Anche se le poche righe che seguono sono un pensiero personale per Lucero Alanís, che purtroppo ci ha lasciato inaspettatamente qualche mese fa, nel dicembre 2022, credo si debbano considerare anche un omaggio da parte di Alessio Brandolini e di tutti i membri delle Edizioni Fili d’Aquilone.
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Sono passati circa 5 anni dall’uscita di Chiostro (Edizioni Fili d’Aquilone, 2018, a cura di Marco Benacci). È stato il primo libro della messicana Lucero Alanís edito in italiano e il primo libro che ho tradotto uscito a mio nome. Avevo sempre preferito che fossero altri ad apparire, ma quella volta cambiai idea. Per accettare la proposta mi era bastato leggere poche poesie, perché Chiostro [Claustro, uscito la prima volta in Messico nel 2015 con Mantis Editores di Luis Armenta Malpica] era un libro bellissimo. Punto. Potrei elencare una sfilza di aggettivi per definirlo, riportare tutti quei commenti delle persone che lo hanno letto, ma la verità è che di parole ne basta una: “bellissimo”.
Ancora oggi vado fiero di averlo tradotto (e scritto l’introduzione), per me quella fu un’esperienza molto significativa. Di questa “prima volta” straordinaria sarò eternamente grato ad Alessio Brandolini, che da subito aveva intuito che esisteva un legame tra me e il libro; e forse anche tra me e Lucero: la traduzione non fu semplice, avevo continuamente bisogno di un confronto con lei, ma per fortuna potei contare sul suo appoggio incondizionato e ogni volta rispondeva con un entusiasmo unico, anche ai dubbi più scemi. (Ammetto che le difficoltà era anche colpa di una mia particolare situazione personale: «scusa Lucero se ti faccio tutte queste domande ma sono un po’ in confusione, la mia compagna mi ha detto che è incinta...»).
Per dare l’idea del nostro rapporto potrei trascrivere altre parti delle nostre mail di quei giorni, ma basta dire che era la prima volta in assoluto che mi sentivo in sintonia e in armonia con un autore che stavo traducendo. Credo che tutto dipendesse dall’amabilità di Lucero, altri mi avrebbero mandato al diavolo. Lei sembrava non aspettare altro, voleva condurmi in ogni segreto della sua poesia.
Quando il libro stampato la raggiunse in Messico mi ringraziò più volte e in maniera commossa. Ricordo che mi regalò anche una sua raccolta precedente, Flama de la memoria, altro capolavoro.
Dopo qualche mese nacque mio figlio Diego, e guardandomi indietro mi accorsi che la lavorazione del libro era andata di pari passo con la gravidanza. Le scrissi per annunciarle il lieto evento e che avrei sempre collegato quel periodo della mia vita alle due cose. Mi rispose così: «penso che ci sono dei libri che, per una ragione o l’altra, recano avvenimenti importanti». Stupendo.
Quando fu deciso di presentare il libro in Italia (aprile 2019), ci conoscemmo di persona. Le sensazioni che avevo avuto nello scambio di mail si moltiplicarono. Non solo perché ogni cosa dicesse sul suo libro, durante gli eventi e anche fuori, si concludeva con un ringraziamento per il mio lavoro, ma perché mi riempiva di domande, di consigli e di rassicurazioni (per un figlio che, ormai raggiunti i tre mesi, non ne voleva sapere di dormire la notte).
Abbiamo negli anni continuato a scambiarci auguri e notizie e il solo pensiero che Lucero non c’è più mi dà molta tristezza. Era una persona straordinaria e io sono una persona fortunata ad averla incontrata.
Sì, sono passati circa 5 anni dall’uscita di Chiostro. José Martí diceva: «Ci sono tre cose che ogni persona dovrebbe fare durante la sua vita: piantare un albero, fare un figlio e scrivere un libro». Parafrasando queste parole oggi voglio ripetere quello che dicevo sempre all’ora pieno d’orgoglio: Ho piantato molte piante (che valgono un albero) nel mio giardino, ho fatto un figlio (che, cara Lucero, all’età di 4 anni e mezzo ancora non ne vuole sapere di dormire la notte) e... anche se non ho scritto un libro, ne ho tradotto uno bellissimo!
Le foto sono state scattate in occasione della presentazione di Chiostro l'11 aprile 2019 presso l'Ambasciata del Messico a Roma.
POESIE DI LUCERO ALANÍS da Chiostro traduzione di Marco Benacci
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C’era un cammino tra le siepi di malva che solo io conosco. Lì faccio visita ai miei amici quando sono stanca dell’armadio, quando fa caldo e c’è troppo silenzio. Da sotto le pietre vengono ad incontrarmi le personcine verdi dalla pancia enorme ed occhi sporgenti, vengono con me fino allo stagno dove ci sediamo ad aspettare che escano fate e farfalle d’acqua. Chiacchieriamo delle loro afflizioni e conoscono i miei segreti.
Nel mio grembo cantano ed ascoltano quello che succede in casa, mi comprendono, mi consigliano. Dico a loro anche come camminare senza che li calpestino, senza che li dolga che altri cerchino di distruggerli. L’enorme bruco azzurro, delle dimensioni di un gatto, mi segue dappertutto, vuole essere mio figlio, gli prometto che un giorno, quando sarò grande, lo adotterò.
Una gran quantità di larve abbandonano il nido d’acqua per avvicinarsi ed anche a loro offro di esserne madre un giorno.
I batraci sempre cantano o discutono. È complicato trovare il cammino
di ritorno
a casa,
all’armadio.
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Esco dalla finestra e qualcuno sta chiamando. È un’ombra all’entrata del cammino di rampicanti. La seguo. Allo stesso modo mi avvicino, sembra un unicorno. Gli vado dietro sicura che mi permetterà di montare sulla sua bella groppa e sentire il suo pelame. Mentre corro, mi tolgo la camicia da notte. Ascolto il sensuale galoppo nei primi minuti, ma il cammino sembra si stia estendendo: sebbene angusto, inizia a trasformarsi in circoli con spinose biforcazioni. Ognuna mi fa sentire indecisa e non vedo più l’unicorno. Tento di accelerare il passo, il sudore già corre sulla fronte, scende attraverso i seni.
E l’enorme torta a cielo aperto continua a crescere. Arriverò fino al suo centro.
Non mi sto confondendo: mi sembra di essere su un carosello, tra la musica da fiera, scappando da papà ed inseguendo il cavallino bianco che, impazzito, non si lascia acchiappare.
Ogni volta sempre più stretta ed alta la muraglia d’erba, ogni volta sempre più sentieri che si aprono davanti ai miei occhi. Entro in uno dei varchi che alla fine mi conduce ad un giardino rotondo dove posso vederlo. Mi rendo conto che non potrò montarlo, c’è già una figura che occupa il mio posto.
Non so perché ho tanta voglia di piangere, papà.
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Il soffio d’aria gioca con le tende della finestra, fa impazzire le sue gonne di organza, fa il solletico col suo alito. Io danzo con lui davanti al fuoco, in mezzo a settemila veli, in mezzo ad un tendone pieno di cuscini che lui ha eretto nel caravanserraglio per proteggermi dalla sabbia, che mi perseguita da molto tempo, quando il tempo era quello dei giochi e mi piaceva giocare con la sabbia, però lei mi fa male negli occhi, nel naso, nella bocca, nelle mie mani, nel.
Non è che consideri la sabbia mia nemica. La sento ruggire, ma preferisco di sicuro il riparo caldo dove lui mi lusinga mentre una scimmia suona un tamburino nell’angolo, dove cadono tra le mie labbra dolci gocce di vino di dattero, dove l’olio profumato mesce il mio corpo, dove mi svolge da ognuno dei miei veli; vorrei essermene messa un centinaio in più affinché non finisca la notte.
Tulle e sete volano al colore del vento e lui continua a cercare la pelle segreta sotto ogni velo, e dentro il burka mi sollazzo, rido in silenzio, e fingo che non m’importa.
Ma sì che m’importa: mentre lui mi accarezza, un cammello piange una gran lacrima che cadrà nella sabbia e girerà fino a formare un mare, il mare della biondina, dove mia amica è la sabbia, la sabbia che ora mi rende infelice, sabbia che sporca gli abiti, i miei veli.
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Tutti gli uomini sono buoni
mio padre è uomo
di conseguenza mio padre è buono
Tutte le donne sono cattive
io sono donna
di conseguenza io sono cattiva
I vecchi hanno sempre ragione
il cappellano è un vecchio
di conseguenza il cappellano ha ragione
Le donne si comportano sempre come puttane
mia madre è una donna
di conseguenza mia madre si comporta come una puttana
Scrivo molti sillogismi per la lezione di logica, di conseguenza mi daranno un dieci, sebbene la logica mi stia sullo stomaco come la medicina. Né mia madre né io vogliamo essere uomini, quindi continueremo ad essere cattive e puttane. Sono arrivata alla conclusione che la logica non funziona perché non sono cattiva, di conseguenza non sono nemmeno puttana, e se fossi vecchia avrei la ragione, ed è quello che più ho, di conseguenza.
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Non posso affermare se tutto succede alle due di mattina o due minuti prima della mezzanotte: quello che sento, come in quell’istante, è la presenza di due mani invisibili o, quantomeno, due dita fantasmatiche che con forza separano le mie gambe; due lingue salgono per ogni centimetro. Ora è quando il minotauro mi provoca un desiderio che affloscia tutti i miei muscoli e mi fa arrossire davanti ai turisti, in quell’isola dove c’è sempre un toro di cui una s’innamora. In questa notte, in cui perdo il controllo delle mie gambe ed il loro padrone è un altro, si diffonde un vapore caldo, come se provenisse da due orifizi nasali, notte che respira ed umidifica tutto il vello della mia pelle in confusione con il mio sudore. Vorrei leccare il sale che esce dai miei arti. Sono in salvo nella mia stanza, sola e nell’oscurità. Mi dimentico di prendere la medicina, o forse ho raddoppiato la dose, come dicono succeda frequentemente. Che importa. Mi lascio trasportare dal desiderio e torno al fremito che si avvicina al mio pube. Chiudo gli occhi per vedere il toro nell’isola.
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Mi racconta mamma la novella dello stento ed esce in punta di piedi quando crede che io dorma. Notte dopo notte porta personaggi misteriosi nel mio letto, e lì rimangono, mamma non può immaginarlo, però è così. C’è un lupo che si infila tra le coperte e sebbene il racconto di mamma dice e vissero felici e contenti, lui non ascolta e non vuole andarsene. Mi dà delle sbuffate sulla pianta dei piedi che mi fanno il solletico.
Nemmeno oggi dormirò, perché quando se ne va mamma, i folletti nasoni decidono di rimanere con me. Mi fanno ridere. C’è uno che sa tutte le peripezie della famiglia e vengo a sapere che una bambina molto bambina non è più vergine. Il folletto dice che è stato lui, precisamente, quello che s’incaricò di rompere il fiore. Non gli credo, però lui insiste, mi fa ridere, mi racconta di più sulle amiche a cui ha fatto visita in segreto, mi abbassa le mutande, continua a parlarmi.
E io incantata nel racconto,
incantata dal folletto
senza dormire, senza.
Come se le principesse di balze e merletti, come se l’amido e le loro scarpette di cristallo potessero svanire quando svanisce mamma, così mi piacerebbe che tutto scomparisse.
È che non dormo quando, sotto il cuscino, ascolto voci di cuccioli perduti che chiedono della madre, uccelli truffatori che rubano nidi, orchi che sono professoresse e sacerdoti e laureati
e dottori
e.
Nessuno sa
la fine del racconto.
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Lucero Alanís nata nel 1947 a Durango (Messico), ha vissuto, dal 1973, a Guadalajar, dove è morta nel dicembre 2022.
Ha diretto la rivista Amoxcalli e pubblicato i libri di poesia: Tarde en el tiempo (1999), Desierto de azul nativo (2002), Gualbet en el sueño de otros / Gualbet dans le rêve des autres, (2003 – Edizione bilingue spagnolo/francese), Flama de la memoria (2006), Les silences du jour / Los silencios del día, (2007 – Edizione bilingue spagnolo/francese), Flame of memory, (Edizione bilingue spagnolo/inglese), Claustro (2015, pubblicato anche in Italia, Chiostro, nel 2018), Gualbet en el sueño de otros / Gualbet ín visul altora (2016 – Edizione Bilingue spagnolo/ rumeno), Das Margeritenkloster (Germania, 2017).
Suoi racconti, saggi e poesie sono stati inseriti in diverse antologie, opere collettive e riviste letterarie, sia in Messico che all’estero.
marco.benacci@live.com
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