FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 64
luglio 2023

Estate

 

DIARIO ESTIVO

di Federica Taddei



AGOSTO FAVO D’ERBE

Agosto favo d’erbe
monte divino, camicia riarsa
di chi a lungo ha viaggiato nel deserto.
Le grate alle finestre, solaio d’infanzia,
piccole mele
essiccate al sole, mutavano colore nell’arancio.
Mese abitato solo da cicale, il grano lungo i campi,
sfrigolio della paglia sotto i passi
gli occhi dei girasoli vegliavano il cammino
van Gogh e Ligabue erano insieme
dietro alla cascina,
la pasta di formaggio con il suo odore
imbalsamava i fiori.
La zdòra (*) ha gli occhi chiari
come mia nonna Anita, la più bella.
Notti corvine a spiare le stelle per formulare
lo stesso desiderio, la paura è un lampo,
quel sogno che ritorna malgrado questa vita sia dolente.
Qual è il senso del tempo? e che cosa significa
per noi?
La memoria gioisce, come per inviolabile amicizia
con quel che siamo stati.
Forse vuol dire che meritiamo
per una volta ancora
la sorte profumata di una trepida attesa?

(*) Zdòra vuole dire, in dialetto emiliano, “reggitora”,
ovvero colei che regge la casa e in genere la famiglia.

(da Il cuore di Porzia, 2021)


*

Chi sarà stato, chi avrà dimenticato
luci accese in città nel mattino ubriaco di caldo?
Un tecnico distratto dall’amore un ingegnere vinto dall’ingegno
Un inserviente troppo appassionato
della sua squadra che ieri ha pareggiato?

(da Distanze, 1991)


*

E se fossimo spighe noi se fossimo
ugualmente affilate e morbide al contempo
vibranti al vento estivo piegandoci
alla fortuna senza morire mai senza
spegnere mai quell’espressione
di bionda concessione
gli occhi trascolorando
come chi dice di saperla lunga…

(inedito, 2023)


FINESTRA

Notte di luglio, argento sul cobalto,
il silenzio struggente rotto da una canzone americana,
la donna alla finestra, le braccia larghe spingono
le imposte
il corpo ad arco verso il covo prezioso delle stelle
luciferine.
Non parlano, non spiegano a che costellazione
sia appartenuta la sua maledizione
e la distanza, che l’ha preceduta, dall’uomo
sconosciuto
eppure amato, perduto al gioco per una quadratura di pianeti.
Aria celeste pulsa e si sorprende:
cosa può dire a quell’urlo notturno? al muto gesto
di belva che si arrende?

(da Distanze, 2004)


FRAMMENTO

Camminavi da sola
per i campi trebbiati da poco, ragazza di Mirandola,
lungo i solchi di terra marrone
quasi egiziana, il passo lieve da ninfa sul Parnaso.
Tornavi a casa nell’agosto sincero
a levarti di dosso la maglia scolorita
e quei bermuda, macchiati di solfati
e di fertilizzanti promettenti.
Il paradiso sarebbe certo stato
fare la doccia nella quieta calura
di campagna emiliana, tra uva e grano,
nel silenzio di fieno steso al sole
come il tuo corpo sotto il peso di un uomo.
Volevo essere te ragazza di Mirandola,
l’aria gitana i sandali ubriachi
del vino già gustato.
Non sapevi spiata
la tua piccola gioia quotidiana
da me che passavo sul treno
come un vento triste.

(da Ritratto a carbone, 2018)


RITRATTO A CARBONE

Luglio assorto, velato dal calore
occhi tenuti a bagno nell’aceto di mele,
l’uomo chiede al bicchiere
dall’aria solidale
un esito finale alla giornata, la sete morde
non gli darà tregua.
La tavola rotonda e solitaria
il boccale di Camelot che gli porta sostegno,
nella notte supina,
la guerra delirante contro il nemico celato nel legno
del ponte levatoio…
Sopra il corpo estraniato, evaporato come mosto al sole
l’alba pietosa dalla lingua di menta
disegna a terra
la traccia dei suoi passi
da vero disertore.

(da Ritratto a carbone, 2018)


DIARIO ESTIVO

Abito giallo al sole
indossato di notte senza luna
è l’estate che stiamo attraversando,
nell’aria trascendente come fosse un miraggio
la terra in vista il mare silenzioso.
Pane bruciato, quell’odore pungente si sentiva
Tra case di paese, oggi parla di guerra
quando resti di corpi abbandonati sono il fumo
d’inferno
delle armi. Avevamo giurato dopo Dachau, dopo Hiroshima,
che non avremmo consentito il furto,
la scienza che scavava nella terra, tagliava i volti
impilava fascine per sacrifici umani.
Avevamo giurato.
Poi Vietnam, Srebrenica, e la morta platea
nel teatro Dubrovka, la strada che portava ad Erevan,
il sole di Kobane annebbiato di polveri dentate.
Avevamo giurato.
Quel giorno il mare portava un nastro nero
sul braccio azzurro, per Alan Kurdi
per le sue scarpe bianche
per chi si è perso… Mi sono persa anch’io
mi sono persa, in equilibrio
sul confine sgranato dell’Oriente e l’occidente
che guarda smemorato, come un padre sopravvissuto al figlio.
Lo porta in braccio
sulla riva di un mare di cui non sente il suono

In questa estate che stiamo attraversando…
navi bianche spinte da guerre nere
come quei volti ammutoliti a prua
In questo odore di pane un po’ bruciato,
il nuovo stato chiede udienza plenaria
il fuoco ha sopraffatto la materia, piccole vene azzurre
crepitanti ne turbano il colore, forse l’avranno vinta.

(da I forti e i deboli, 2020)



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