FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 63
marzo 2023

Cadute

 

COME SE VOLESSI CATTURARE ME STESSO

di Alessio Brandolini



Cammino da solo nella mia città ma non la riconosco. Penso di trovarmi in un luogo lontano, in un altro quartiere e al di fuori del mio ristretto reticolato di conoscenze. Deve essere cambiato tutto nel giro di pochi giorni o forse sono io che – in tanti anni – non ho mai frequentato queste zone, questi angoli nuovi e caratteristici della mia città. Passo per un piccolo giardino con delle persone sedute a prendere il sole, a guardarsi intorno, più che altro ad annoiarsi. C’è chi passeggia, un paio di coppie lo fanno mano nella mano eppure non sono più tanto giovani e forse proprio per questo è più bello vederli, salutarli e uno può immaginare tante cose della loro vita sentimentale, di coppia.

Quasi tutti mi osservano almeno qualche secondo e quando i nostri sguardi si incrociano fanno un lieve sorriso: anche io faccio il mio, di sorriso, e sento come se dalla mia bocca uscisse una smorfia o un insulto. Mi conoscono, sembra, ma queste persone che mi salutano in realtà io non so proprio chi siano, non le ho mai viste prima di oggi o non lo ricordo. Sì, forse assomigliano a qualcuno ma quello che io conoscevo non era poi così alto, oppure aveva gli occhi scuri e non verdi come un prato. Certe cose non cambiano mai.

Ho paura di essermi perso: la mente annebbiata, le gambe stanche eppure seguito imperterrito a macinare chilometri. Non sono più tanto giovane, ho superato i sessant’anni. Non sono più forte come una volta quando lavoravo sette giorni su sette e di notte leggevo un libro dall’inizio alla fine per poi ripeterlo a mente, almeno il riassunto e fissare i passaggi più importanti.

Proseguo a scatti, a volte di corsa, vado di qua e di là. Torno indietro in cerca della strada giusta ma non riesco a orientarmi, a capire dove mi trovo in questo preciso istante. Non sono disperato ma deluso dalla mia città che non mi aiuta a riconoscerla, a individuarla.

Non riesco a ricordare i volti delle persone che mi salutano e che probabilmente avrò incontrato in passato chissà quante volte. Chi sono? Quali sono i loro nomi? E questa è davvero la mia città? Sì, ne sono sicuro. La riconosco dall’insieme, dal suo forte odore, dai colori. E io sono io, non posso essere un altro che finge (o prova) a essere me stesso. Ne sono certo e ne vado fiero. Mi resta solo questo, mi dico, mi devo solo orientare meglio, cercare altri punti di riferimento: una piazza che conosco, l’insegna di un negozio e poi da lì ripartire a passo svelto per riconquistare il tempo perso e tornare a casa, ai blocchi di partenza.

Laggiù ci sono le scale mobili che portano a una stazione della metro. Le imbocco quasi di corsa. Indosso abiti trasandati, la barba di almeno una settimana, la camicia sbottonata, mezza dentro mezza fuori, e la patta dei pantaloni (me ne accorgo con vergogna) aperta: la tiro su, provo a ricompormi, a migliorarmi. Davanti ai binari della metro leggo le tabelle della stazione: prima o poi saprò come orientarmi, da che parte andare, imboccherò finalmente la direzione giusta, quella che va dalla parte che meglio mi conosce e a piedi, a passo sicuro (sebbene stanco) raggiungerò la mia abitazione. Cerco nelle tasche e trovo la tessera annuale dei mezzi pubblici, quella della mia città, non una qualsiasi, e io sono davvero io, non un altro. Dopo diverse rampe raggiungo i binari della metro e trovo tutto allagato con gli autoparlanti che urlano: “Le corse dei treni sono momentaneamente sospese”. C’è stata una grossa perdita all’acquedotto comunale, me lo dice un signore mentre retrocede, torna in superficie e aggiunge: “Chissà ora quando risolveranno il problema!”.

Ci sono più di trenta centimetri di acqua sporca e io non so che fare. Esamino tutto come se volessi catturare me stesso e capirci qualcosa. Mi sento chiamare da una voce stridula, acuta che mi sembra di conoscere. Voltandomi vedo in mezzo all’acqua, magra e alta, mia zia Anna che seguita a chiamarmi e mi invita a raggiungerla. Resto sorpreso di incontrarla in questa strana e assurda situazione. So che mia zia è ancora viva e sono anni che non la vedo. Le urlo che se scendo quegli ultimi scalini per raggiungerla mi entrerà l’acqua nelle scarpe. Ma lei insiste: “Vieni, dai, che ti importa!”. E sorride per rassicurami, di un sorriso triste ma buono, un sorriso arcaico impastato al dolore della vita.

Osservo i miei piedi sommersi come se fossero quelli di un altro. La raggiungo adagio e lascio che scarpe e pantaloni si impregnino di liquido sporco e maleodorante, trascino le gambe più che sollevarle. Zia tende un braccio e afferra la mia mano, tira con forza e in un baleno la raggiungo, le sono addosso. Attraversiamo insieme la stazione allagata e mi mette in salvo salendo dalla rampa opposta a quella dalla quale sono disceso. A metà strada c’è sua figlia Assunta, cioè mia cugina, la osservo stupito e metto a fuoco il suo volto rimasto così giovane. “Vedi, c’è anche lei. Dai usciamo dalla metro e ti riportiamo a casa!”, dice zia tutta contenta.

Mi batte forte il cuore, scalpita come se prendesse la rincorsa. Allora sono salvo, mi urlo dentro, non sono caduto nel vuoto. Provo a liberare la mano e zia la stringe ancora più forte, non la molla nemmeno un secondo.

Mi viene in mente che potrei perdermi un’altra volta e allora preferisco aver fiducia in lei, in mia zia, in queste assurde circostanze e avanzare (un passo alla volta) verso la salvezza. Assunta sorride imbarazzata di trovarsi lì con noi e non in un altro luogo, con i suoi figli o al lavoro eppure prosegue a testa alta, avanti a tutti, come se caparbiamente aprisse un sentiero in una foresta amazzonica, come se catturasse la luce con lo sguardo.

luglio 2022

alexbrando@libero.it