Come ogni anno, Diego Cabrera si era sentito sollevato all’idea di rimettere piede nella sua città d’origine. Se n’era andato presto, la prima volta intorno ai diciassette, più per gioco, poi di nuovo finito il liceo e ancora interrotta l’università; quindi era tornato, aveva completato gli studi e di nuovo era partito. C’era stato il periodo irlandese, camuffato da scelta lavorativa ma dettato dall’infatuazione per una sassofonista sovrappeso. Poi c’erano stati il tirocinio a Padova e l’assunzione a Milano, gli anni torinesi e quelli romani, e nel frattempo non si sapeva come ma Cabrera era già padre di due splendidi bambini, se non fosse che in capo a pochi anni le cose si erano messe male, la moglie aveva comprato casa e lui si era trasferito in un bilocale. Ma a qualsiasi età, e ovunque avesse abitato, e quale che fosse la sua situazione, fidanzato, sposato, padre, separato, Cabrera non aveva mai rinunciato a quel trasferimento temporaneo.
Quell’anno però il ritorno aveva per la prima volta un gusto diverso, quello di una ricetta modificata. C’erano ancora i sensi di colpa per i genitori sempre più anziani, la curiosità di incontrare un ex compagno del liceo, o di scoprire le ultime tendenze, o un pizzico di sana nostalgia per le storiche attività commerciali che ogni anno gettavano la spugna. Ma quello era anche il primo anno in cui Cabrera faceva ritorno senza i figli, dopo sette anni in cui quella novità aveva allietato i nonni e si era integrata con lo scorrere del tempo. Adesso mancava qualcosa in modo irreparabile e insostituibile. Al contempo, questa privazione costituiva un ingrediente nuovo, piccante, la possibilità di dimenticare per una serata di essere padre. Per cui, con piglio ottimistico, Cabrera aveva deciso di concentrarsi sugli aspetti positivi di quel piccolo dolore, considerato anche che l’ultimo anno gli esami medici non gli avevano dato tregua, tutto a partire dall’insorgere dell’acufene.
Prima di allora Cabrera non aveva mai saputo che cosa fosse l’acufene, o tinnito. Di certo ne aveva sentito parlare, ma, come sempre accade con ciò che non ci riguarda in prima persona, l’aveva anche più volte rimosso. Poi un termosifone del suo bilocale aveva emesso un sibilo prolungato e quando il tecnico aveva risolto il problema il fischio era rimasto. A dire il vero più che un fischio o un ronzio, come ne parlavano tutti e anche le riviste mediche e gli esperti, si trattava di una frequenza altalenante, tant’è che sulle prime Cabrera si era convinto che il vicino avesse dimenticato l’amplificatore acceso. Di visita in visita, di documentazione in documentazione, Cabrera aveva poi dovuto accettare che il problema veniva dall’interno, dal cervello, forse dall’orecchio, o chissà: in parte psicosomatico, l’acufene può avere mille origini, non è una malattia ma il sintomo di qualcosa che si è rotto, e quando arriva può essere soltanto accettato o messo in secondo piano mediante terapie d’ascolto frequenziali. L’ultima dottoressa che l’aveva visitato, una deliziosa neolaureata sulla quale Cabrera si era convinto di aver fatto colpo, era sembrata più preoccupata di chiunque altro per via dei linfonodi ingrossati, e gli aveva prescritto esami per un totale di un migliaio di euro. Per una mera questione burocratica Cabrera aveva procrastinato e quegli esami non li aveva ancora fatti quando infine era giunta l’estate e lui era tornato in città.
Dopo una settimana trascorsa a stretto contatto con i suoi, nel solito tentativo rituale di ammorbidire i rapporti, Cabrera si era concesso una giornata di svago. Aveva dato fondo alla rubrica ma non era riuscito a reclutare nessuno. Anche gli ultimi superstiti avevano figliato, qualcun’altro aveva cambiato città e qualcun altro era morto, e alla fine Cabrera aveva deciso di fare un giro da solo. Non ci aveva messo molto, però, a capire che l’ascesa di un sindaco di destra, nell’arco dell’ultimo anno, aveva comportato una vera e propria strage. Rispetto al ritmo fisiologico con il quale tutte le città cambiano ogni anno, quell’anno tutto era stato sostituito con qualcos’altro: la vittima più eclatante era stata Bambinopoli, lo storico di giocattoli nel quale per tutta l’infanzia Cabrera era stato accompagnato a scegliere i propri regali e nel quale, negli ultimi sette anni, lui stesso aveva comprato dei regali per i suoi figli: al suo posto adesso un sushi bar. Amareggiato, Cabrera fece una passeggiata in centro, senza riuscire a individuare nemmeno uno degli esercizi commerciali aperti negli ultimi anni. Le strade gli parsero deserte, ma questo lo giustificò con l’anticipazione climatica. Si sedette a un bar e notò che in città era arrivata la moda: le ragazzine erano discinte come nelle metropoli, ma anche gli adulti avevano abbandonato la divisa di provincia. In nessuna pasticceria riuscì a trovare quel dolce tipico che comprava ogni anno per suo padre. Accantonata l’idea di bere qualcosa da solo in locali frequentati da gente troppo giovane, decise di fare un salto nell’altra casa prima di tornare dai suoi. Arrivato lì, scoprì che era stata cambiata la serratura. Guidò fino al villino dei suoi pensando soltanto ai chiarimenti.
Una volta al villino si mise a cercare suo padre ma non lo trovò. Sulla madia all’ingresso notò una foto incorniciata che ritraeva il padre da solo, una scelta un po’ macabra in netto contrasto con le foto di gruppo che avevano sempre decorato gli interni. Andò al piano di sopra e bussò alla porta del fratello che non si era mai emancipato dal nucleo d’origine, ma quando il fratello si affacciò senza dire nulla, Cabrera non se la sentì di chiedergli dove fosse il padre. La porta si richiuse e Cabrera bussò a quella dei suoi. La madre gli rispose di entrare: era stesa sul letto, con il lenzuolo fino alla vita, nonostante fosse ora di cena. “Vuoi che cucini io?” le chiese, e una risposta affermativa gli confermò quanto temeva. Quindi Cabrera rientrò in quella che tanti anni prima era stata la sua stanza e che in buona parte era rimasta cristallizzata nel passato: controllò la posta elettronica e trovò un’email della segretaria di un neurologo privato. A quanto apprese dalla comunicazione, gli esami prescritti dalla neolaureata li aveva già fatti un anno prima, la sua storia clinica era già densa e si concludeva con una diagnosi alla quale, sul momento, era meglio non credere.
Cabrera tornò al piano di sotto. Aveva deciso di preparare per la madre e per il fratello il celebre sformato del padre di cui era l’unico a conoscere il segreto. Sul mobile all’ingresso della cucina trovò un’edizione tascabile di un autore dal cognome illeggibile. Lo sfogliò, aprì una pagina e lesse: “Il mio caso, in breve, è questo: ho perduto ogni facoltà di pensare o di parlare coerentemente su qualsiasi argomento”. Ebbe un capogiro, si rese conto che non capiva quello che leggeva, o meglio, le singole parole erano chiare in sé ma non con partecipavano a un senso generale, bensì fluttuavano sulla pagina come mosche intorno a un cadavere. Ricordò di un’amica che un tempo aveva provato a spiegargli la dislessia. Riprovò a leggere ma stavolta non riuscì nemmeno a mettere a fuoco i caratteri. “Disidratazione”, pensò. “Non ricordo un’estate così calda” disse poi ad alta voce. Rimise il volumetto dove l’aveva trovato, e nella stessa posizione, e vuotò mezza bottiglia d’acqua come se fosse un elisir di lunga vita.
Ripensò alla diagnosi. Ricordò che qualche tempo prima, forse un anno forse dieci, un suo amico era stato sorpreso dallo stesso male e con la stessa rapidità. L’idea di deludere di nuovo i suoi figli gli sembrò insopportabile: era già sufficiente aver fallito nel ruolo di capofamiglia. Telefonò all’ex moglie ma il numero risultò irraggiungibile. Gridò, rivolto al piano di sopra, chiedendo al fratello o alla madre dove fossero gli ingredienti per lo sformato. “Non mi hanno sentito” si disse. “Posso trovarli da solo” si disse, ma si rese conto di non ricordare più la ricetta, né gli ingredienti. Telefonò alla solita pizzeria, ma rispose un privato che sfogò su di lui la frustrazione per tutti quelli che continuavano a sbagliare. Riagganciò. Aprì la dispensa e vide soltanto pacchi di plastica e scatole di cartone privi di scritte. Cercò un pennarello indelebile per risolvere il problema, e soltanto allora gli cadde l’occhio sul calendario di sette anni dopo.
Cabrera sentì le ginocchia che cedevano e dovette appoggiarsi a una sedia. Chiuse gli occhi, fece tre respiri profondi, si rimise dritto. Bevve acqua e zucchero. Percepì i nastri del tempo che morbidi si riallineavano. Alcune cose erano perdute per sempre, altre potevano ancora essere aggiustate. “Finché viviamo” si disse, “siamo in tempo per sanare ogni cosa”. Questo, com’è ovvio, io lo so perché me lo raccontò lui stesso, proprio quell’estate, al telefono, credo non più di un quarto d’ora dopo il secondo capogiro, e subito prima di lasciare il villino dei suoi, senza avvertire il fratello né la madre, e di far perdere le sue tracce per sempre.
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