Cammino da solo nella mia città ma non la riconosco. Penso di trovarmi in un luogo lontano, in un altro quartiere e al di fuori del mio ristretto reticolato di conoscenze. Deve essere cambiato tutto nel giro di pochi giorni o forse sono io che – in tanti anni – non ho mai frequentato queste zone, questi angoli nuovi e caratteristici della mia città. Passo per un piccolo giardino con delle persone sedute a prendere il sole, a guardarsi intorno, più che altro ad annoiarsi. C’è chi passeggia, un paio di coppie lo fanno mano nella mano eppure non sono più tanto giovani e forse proprio per questo è più bello vederli, salutarli e uno può immaginare tante cose della loro vita sentimentale, di coppia.
Quasi tutti mi osservano almeno qualche secondo e quando i nostri sguardi si incrociano fanno un lieve sorriso: anche io faccio il mio, di sorriso, e sento come se dalla mia bocca uscisse una smorfia o un insulto. Mi conoscono, sembra, ma queste persone che mi salutano in realtà io non so proprio chi siano, non le ho mai viste prima di oggi o non lo ricordo. Sì, forse assomigliano a qualcuno ma quello che io conoscevo non era poi così alto, oppure aveva gli occhi scuri e non verdi come un prato. Certe cose non cambiano mai.
Ho paura di essermi perso: la mente annebbiata, le gambe stanche eppure seguito imperterrito a macinare chilometri. Non sono più tanto giovane, ho superato i sessant’anni. Non sono più forte come una volta quando lavoravo sette giorni su sette e di notte leggevo un libro dall’inizio alla fine per poi ripeterlo a mente, almeno il riassunto e fissare i passaggi più importanti.
Proseguo a scatti, a volte di corsa, vado di qua e di là. Torno indietro in cerca della strada giusta ma non riesco a orientarmi, a capire dove mi trovo in questo preciso istante. Non sono disperato ma deluso dalla mia città che non mi aiuta a riconoscerla, a individuarla.
Non riesco a ricordare i volti delle persone che mi salutano e che probabilmente avrò incontrato in passato chissà quante volte. Chi sono? Quali sono i loro nomi? E questa è davvero la mia città? Sì, ne sono sicuro. La riconosco dall’insieme, dal suo forte odore, dai colori. E io sono io, non posso essere un altro che finge (o prova) a essere me stesso. Ne sono certo e ne vado fiero. Mi resta solo questo, mi dico, mi devo solo orientare meglio, cercare altri punti di riferimento: una piazza che conosco, l’insegna di un negozio e poi da lì ripartire a passo svelto per riconquistare il tempo perso e tornare a casa, ai blocchi di partenza.
Laggiù ci sono le scale mobili che portano a una stazione della metro. Le imbocco quasi di corsa. Indosso abiti trasandati, la barba di almeno una settimana, la camicia sbottonata, mezza dentro mezza fuori, e la patta dei pantaloni (me ne accorgo con vergogna) aperta: la tiro su, provo a ricompormi, a migliorarmi. Davanti ai binari della metro leggo le tabelle della stazione: prima o poi saprò come orientarmi, da che parte andare, imboccherò finalmente la direzione giusta, quella che va dalla parte che meglio mi conosce e a piedi, a passo sicuro (sebbene stanco) raggiungerò la mia abitazione. Cerco nelle tasche e trovo la tessera annuale dei mezzi pubblici, quella della mia città, non una qualsiasi, e io sono davvero io, non un altro. Dopo diverse rampe raggiungo i binari della metro e trovo tutto allagato con gli autoparlanti che urlano: “Le corse dei treni sono momentaneamente sospese”. C’è stata una grossa perdita all’acquedotto comunale, me lo dice un signore mentre retrocede, torna in superficie e aggiunge: “Chissà ora quando risolveranno il problema!”.
Ci sono più di trenta centimetri di acqua sporca e io non so che fare. Esamino tutto come se volessi catturare me stesso e capirci qualcosa. Mi sento chiamare da una voce stridula, acuta che mi sembra di conoscere. Voltandomi vedo in mezzo all’acqua, magra e alta, mia zia Anna che seguita a chiamarmi e mi invita a raggiungerla. Resto sorpreso di incontrarla in questa strana e assurda situazione. So che mia zia è ancora viva e sono anni che non la vedo. Le urlo che se scendo quegli ultimi scalini per raggiungerla mi entrerà l’acqua nelle scarpe. Ma lei insiste: “Vieni, dai, che ti importa!”. E sorride per rassicurami, di un sorriso triste ma buono, un sorriso arcaico impastato al dolore della vita.
Osservo i miei piedi sommersi come se fossero quelli di un altro. La raggiungo adagio e lascio che scarpe e pantaloni si impregnino di liquido sporco e maleodorante, trascino le gambe più che sollevarle. Zia tende un braccio e afferra la mia mano, tira con forza e in un baleno la raggiungo, le sono addosso. Attraversiamo insieme la stazione allagata e mi mette in salvo salendo dalla rampa opposta a quella dalla quale sono disceso. A metà strada c’è sua figlia Assunta, cioè mia cugina, la osservo stupito e metto a fuoco il suo volto rimasto così giovane. “Vedi, c’è anche lei. Dai usciamo dalla metro e ti riportiamo a casa!”, dice zia tutta contenta.
Mi batte forte il cuore, scalpita come se prendesse la rincorsa. Allora sono salvo, mi urlo dentro, non sono caduto nel vuoto. Provo a liberare la mano e zia la stringe ancora più forte, non la molla nemmeno un secondo.
Mi viene in mente che potrei perdermi un’altra volta e allora preferisco aver fiducia in lei, in mia zia, in queste assurde circostanze e avanzare (un passo alla volta) verso la salvezza. Assunta sorride imbarazzata di trovarsi lì con noi e non in un altro luogo, con i suoi figli o al lavoro eppure prosegue a testa alta, avanti a tutti, come se caparbiamente aprisse un sentiero in una foresta amazzonica, come se catturasse la luce con lo sguardo.
luglio 2022
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