FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 59
novembre 2021

Rovine

 

SIGNORA

di Matteo Moscarda



Prima che venisse a mancare io e la signora non siamo mai andati troppo d’accordo. Detta così a uno verrebbe da chiedersi: e dopo? Dopo sì: dopo che è venuta a mancare io e la signora abbiamo cominciato ad andare d’accordo, nel senso che soltanto allora io ho capito i miei errori e che, essendomi per buona parte della mia vita considerato già morto, o quantomeno meno vivo della quasi totalità di chi mi circondava, per la prima volta mi sono sentito a lei vicino, ho trovato delle cose in comune, per così dire, a tal punto che tutt’oggi io penso a lei ogni giorno, diverse ore al giorno, e questo pensiero io non lo condivido con nessuno, è a conti fatti un pensiero morto, così come, per molti versi, si può immaginare che lo sia il pensiero di un morto. Si è insomma, per farla breve, instaurato un dialogo muto tra me e la signora: lei non esiste più e ha smesso di esercitare un’influenza attiva sulla mia esistenza, mentre io continuo a esistere e la tengo in vita, attraverso il pensiero, più di quanto l’avrei voluta nella mia vita quando era ancora in vita. Perché soltanto adesso io la capisco, soltanto adesso riesco a rispettare una volontà che sembrava nata per sovrastare la mia.

D’altronde è sempre così. A parte casi eccezionali di assassini, pedofili o fascisti, quando uno muore diventa un santo. La gente non sa più che rimproverargli. All’improvviso si convincono che il defunto fosse la persona migliore tra loro, la più gentile, la più generosa. Siamo circondati di persone splendide e ce ne rendiamo conto soltanto quando muoiono, questo pensiamo. Al funerale lo diciamo chiaro e tondo, a un microfono: sorrideva sempre, era sempre pronto ad aiutarmi, non dimenticherò mai quella volta che.

Nella vita di tutti i giorni ci sentiamo circondati da persone odiose che ci superano nella fila alle poste, ci tagliano la strada o ci fanno un qualche sopruso. Ovunque andiamo non facciamo altro che difenderci dai soprusi altrui, dobbiamo sempre mantenere alto il livello di guardia, vediamo nemici ovunque: quando guidiamo i pedoni attraversano con il rosso e ci fanno rischiare di essere tamponati o di arrivare in ritardo, e quando attraversiamo sulle strisce c’è sempre qualcuno che tenta di investirci; qualsiasi cosa facciamo gli altri fanno di tutto per ostacolarci e infastidirci e metterci in pericolo di vita. È un mondo di nemici, ci sentiamo tranquilli soltanto a casa, e molto spesso nemmeno lì, anzi, molto spesso tornare a casa significa affrontare, ancora una volta, i nemici peggiori. Questa è la nostra vita di tutti i giorni: una guerra. Homo homini lupus. Fanno tutti schifo, questo pensiamo ogni giorno.

Ma poi muore qualcuno e questa morte ci scuote. Magari era l’alcolizzato che circumnavigava il palazzo dieci volte al giorno. Magari era il cugino di un amico della barista sotto casa. Magari non l’avevamo mai nemmeno visto. Eppure questa morte improvvisa, ingiusta, inspiegabile, questa morte incomprensibile come è sempre la morte, questa morte che in nessun modo ci riguarda, questa morte di un semisconosciuto all’improvviso ci tocca nel profondo, per interi minuti percepiamo il vuoto che ci precede e che ci attende, per interi minuti abbiamo l’impressione che tutto potrebbe finire da un momento all’altro. Poi dimentichiamo, torniamo alla routine, litighiamo per un posteggio, diamo un peso immenso a immense sciocchezze, e più siamo stupidi più scacciamo il pensiero della morte, più ci concediamo di essere degli imbecilli e più ci sentiamo vivi, invulnerabili. Ma poi arriva di nuovo la morte, e stavolta tocca qualcuno molto più vicino, vicinissimo, un amico, un parente, i nostri genitori. La voragine è senza fondo. La bara è refrigerata, per poter vegliare il morto il più a lungo possibile, uno, due, anche tre giorni, sperando che non si trasformi, sperando che conservi il più a lungo possibile le sembianze della persona che abbiamo amato e la cui anima si è volatilizzata nell’arco di pochi secondi. Andiamo in chiesa, una chiesa nella quale non mettevamo piede da decenni, e speriamo che il numero maggiore possibile di conoscenti salga sul palchetto e urli al microfono quello che vogliamo sentirci dire, ovvero che il nostro caro era una persona speciale, che sorrideva sempre, che era sempre pronto ad aiutare, che dava consigli risolutivi. Più ne ascoltiamo più ne vogliamo sentire, e non ci importa che sia così per tutti, che i morti siano sempre i più generosi, disponibili e saggi, non ci importa: stavolta è la nostra persona amata, la persona a noi più vicina, e per la prima volta tutta la retorica sulla morte non è più retorica: nostra madre era davvero la persona migliore al mondo, la più generosa, disponibile e saggia, e niente potrà restituircela, nessuno potrà sostituirla, senza di lei siamo perduti, e non c’è stato momento, prima di questo, nel quale la morte ha avuto meno senso.

La signora è morta all’improvviso. Giovane, come si dice oggi. Di certo troppo giovane per morire così, senza nemmeno un preavviso, senza un ricovero, senza ultime parole al capezzale. Non si può morire così. All’una di notte, senza un cristo che venga a soccorrerci, senza poter invocare l’aiuto di nessuno: ritrovarci a terra, in bagno, quasi un cliché da film per la tv, ritrovarci a terra senza fiato e senza pensieri e senza un cellulare a portata di mano per poter chiamare qualcuno, un’ambulanza, una figlia che è chissà dove, un marito che è nella stanza accanto e non si accorge mai di nulla da vent’anni. Non si muore così, non è giusto, è sleale. Nessuno lo merita. Nessuno merita di non arrivare il più lontano possibile, di non assistere al matrimonio dei nipoti, di non diventare bisnonno. Eppure succede, succede ogni giorno, ogni giorno sono più le persone che muoiono di quelle che nascono, e se cerchi su internet non c’è nemmeno un risultato, nessuno che ne parli – ogni giorno milioni di persone spariscono nel nulla, lasciano soltanto un account Facebook sul quale, per anni, continuano a ricevere gli auguri di compleanno da parte di chi non è stato informato del decesso.

Una decina di giorni prima della tragedia io e la signora avevamo avuto uno dei nostri soliti attriti, sempre scaturiti da pretesti futili e sintomatici di anni di incomprensioni, impossibili da comunicare e da condividere. Un’ora dopo io le avevo telefonato, non che lo facessi spesso, anzi, l’avrò fatto due volte nel corso dei sei nei quali ci siamo nostro malgrado frequentati, ma quel giorno stavo male, il divorzio mi stava logorando, pensavo che lei in qualche modo avesse contribuito a ciò che stava succedendo, e volevo provare ancora una volta, con calma, con gentilezza, con pazienza, a farle capire che non le volevo male, che io non voglio male a nessuno, e che a volte semplicemente va così: due persone si ritrovano vittime di dinamiche stereotipate, finiscono per interpretare due ruoli e da qual momento ne sono vittime, non hanno più alcun potere decisionale, diventato due caricature, due macchiette, e alla fine va bene anche così, basterebbe non dargli troppo peso, trovare un compromesso e dare la priorità alle cose davvero importanti, come ad esempio la felicità dei figli o dei nipoti. Questo volevo dire alla signora, quel giorno, e questo le ho detto, credo, e anche se le mie parole non hanno fatto breccia, come si suole dire, credo che alla signora abbia fatto piacere, questa telefonata chiarificatrice, anche se forse per il motivo sbagliato. Fatto sta che quel giorno, per un motivo o per un altro, ci siamo salutati con una certa complicità, una complicità diffidente ma comunque complice. Dieci giorni dopo sono stato svegliato da una telefonata: era mia moglie, piangeva, ha detto che sua madre si era sentita male durante la notte e forse non ce l’aveva fatta, una cosa che di solito si dice di chi è in rianimazione, o malato da tempo, mia moglie l’ha detta di sua madre, questa cosa, sua madre che è morta da un giorno all’altro, senza essere malata, senza nessun motivo, senza nessun preavviso. «Forse non ce l’ha fatta».

Sono trascorsi mesi da quel giorno. E già da molti mesi prima di quel giorno io dormivo su una branda e mia moglie nella nostra stanza con i bimbi. E ora che sono trascorsi altri mesi io ancora dormo su quella branda e mia moglie nella nostra stanza con i bimbi. Della nostra vita felice insieme non sono rimaste che macerie. Della vita personale di mia moglie sono rimasti il dolore e una grande forza e una grande voglia di tenere duro e ridere e continuare per il bene dei bambini. Della vita della signora sono rimaste moltissime carte da firmare, diverse confezioni di dolci scaduti che non so quando verranno buttati, e poi ancora i libri che la signora leggeva ai miei figli e i regali e i giocattoli e tutti gli oggetti che parlano di lei, per quanto ancora oggi i miei figli non vogliano ascoltare, né gli oggetti né i nostri discorsi sulla perdita e sullo spirito.

Mi sono sentito morto per la prima volta quando è morto il mio nonno paterno, il 27 agosto del 1995. Avevo sedici anni, ero nel pieno della ribellione adolescenziale e non sono riuscito a provare nulla. Amavo moltissimo il mio nonno paterno. Da piccolo i miei mi lasciavano da lui ogni pomeriggio per poi tornare a lavorare al negozio. Ogni pomeriggio facevo i compiti a casa del nonno paterno e poi lui mi faceva fare una pausa e guardavo una o due puntate di Monkey di Tezuka. Poi mio nonno mi raccontava qualche aneddoto sulla guerra, come di quella volta che si era salvato dall’esecuzione perché non aveva fatto in tempo a salire su un furgoncino che avrebbe dovuto portare in salvo lui e i suoi commilitoni e che invece poi era stato fermato dai tedeschi o da chissà chi: erano morti tutti, i suoi commilitoni, e lui era sopravvissuto così, per caso, perché era stato meno veloce degli altri. Mia madre e mio padre lo ricordano come un musone, e mi ricordano spesso non era stato un buon padre, ma con me mio nonno era stato un nonno eccezionale, uno di quelli che ti insegnano ad amare la Settimana Enigmistica. Eppure quando è morto non ho provato nulla. Ho cominciato a sentirmi sbagliato, e mi sono sentito sempre più sbagliato, sempre più distaccato, sempre più indifferente.

Poi, nel 2003, è morto Cesare: un incidente in moto, forse era ubriaco, dev’essere morto ridendo. Non lo so cos’ho provato, credo imbarazzo, perché vedevo gli altri che piangevano e io sentivo soltanto il vuoto, un dispiacere, certo, ma non quello che vedevo in loro, non le lacrime. E poi è morto Rob, e poi mia zia, e Spillo, e poi il mio nonno materno, anche lui amatissimo, per motivi del tutto diversi rispetto al nonno paterno, e stavolta è successo: a gennaio del 2020 ho pianto, subito dopo averlo salutato per l’ultima volta, relegato in una terapia intensiva: sono uscito fuori, l’ho guardato attraverso le finestrelle delle porte a battenti e gli ho fatto una foto, e soltanto allora, guardando la foto di mio nonno morente a pochi metri da mio nonno morente, soltanto allora ho pianto, per lui, per Spillo, per mia zia, per Rob e Cesare e per il nonno paterno: soltanto allora li ho capiti tutti, soltanto allora ho capito i miei errori, soltanto allora ho sentito che avrei potuto fare di più con ognuno di loro, e che in realtà ho sempre fatto pochissimo per chiunque, ho sempre e soltanto badato al mio tornaconto, io come chiunque, pensiamo soltanto ai nostri interessi, siamo convinti che tutti intorno a noi siano nemici, odiamo chiunque e poi quando gli altri muoiono li consideriamo dei santi, amiamo la vita soltanto quando è finita.



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