinese Heinemann.
Il 1962 si apre lietamente per Sylvia, che il 17 gennaio partorisce il secondogenito, un maschietto cui verrà imposto il nome di Nicholas Farrar. Tuttavia, provata dalle cure per i bambini e dal duro inverno inglese, Sylvia anela l’avvento di una primavera che tarda ad arrivare. La sinusite, l’isolamento sociale e intellettuale, i frequenti viaggi di Ted a Londra per registrare programmi per la BBC, le prime tensioni coniugali, la fanno cadere in una lieve depressione.
Il 18 maggio David Wevill e sua moglie Assia, donna affascinante con ascendenze ebraiche, russe e tedesche, sono a Court Green per trascorrere un fine settimana con la famiglia Hughes. Come entrambi confesseranno anni dopo, l’attrazione fra Ted e Assia è immediata; Sylvia inizia a sospettare qualcosa, e dopo la partenza dei Wevill scrive due poesie sconvolgenti, The Rabbit Catcher e Event.
Il 9 luglio Sylvia si reca nella vicina cittadina di Exeter per fare delle compere; a sua madre, che l’ha raggiunta dall’America, dichiara di avere tutto ciò che aveva sempre desiderato dalla vita. Ma al rientro a casa, rispondendo al telefono, riconosce la voce di Assia, che si spaccia per un uomo e chiede di Ted. Sylvia strappa il filo del telefono, prende con sé il piccolo Nicholas e va a sfogare la sua disperazione dagli amici Elizabeth e David Compton. Piange, dice che non può più allattare il suo bambino, che Ted «è diventato un uomo piccolo», che le mente, ama un’altra, e lei sa che è Assia. E poi, le parole più amare: «Quando dai a qualcuno tutto il tuo cuore e lui non lo vuole, non puoi riprenderlo indietro. Se n’è andato per sempre».
Nonostante ciò, nei mesi successivi gli Hughes viaggiano insieme a Londra, nel Galles e poi in Irlanda. Ma dall’Irlanda Sylvia torna da sola; arrivata a Court Green trova un telegramma di Ted, spedito da un indirizzo londinese, nel quale le annuncia che sarebbe stato di ritorno dopo una o due settimane. In realtà, come Sylvia verrà a sapere successivamente, Ted è partito con Assia per la Spagna, dove trascorrerà 10 giorni, rientrando a Court Green a fine settembre.
Nulla ormai può sanare un rapporto che sta andando in frantumi; dopo alcune titubanze, dietro consiglio della sua psicologa Ruth Beuscher, di Aurelia e dell’amica e protettrice Mrs Olive Higgins Prouty, Sylvia si reca a consulto da un avvocato, decisa a divorziare. Accusa Ted di immaturità, di avarizia, di violenza psicologica, di aver chiamato il piccolo Nicholas «un usurpatore». Ted, a sua volta, scrive di essere strangolato dall’amore di Sylvia e «inorridito» nel constatare quanto abbia dovuto confinare, a causa di lei, la propria esistenza; reclama una maggiore libertà, vuole vivere la dimensione erotica della vita, che – sostiene – rappresenta uno stimolo per la sua attività artistica.
In quella temperie, mentre inizia a pensare a un trasferimento a Londra per ricostruirsi una vita sociale e intellettuale all’altezza delle sue aspettative, Sylvia viene presa da un furore creativo che nel giro di un paio di mesi – l’ottobre e il novembre del 1962 – si concretizza nella composizione di trentanove poesie; tra di esse, le gemme di The Applicant, Daddy, Lady Lazarus, Ariel. La scrittrice e traduttrice Nadia Fusini, nella Prefazione del Meridiano Mondadori citato, parla di poesie che «rilasciano bollettini autodistruttivi di sempre crescente grandezza. Esprimono pensieri che si confondono con le allucinazioni, accostandosi così, con enigmatiche, perentorie comunicazioni, al cuore della sofferenza».
Nelle lettere alla madre, pur senza i toni gioiosi di un tempo, Sylvia rivela: «Scrivo come una pazza – sono arrivata a una poesia al giorno prima di colazione. Tutte poesie da libro». E ancora: «Sono una scrittrice di genio: ce l’ho dentro. Mi sveglio alle 5 e sto scrivendo le poesie migliori della mia vita: mi daranno la fama». È quello che effettivamente accadrà; ma sarà, purtroppo, una gloria postuma.
Il trasferimento a Londra è ormai inevitabile; la ricerca di una casa si risolve nell’affitto di un appartamento al n. 23 di Fitzroy Road, dove anni prima ha dimorato William Butler Yeats, uno dei poeti preferiti di Sylvia.
Il 19 novembre comunica alla madre di aver terminato il secondo libro di poesie, al quale, dopo alcuni tentennamenti, dà il titolo di Ariel. Il 12 dicembre Sylvia Plath abbandona il Devon e si trasferisce con i bambini nel nuovo appartamento, scoprendo che è privo di gas, elettricità e allaccio telefonico. Quando le fa visita l’amico e critico letterario dell’Observer Alfred Alvarez, la trova cambiata, con i capelli lunghi e sciolti che formano «come una tenda, dando al suo viso pallido e alla sua figura emaciata una curiosa aria desolata e rapita, come di una sacerdotessa svuotata dai riti del suo culto».
Il 1963 arriva con il gennaio più freddo degli ultimi centocinquant’anni. Ne risentono tutti i servizi, e Sylvia deve pensare a come scaldare la casa, lavare, cucinare. Perde peso, i bambini si ammalano e hanno la febbre alta per più giorni, ma il 14 gennaio la scrittrice può festeggiare la pubblicazione di The Bell Jar (La campana di vetro) romanzo per il quale ha dovuto utilizzare lo pseudonimo di Victoria Lucas; i riferimenti ad alcuni amici sono piuttosto scoperti, ma, soprattutto, la madre della protagonista ricorda troppo Aurelia Schober.
Il libro ottiene consensi significativi in quasi tutte le testate inglesi più importanti; il recensore del Times Literary Supplement parla di una narrativa convincente, e Laurence Lerner, su The Listener, elogia il «trionfo» del linguaggio in un libro «brillante e commovente». Tuttavia, avendo sperato che il romanzo potesse diventare un best seller, Sylvia non può esultare; ad aggravare la delusione, i rifiuti degli editori Knopf (28 dicembre) e Harper & Row (metà gennaio 1963) di pubblicare The Bell Jar negli Stati Uniti, traguardo che rivestiva una particolare importanza per l’autrice. A detta della madre Aurelia, il rigetto degli editori americani segna un punto di svolta; l’equilibrio mentale di Sylvia, già scosso a fine dicembre, peggiorerà sensibilmente nel gennaio 1963.
Sintomatico dello stato della scrittrice è quanto accade in occasione dell’apparizione sull’Observer del 27 gennaio 1963 della positiva recensione del romanzo da parte del romanziere e critico letterario Anthony Burgess. Infatti, accanto al commento di Burgess compare la poesia di Ted Hughes Full Moon and little Frieda. Sylvia – testimonia il vicino di casa Thomas Trevor – reagisce con rabbia verso il marito, «laggiù con i nostri amici, a ricevere le loro congratulazioni per la sua poesia, al centro dell’ammirazione, libero di andare e venire come vuole, mentre io sono prigioniera in questa casa, incatenata ai bambini».
Ma Ted Hughes aveva fatto di peggio: il 21 gennaio la BBC aveva trasmesso via radio (per replicarla poi il 9 febbraio) la sua commedia Difficulties of a bridegroom. Melodrammatica, piena di metafore esagerate e di simboli (vi compaiono due donne, una delle quali rappresenta la lussuria, l’altra la castità), l’opera – che la Clark definisce «infame» – contribuisce a umiliare la già depressa Sylvia, che vi scorge una chiara allusione alla definitiva conclusione del suo matrimonio.
Nei primi giorni di febbraio inizia la discesa verso l’abisso: Sylvia è prostrata, non dorme, abusa di barbiturici e altri medicinali, è preda di incubi. L’aiuto del suo medico, il dottor John Horder, e degli amici Jillian e Gerry Becker, è sollecito e costante, ma non può risollevarne le sorti.
La biografia di Heather Clark ci permette di far luce sulle ultime ore della poetessa, su alcune delle questioni sollevate dal suicidio, e sui comportamenti e le reazioni delle persone che più le furono vicine nei giorni conclusivi della sua vita.
Nella notte di domenica 10 febbraio, alle 11.30 circa, Sylvia bussa alla porta di Trevor Thomas, che abita nell’appartamento sottostante, e gli chiede dei francobolli, insistendo per pagarli subito, «altrimenti non si sarebbe sentita a posto con la sua coscienza dinanzi a Dio». Thomas la trova «strana, in uno stato di alterazione come da farmaci o droghe, e lontana, fuori dal mondo». Di sicuro, Sylvia ha in corpo un antidepressivo, un sonnifero composto da un barbiturico e da un’anfetamina, un farmaco per i problemi respiratori a base di codeina e il vino rosso che ha bevuto a pranzo, a casa dei Becker.
Thomas sente i passi di Sylvia sino alle prime ore del mattino dell’11 febbraio, dopodiché si addormenta. Secondo la ricostruzione della Clark, fra le 6.30 e le 7 Sylvia deposita del latte e un po’ di pane e burro nella stanza dei bambini, apre le finestre, copre i piccoli con altre coperte e sigilla le fessure della porta. All’ingresso dell’appartamento, appuntato sulla carrozzina del figlio, lascia un pezzo di carta sul quale ha scritto, in lettere maiuscole, le sue ultime parole: “PLEASE CALL DR HORDER AT PRI 3804”.
Rientrata in cucina, tappa le fessure della porta e della finestra con tovaglie da tè e alcuni indumenti, poi gira la manovella del gas, si sdraia sul pavimento e posa la testa sullo sportello del forno.
Morire
è un’arte, come qualunque altra cosa.
Io lo faccio in modo magistrale,
lo faccio che fa un effetto da impazzire
lo faccio che fa un effetto vero.
Potreste dire che ho la vocazione.
(da Lady Lazarus)
La mattina dell’11 febbraio, Myra Norris, la baby sitter che deve prendere servizio proprio quel giorno, suona il campanello senza ricevere risposta. Assicuratasi che l’indirizzo sia giusto, si fa aprire il portone da alcuni operai che lavorano nei pressi dello stabile. Non appena entrata, la donna sente l’odore del gas, sale di corsa le scale e si trova dinanzi a una scena terribile: Sylvia giace immobile sul pavimento, la testa sullo sportello del forno, reclinata su un panno piegato. Mentre la babysitter tenta di rianimarla, vengono chiamati il dottor Horder e un’ambulanza, che arrivano immediatamente. Purtroppo, l’avvelenamento da monossido di carbonio ha già sortito i sui effetti: Sylvia Plath è dichiarata morta nello University College Hospital di Londra alle 11.45 dell’11 febbraio 1963.
Intanto, le amiche Jillian Becker e Suzette Macedo, subito avvertite dal dottor Horder, si sono prese cura dei bambini; è arrivato anche Ted, che nelle ore in cui Sylvia metteva in atto il suo gesto era nelle braccia di Susan Alliston, relazione che coltivava insieme a quella con Assia Wevill.
Dopo aver identificato formalmente il corpo di Sylvia, Hughes si reca dai Macedo; appare sconvolto, ma a Helder Macedo non trova di meglio da dire se non: «Ascolta, o lei o me».
«Astonishing phrase», commenta la Clark; e tuttavia, sono parole che Hughes ripeterà più volte nei giorni successivi.
Il dì seguente, 12 febbraio, il neo vedovo annuncia il decesso di sua moglie a Dorothy Schober, sorella di Aurelia, con un breve telegramma: «Sylvia è morta ieri». A caldo, parlando con varie persone, fra le quali sua sorella Olwyn, Hughes si addossò la colpa della tragedia; dirà anche che aveva parlato con Sylvia di una possibile riconciliazione (tesi cui Frieda Hughes continua a dare credito). In altre occasioni cercherà invece di attenuare in vari modi le sue responsabilità, ciò che mi pare in linea col personaggio e le sue ambiguità, il suo lato “oscuro” (Helder Macedo), “scandaloso” (Jonathan Bate, uno dei suoi biografi) e “venato di una certa crudeltà” (Daniel Huws, suo grande amico).
2.
Perché Sylvia Plath si suicidò? Alla base si situano certamente la fragilità psichica e i cedimenti nervosi che segnarono penosamente la sua esistenza; come abbiamo visto, Sylvia aveva già tentato di togliersi la vita.
Impossibile non rifarsi anche al troppo che si agitava in lei sin da bambina: troppo sensibile, troppo vogliosa di veder riconosciute le sue straordinarie qualità, di eccellere nelle discipline che amava, di attingere la gloria letteraria. È quanto conferma la compianta scrittrice Stefania Caracci nel breve e intenso Sylvia Plath, i giorni del suicidio (2001): «Certo che la sua ossessiva considerazione che la vita non avesse senso viverla, se non fosse possibile tradurla in scrittura, l’ha senz’altro condotta verso esperienze al limite, dove arte e vita si identificano, e l’artista si sdoppia, fino a volersi liberare definitivamente del sé fisico, privilegiando il poeta».
Non è neppure escluso, come pensarono dopo il suicidio le intime amiche Catherine Frankfort e Lorna Secker-Walker, che Sylvia stesse soffrendo di una depressione post partum.
C’è da aggiungere che l’inverno del 1962-63 è ricordato come il più freddo del secolo. Dal 24 dicembre, la neve cadde per giorni; le strade erano trasformate in piste di ghiaccio, la corrente elettrica subiva continue interruzioni, l’acqua gelava nelle tubature.
Detto questo, i fattori preponderanti nella discesa di Sylvia verso l’abisso appaiono altri: la dolorosa separazione con Ted, la prospettiva di dover crescere i figli senza un uomo accanto, le preoccupazioni di natura economica, le precarie condizioni di vita.
Nella settimana precedente il suicidio, ogni persona che la vide la descrive come sfasata, assente, preda di continui sbalzi di umore e incapace di prendersi adeguata cura dei figli.
Un ultimo dato è da tenere in considerazione: sappiamo che il dottor Horder le aveva trovato un posto per lunedì 11 febbraio presso una struttura psichiatrica pubblica, l’Halliwick Hospital; la prospettiva aveva sicuramente spaventato Sylvia, terrorizzata dai “mental hospitals”. Verosimilmente, essa venne a conoscenza della decisione del medico nella mattina di venerdì 8 febbraio; forse fu quella rivelazione a spingerla verso un ultimo, disperato contatto con suo marito. Infatti, Hughes testimonia di aver ricevuto, nel pomeriggio dello stesso 8 febbraio, una brevissima nota di Sylvia. Nell’abbozzo di una sua poesia non datata e mai pubblicata, che aveva intitolato Ultima lettera, Hughes lascia intendere che le ultime parole dello stringato messaggio alludessero a un possibile suicidio: «Goodbye / My darling love goodbye I am finishing / Everything».
Sull’episodio abbiamo il resoconto steso da Hughes subito dopo la morte di sua moglie. Egli scrive che dopo aver ricevuto la breve comunicazione si precipitò a Fitzroy Road e chiese a Sylvia cosa significassero quelle parole. Lei, fredda e ostile, avrebbe strappato la nota, bruciato i pezzi in un portacenere e intimato a Ted di andarsene. Hughes aggiunge che era anch’essa in procinto di uscire, ma che non poté mai appurare dove fosse diretta.
La versione di Hughes ha un potenziale riscontro: nel pomeriggio dell’8 febbraio, tornato dal lavoro, Thomas trovò la porta d’ingresso dello stabile insolitamente aperta. Un’ora più tardi vide Sylvia seduta nella sua macchina, pallida, lo sguardo fisso nel vuoto; Thomas le chiese se stesse bene, e lei rispose: «Sto per fare una lunga vacanza, un lungo riposo».
Esposti i fatti, una domanda appare cruciale e imprescindibile: Sylvia Plath sarebbe arrivata al gesto estremo se il marito non avesse ceduto al fascino di una donna priva di scrupoli, che aveva programmato di sedurre Ted, come confidò al supervisore dell’Agenzia pubblicitaria per cui lavorava? (Com’è noto, la fine di Assia Wevill non fu meno drammatica. Schiacciata dal confronto con la Plath, biasimata dalla società londinese per averle sottratto il marito, insicura dell’amore di Ted, il 23 marzo 1969 Assia Wevill si suicidò con le stesse modalità di Sylvia, trascinando nella morte Alexandra, detta “Shura”, la figlia che aveva avuto da Hughes).
La mia risposta, che è anche una risposta a chi minimizza le colpe di Ted Hughes (per esempio rifacendosi al suo io istintivo e quasi animalesco di novello Heathcliff e di cultore della mitologia e della Cabbala) è che Sylvia non avrebbe posto fine ai suoi giorni se avesse continuato ad avere accanto il marito che amava e che l’aveva ingannata, facendole scoprire che neppure la poesia può salvare quando nella parola non rimane che il sentimento dell’odio e dell’impotenza.
Una drammatica lettera in data 24 settembre 1962, diretta alla madre, mostra tutta la delusione e la rabbia per il triste epilogo del suo matrimonio: «Ho investito tutto ciò che avevo nella nostra vita insieme, senza riserve, tutti i miei guadagni, e adesso lui è a posto (…) È un vampiro che è entrato nella mia vita, uccidendo e distruggendo tutto».
Sylvia è chiaramente sconvolta, e qui esagera; Ted, fino a quando non ha iniziato a tradirla, ha fatto molto per lei dal punto di vista letterario, sentimentale e umano. Ma la collera espressa da Sylvia è diretta anche verso se stessa, per aver giudicato in modo sbagliato l’uomo cui aveva unito il suo destino. Si stenta a credere che il «prorompente Adamo» che aveva sposato sia lo stesso di cui parla nella lettera alla madre del 16 ottobre 1962: «(Ted e Assia) già si chiedono perché non mi sono ancora suicidata, visto che ci ho già provato!».
Heather Clark si chiede se accuse di una tale gravità siano attendibili; è un fatto che Sylvia, scrivendo al fratello Warren il 18 ottobre, ripete che «Ted sta cercando di strumentalizzare il mio esaurimento nervoso e mi dice che gli farebbe comodo che fossi morta». Sempre il 18 ottobre, nella lettera indirizzata alla sua protettrice di sempre, Mrs. Prouty, conferma che Ted avrebbe voluto che lei si uccidesse; e il 21, alla dottoressa Beuscher, scrive che «Ted mi ha detto apertamente che mi vuole morta, che sarebbe una cosa conveniente… Era furioso perché io non mi fossi suicidata, diceva che era sicuro che l’avrei fatto».
Frasi del genere minerebbero la stabilità emotiva e psicologica di qualsiasi persona; è opportuno precisare che in quei giorni la Plath, pur prostrata e delusa, era nel pieno delle facoltà mentali, e non c’è motivo per dubitare della sua sincerità.
Naturalmente, sul suicidio della moglie Ted Hughes ha le sue spiegazioni, grossolanamente prosaiche in verità: il fattore decisivo sarebbe legato a The Bell Jar, le cui contrastanti vicende editoriali avrebbero condotto Sylvia ad assumere i farmaci che l’avrebbero perduta. In particolare, in una lettera del 1986 diretta ad Anne Stevenson (autrice di una controversa biografia della Plath), Hughes ipotizza che il sonnifero prescritto dal dottor Horder fosse «il fattore chiave nella morte di Sylvia, il fattore meccanico». Riferendosi a ciò che ricordava di aver letto nelle pagine del diario della moglie da lui distrutte, Hughes parla del possibile uso errato di un antidepressivo anfetaminico al quale Sylvia sapeva di essere allergica, ma che assunse perché commercializzato in Inghilterra con un nome diverso da quello americano. Più precisamente, Hughes si riferiva al «terribile intervallo» che correva tra il momento in cui una pillola perdeva il suo effetto e l’azione della successiva; è in uno di tali intervalli che la moglie avrebbe messo in atto il suo gesto.
Concesso che l’assunzione di due anfetaminici, un oppioide, un barbiturico e il farmaco per il raffreddore abbia avuto la sua parte, non si può non rimarcare che assai prima di quello “meccanico” avevano agito in profondità ben altri elementi: la distruzione di un amore, di una famiglia, la prospettiva di un divorzio, la solitudine, la malattia, cui bisogna aggiungere le ferite e le umiliazioni inferte a Sylvia negli ultimi mesi della sua esistenza.
Come accennavo sopra, Ted Hughes farà torto a Sylvia Plath anche dopo la morte di lei, manipolando più volte la sua opera letteraria. Il primo arbitrio, Hughes – che in assenza di testamento e di un atto di divorzio deteneva la proprietà letteraria di sua moglie – se lo prese rivedendo e risistemando il dattiloscritto delle poesie di Ariel, al quale Sylvia, prima di suicidarsi, aveva dato una completa sistemazione.
Per Anna Ravano, l’ordine delle poesie stabilito dall’autrice «non è quello cronologico, ma disegna piuttosto un percorso poetico ideale, racconta una storia di imprigionamento e di liberazione, di annichilimento, rabbia e sopravvivenza che inizia, come la Plath stessa fa notare a Ted Hughes, con la parola love, “amore” e si chiude con la parola spring, “primavera”».
Ma la raccolta che Ted Hughes pubblica in Inghilterra nel marzo del 1965 presso la casa editrice Faber & Faber, pur essendo ancora intitolata Ariel, presenta parecchie novità rispetto alla struttura che Sylvia aveva disegnato. Hughes si prende la licenza di eliminare dodici poesie e di aggiungerne tredici, nove delle quali composte da sua moglie nel 1963. Tra le poesie escluse, le notevoli Il cacciatore di conigli, Donna sterile, Un segreto, Il carceriere, Il detective, L’altra, Il coraggio di tacere.
Così Hughes giustifica il suo operato: «L’Ariel che fu dato alle stampe era un volume abbastanza diverso da quello che (Sylvia Plath) aveva progettato. Incorporava gran parte della dozzina circa delle poesie scritte nel 1963, benché essa, riconoscendone la diversa ispirazione, le considerasse l’inizio di un nuovo libro. Delle poesie del 1962 ometteva le più aggressive sul piano personale e ne avrebbe forse omessa qualche altra se non si fosse trattato di poesie già pubblicate da Sylvia Plath su rivista, e quindi ormai ampiamente note nel 1965».
Sulla questione, ecco il pensiero della Wagner-Martin: «Omettendo alcune delle poesie più forti (…) Hughes confezionò la raccolta in modo da renderla meno autobiografica. Forse le poesie più genericamente rabbiose non rientravano per lui nei criteri dell’arte di successo; qualunque sia stata la motivazione, la raccolta di Hughes risultò alquanto diversa da come l’aveva intesa la Plath. Inserendo le poesie del 1963, che avevano un tono e uno stile decisamente diversi, al posto di quelle più rabbiose del 1962, Hughes alterò notevolmente il tenore di Ariel».
Forse la cosa va giudicata in modo meno indulgente. Hughes motiva lo stravolgimento di Ariel con criteri di natura estetica, editoriale, e, dichiaratamente, di opportunità personale. Invero, pubblicare la raccolta in modo così difforme da come l’aveva progettata sua moglie contribuiva a sviare il dito di accusa che le poesie escluse indirizzavano contro di lui. Ora, c’è da osservare che anche composizioni come Daddy, Lady Lazarus, Febbre a 40°, andavano nel senso di quelle estromesse; è più che verosimile, dunque, che Hughes avrebbe lasciato fuori anche queste perle poetiche se non fossero state già presentate dall’autrice in un programma della BBC del 30 ottobre 1962, e successivamente (dall’agosto all’ottobre 1963) pubblicate su riviste come The Review, Poetry, The Encounter.
La domanda è ineludibile: che cosa sarebbe rimasto, allora, della raccolta preparata da Sylvia? Altro che criteri di natura estetica, siamo dinanzi a una palese operazione di convenienza personale! Hughes non tenne in alcun conto la volontà di Sylvia e non fece altro che aggiustare le cose pro domo sua.
Ma ci sono altre prove della slealtà di Hughes verso la memoria e l’opera letteraria di Sylvia Plath. Innanzitutto, Hughes distrusse centinaia di pagine dei diari di Sylvia, la quale, nella stesura dei suoi pensieri quotidiani, ha prodotto alcune delle cose più straordinarie della sua carriera letteraria.
Più precisamente, nell’introduzione (e in un successivo commento) a The Journals of Sylvia Plath – una selezione dei diari apparsa nel marzo 1982 presso The Dial Press – Hughes, curatore dell’opera insieme a Frances McCullough, parlava di due quaderni contenenti i diari dalla fine del 1959 a tre giorni prima della morte di Sylvia. Dei due quaderni, uno, quello recante il diario del 1963, era stato distrutto da lui stesso, «perché non volevo che i suoi figli lo leggessero (in quei giorni dimenticare mi appariva essenziale per la sopravvivenza)». L’altro, con i diari 1960-62, gli risultava «scomparso più di recente (e potrebbe, presumibilmente, essere ritrovato)».
La sorella di Ted, Olwyn Hughes, una delle tre persone che ebbero la possibilità di leggere i diari (la terza è Assia Wevill) ha affermato che una delle ragioni che mossero Ted a bruciare le pagine di sua moglie consisteva nella volontà di «proteggere i bambini dalla prospettiva di leggere di una madre arrivata a umiliarsi con altri uomini». Olwyn – leggiamo nella biografia della Clark – alludeva ad Alfred Alvarez, al poeta Richard Murphy e, presumibilmente, a un altro poeta, William Stanley Merwin. La stessa Olwyn precisava di aver letto nei diari di un incontro sessuale, e non platonico, fra la cognata e Alfred Alvarez.
A sua volta, in una lettera degli anni ’90 al critico letterario Jacqueline Rose (ma mai spedita), Ted scriveva di essersi disfatto del diario «per proteggere qualcun altro». Quel “qualcun altro”, scrive Heather Clark, «avrebbe potuto essere Assia, ma più probabilmente Alvarez». Hughes si sarebbe sentito obbligato a “proteggere” Alvarez perché era stato suo amico e perché, tradendo e abbandonando Sylvia, aveva egli stesso favorito l’avvicinamento fra lei e Alvarez.
Infine, sia Olwyn sia Ted Hughes evocano un’altra giustificazione per la decisione di eliminare l’ultimo diario di Sylvia: in quelle pagine, lei avrebbe contemplato la possibilità, all’atto del suicidio, di portare “con sé” la vita dei figli.
Restano i fatti, gli incontestabili danni provocati da Ted Hughes: la distruzione di un prezioso documento biografico e letterario, e la perdita di un altro, mai ritrovato, un vuoto che si avverte con sgomento quando ci si immerge nella lettura degli Unabridged Journals of Sylvia Plath, pubblicati negli Stati Uniti d’America nell’ottobre 2000.
I Journals della Plath iniziano nel giugno 1950 (il 1954 è completamente assente) e si interrompono il 15 novembre 1959. È impossibile, scorrendo le sparute pagine del 1961 e la “selezione” di quelle del 1962, non provare un vivo rammarico (nel mio caso, anche un’enorme rabbia) per le perdite dovute alle decisioni di Hughes. Con scelte e giustificazioni che si commentano da sole, Ted Hughes ha cancellato per sempre tre anni di pensieri, idee, gioie, angosce, commenti, insomma tutto l’ultimo mondo interiore di Sylvia Plath.
Una seconda ingerenza di Hughes nella produzione scritta di sua moglie viene effettuata in collaborazione con altri attori della vita di Sylvia. Dopo la pubblicazione di The Bell Jar negli Stati Uniti (aprile 1971), Aurelia Schober, allo scopo di rettificare l’immagine poco lusinghiera della madre della protagonista del romanzo, inizia a riordinare le circa settecento lettere scritte da Sylvia tra il 1950 e il febbraio 1963. Ma la proprietà letteraria della corrispondenza di sua figlia appartiene a Ted Hughes, il quale, pur cedendole il copyright, si riserva di intervenire sulle scelte definitive; è ciò che accadrà in Letters Home, volume pubblicato da Aurelia nel 1976. I rimaneggiamenti, operati dal trio Schober-Hughes-McCullough, avevano un duplice intento: da una parte, come già detto, assecondare il desiderio di Aurelia di mostrare al mondo una figlia e una madre diverse dai personaggi emersi da The Bell Jar; dall’altra, l’interesse di Hughes di eliminare particolari privati e giudizi formulati dalla moglie in alcuni periodi della loro vicenda coniugale.
Hughes si ritaglia un meritato riscatto con la pubblicazione, nel settembre 1981, dei Collected Poems di Sylvia Plath. L’antologia, che aveva curato di persona e di cui aveva scritto l’Introduzione, raccoglieva 224 poesie della maturità e 50 poesie giovanili, e ottenne consensi dalla maggior parte della critica. Non c’è dubbio che grazie ai Collected Poems, l’opera di Sylvia accrebbe notevolmente la sua importanza nel panorama letterario anglo-americano. La poetessa e saggista Katha Pollitt, su The Nation del 16 gennaio 1982, parlò di «una di quelle carriere poetiche (come quella di Keats) in consistente trasformazione, che ha trovato rapidità e sicurezza osando sempre di più e diventando sempre più individuale. Inoltre, diventò sempre più chiaramente se stessa, e quando si dedicò a scrivere le ultime settanta, ottanta poesie, non c’era altra voce sulla Terra se non la sua».
A sancire la definitiva affermazione letteraria di Sylvia Plath, arrivò, nell’aprile 1982, la vittoria postuma nel Premio Pulitzer per la poesia; due anni dopo, Ted Hughes fu nominato Poeta Laureato d’Inghilterra, titolo che mantenne sino alla morte, che lo colse nel 1998.
Le note liete sulla vicenda letteraria di Sylvia subiscono una nuova interruzione con la terza ingerenza messa in atto da Ted Hughes. Arriviamo infatti a quella che la Wagner-Martin definisce «l’usurpazione della narrativa di Sylvia Plath». Così scrive la studiosa: «All’inizio del 1998, praticamente senza nessuna anticipazione o critica preliminare, Ted Hughes pubblicò le 88 poesie di Birthday Letters. Questa raccolta, formata da poesie sulla Plath o composizioni in risposta ai suoi scritti, includeva solo alcuni testi precedentemente pubblicati: era un tesoro segreto – forse una bomba segreta – e dal titolo fino ai contenuti sembrò concepita per far infuriare i lettori della Plath. Tanto per cominciare, il titolo del libro: il compleanno della Plath era il 27 ottobre, ma la raccolta uscì nel mese di febbraio, quasi a commemorare il giorno del suicidio, l’11 febbraio 1963». (Ma su quest’ultimo punto, come ammette la stessa Wagner-Martin, Hughes potrebbe essere giustificato; forse accelerò la pubblicazione perché sapeva di avere un tumore; in effetti, morirà alcuni mesi dopo, il 28 ottobre 1998).
Continua l’autrice: «Il libro era sicuramente un affronto: di nascosto, Hughes aveva scritto alcune poesie basate sulle opere più famose della Plath. Aveva discusso della narrativa proposta dalle poesie della moglie. Si era prefissato il compito di correggere la storia che Sylvia aveva raccontato. Con voce piatta e letterale, aveva creato intenzionalmente una produzione razionale, lontanissima dall’esuberanza, dall’intensità e dall’umorismo dell’ultima voce della Plath. (…) Non solo le poesie di Hughes usurparono l’autorità narrativa della Plath, ma rischiarono di cancellarne anche la voce».
A dire il vero, su Birthday Letters la critica si divise: Katha Pollitt ne diede un giudizio in chiaroscuro, il critico Jack Kroll, su Newsweek, parlò di «autodifesa retroattiva» e rilevò l’assenza di qualsiasi «profonda autoanalisi», ma la scrittrice e critica letteraria Michiko Kakutani, nota per la sua severità, giudicò la raccolta «notevolmente libera da autocommiserazione, vendetta e stato confusionale».
Altre critiche arrivarono all’autore per aver nuovamente eliso le sue responsabilità nel suicidio della moglie. Ma uno degli scopi di Hughes fu proprio quello di smorzare il biasimo di cui era fatto oggetto dal giorno della morte di Sylvia; in un paio di occasioni, l’autore dichiarò che con Birthday Letters si sentì alleggerito dai sensi di colpa, e aggiunse di provare rammarico per non aver pubblicato prima la raccolta. A dispetto dei pareri contrastanti della critica, Birthday Letters ottenne un vasto successo di pubblico e vinse numerosi e prestigiosi premi letterari.
Avremmo preferito concludere qui il nostro contributo; ma ai comportamenti riprovevoli o quantomeno discutibili di Hughes c’è da aggiungere la vendita alla Smith College Rare Books Room della raccolta di manoscritti, libri e persino di alcuni mobili appartenuti a sua moglie, e la conservazione – definita «quasi maniacale» dalla Wagner-Martin – dei diritti per la riproduzione delle sue opere.
A volte non riusciamo a comprendere bene ciò che ci provoca avversione per una persona; nel caso di Ted Hughes, è il suo lato equivoco, il suo cinismo, la sua parte nel suicidio di Sylvia Plath e la vischiosa contraffazione della sua opera a destare in me un’antipatia che rasenta l’astio vero e proprio. Altri, certamente migliori di me, hanno perdonato, o giustificato le sue azioni; io non ci riesco.
armando.santarelli@inwind.it
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