Avevo appena iniziato a vestirmi per scendere in sala da pranzo quando i tre abituali, lievi tocchi di mia madre alla porta della stanza mi costrinsero ad affrettarmi.
Era venerdì sera, il giorno del compleanno di mia sorella, ma il motivo della cena speciale era per via della “richiesta della mano”, tanto attesa durante gli otto anni di fidanzamento portati avanti da lei e dal suo fidanzato.
Mi sistemai i capelli alla Humphrey Bogart. Con più entusiasmo che brillantina avevo trascorso quasi mezz’ora a pettinarmi la chioma pensando ogni istante alla serata in arrivo. Ogni ciocca dei capelli, l’odore della spazzola nel suo andare e venire, il riflesso del sorriso al di là del mio volto e poi la luna che si ammanta di stelle proprio dinanzi alla mia finestra spalancata, parevano essersi messi d’accordo per regalarmi la storia di un futuro che solo di soppiatto avevo il coraggio d’immaginare e di godere.
Lo specchio a mezzo busto mi restituiva l’immagine di una persona bella e squisita, perfetta e coscienziosamente vestita per l’occasione; ma, soprattutto, di fronte a quel riflesso, mi sentivo a mio agio come non mi era mai capitato. Mi sembrava di volare.
La mia stanza era situata in fondo al corridoio, al secondo piano, quindi per raggiungere le scale dovevo percorrere circa quindici metri, passare davanti alle porte delle camere dei miei genitori (una per ciascuno), più la stanza di mia sorella. Fin da quando ero un adolescente, ciascuna di quelle porte mi provocava la cosa più vicina al brivido della paura. Solo di notte, di fronte all’imponenza della loro lignea presenza, accompagnandomi nel mio percorso in fuga, potevo sentirmi al sicuro e in pace. Non sapevo perché, visto che le tre bocche aperte di quelle stanze si mostravano come sbadigli lungo il mio percorso, in quell’occasione mi sentivo del tutto tranquillo, comodo e leggero.
Mi fermai sul piccolo balcone interno che da un lato esibiva, come una lingua vellutata, le scale con il loro soffice tappeto; mentre dal lato opposto mi permetteva di visualizzare la sala da pranzo in tutta la sua estensione.
Intorno al tavolo erano già tuti seduti.
Mio padre, ammiraglio in pensione, come in ogni occorrenza da lui considerata importante, indossava l’alta uniforme militare e sul petto tutte le sue medaglie; mia madre, come una diva degli anni trenta, nuotava in un vestito nero, sobrio e squisito, coronato dalla collana di perle ereditate da sua nonna, collana che aveva preso l’abitudine di indossare persino in bagno e nei suoi lunghi periodi di stitichezza giocava con ogni perla pressando sogni e desideri difficili da realizzare, quanto la sua defecazione; mia sorella, dieci anni più grande di me, era l’immagine spiccicata di mio padre persino nelle medaglie, accademiche nel suo caso, che, sebbene non stavano sul suo petto, si dava il gusto e il capriccio di mostrare ed esibire in tutte le conversazioni godendo nel far sentire gli altri inferiori a lei; e infine lui, il suo ragazzo fin dai tempi dell’università, timido e assoggettato al potere della femminilità con tutti i suoi attributi che formano il compendio più spaventoso e ineludibile da salvare: splendore, squisita sensualità, brillantezza intellettuale e talento, tutto in una sola persona: mia sorella.
Li ammirai per diversi minuti. Guardai la mia sedia vuota sul lato destro di quella di mamma. Vuota comunque, anche se io me ne fossi stato lì seduto. Ma in quell’occasione mi sentivo del tutto speciale, come se i miei passi si posassero su nuvole di cotone e confetti.
Ripeto, non mi ero mai sentito così a mio agio, sicuro e leggero come in quegli istanti. All’inizio pensai che quella mia sensazione fosse percepibile anche dagli altri, così mi venne da pensare dinanzi allo sguardo stupefatto che mi rivolgevano i commensali mentre adagio scendevo; così credetti quando vidi sfigurarsi la faccia di mio padre torcendo lo sguardo su di me e poi su mia madre.
Alla fine, proseguendo sulla moquette della sala, proprio dopo l’ultimo gradino, qualcosa mi spinse a guardarmi i piedi. Sotto i pantaloni di lino greco sbucavano due infradito rosse che impallidirono sotto il mio sguardo, mentre i tacchi, di dieci centimetri, rimpicciolivano per la vergogna davanti all’attenta analisi dei presenti. Troppo tardi per capire che quel giorno, prima di prepararmi per la cena del fidanzamento ufficiale di mia sorella, mi ero vestito di rosso e di nero, fantasticando di essere la puttana di mio cognato.
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