FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 59
novembre 2021

Rovine

 

L'ANGOLO DI ED

a cura di Giuseppe Ierolli



Sgretolarsi non è atto di un istante


J301-F403

I reason, Earth is short -
And Anguish - absolute -
And many hurt,
But, what of that?

I reason, we could die -
The best Vitality
Cannot excel Decay,
But, what of that?

I reason, that in Heaven -
Somehow, it will be even -
Some new Equation, given -
But, what of that?

    Ragiono, la Terra è breve -
E l'Angoscia - assoluta -
E molti soffrono,
Ma, e con ciò?

Ragiono, potremmo morire -
La migliore Vitalità
Non può vincere il Decadimento,
Ma, e con ciò?

Ragiono, che in Cielo -
In qualche modo, ci sarà compenso -
Qualche nuova Equazione, data -
Ma, e con ciò?

La struttura identica delle tre strofe reitera il ragionare, il riflettere, del primo verso di ciascuna con la conclusione dell'ultimo, dove sembra che qualsiasi ragionamento, dubbio, proposta di soluzione, si scontrino inevitabilmente con l'inutilità di un percorso che ci conduce verso il nulla.

 

J946-F1115

It is an honorable Thought
And makes One lift One's Hat
As One met sudden Gentlefolk
Upon a daily Street

That We've immortal Place
Though Pyramids decay
And Kingdoms, like the Orchard
Flit Russetly away

    È un Pensiero onorevole
E ci fa levare il Cappello
Come se c'imbattessimo in un Gran Signore
Sulla Strada quotidiana

Che Noi si abbia un Posto immortale
Sebbene le Piramidi decadano
E i Regni, come i Frutteti
Si dileguino Rosseggiando

Pensare che nell'aldilà ci aspetta un luogo immortale, così diverso da quello effimero e provvisorio che conosciamo, è un pensiero onorevole, che ci sembra un segno di rispetto verso di noi, un po' come è segno di rispetto togliersi il cappello davanti a un gran signore incontrato inaspettatamente sulla strada che facciamo tutti i giorni.
L'immortalità qui è trattata con la consueta ironia di ED, esplicita nel paragone, molto mondano, di salutare rispettosamente un gran signore incontrato per via, e implicita in quel "thought" del primo verso che, oltre al significato di "pensiero" può anche voler dire "fantasia, immaginazione, opinione".

 

J997-F1010

Crumbling is not an instant's Act
A fundamental pause
Dilapidation's processes
Are organized Decays -

'Tis first a Cobweb on the Soul
A Cuticle of Dust
A Borer in the Axis
An Elemental Rust -

Ruin is formal - Devils work
Consecutive and slow -
Fail in an instant, no man did
Slipping - is Crashe's law -

    Sgretolarsi non è Atto di un istante
Una pausa fondamentale
I processi di Disgregazione
Sono Decadimenti organizzati -

È prima una Ragnatela nell'Anima
Una Cuticola di Polvere
Un Tarlo nell'Asse
Una Ruggine Primordiale -

La Rovina è metodica - i Diavoli lavorano
Costanti e lenti -
Nessuno, si perde in un istante
Scivolare - è la legge del Crollo -

Nella prima strofa può sembrare che ED parli della vita come progressivo disfacimento verso la morte, ma poi il senso si chiarisce con la seconda strofa, che allinea in perfetta progressione una sorta di assedio della mente, prima all'esterno, con la ragnatela che avviluppa e la pellicola di polvere che copre, poi dentro, con il tarlo che rode nell'intimo e la primordiale ruggine disgregante, intimamente connessa con la nostra natura di esseri pensanti. Nella terza strofa è chiaro che si parla di fallimento, un perdersi che può essere lo scivolamento nel peccato ma anche nell'eretica consapevolezza di non sapere, un processo lento, che va avanti con metodica precisione lasciandoci per molto l'illusione di poterlo contrastare. Ma a conclusione di questo lento scivolamento non può esserci altro che un crollo preparato e prevedibile. In questa interpretazione i diavoli del nono verso non sono altro che i dubbi della nostra mente razionale, connaturati in noi ed esplicitati nella seconda strofa, sempre pronti a chiedersi il perché di qualcosa a cui la fede risponde in maniera netta ma insoddisfacente.
Al verso 9, nel manoscritto si legge in modo chiaro "devils", ma Franklin emenda in "devil's". Ho scelto la lezione originale, visto che la costruzione soggetto plurale e verbo mi sembra funzioni altrettanto bene di quella con il genitivo sassone ("il lavoro del diavolo / costante e lento").

 

J1123-F1187/1188

A great Hope fell
You heard no noise
The Ruin was within
Oh cunning Wreck
That told no Tale
And let no Witness in

The mind was built for mighty Freight
For dread occasion planned
How often foundering at Sea
Ostensibly, on Land

A not admitting of the wound
Until it grew so wide
That all my Life had entered it
And there were troughs beside -

A closing of the simple lid that opened to the sun
Until the tender Carpenter
Perpetual nail it down -

    Una grande Speranza crollò
Non si udì alcun suono
La Rovina fu dentro
Oh scaltro Naufragio
Che non profferì Parola
E non ammise Testimoni

La mente costruita per Carichi pesanti
Per spaventose occasioni progettata
Quante volte affonda in Mare
Apparentemente, a Terra

Un non ammettere la ferita
Finché non divenne così larga
Che tutta la mia Vita vi entrò
E c'era spazio intorno -

Un chiudersi dell'umile palpebra aperta al sole
Finché il tenero Falegname
In perpetuo non l'inchiodi -

Nell'edizione Franklin le poesie sono due: la F1187 comprende le prime due strofe, la F1188 le altre due. Nell'edizione Johnson la poesia è una, la prima strofa è di cinque versi (quarto e quinto uniti) e l'ultima di quattro (il primo finisce con "simple lid").
Propendo di più per l'ipotesi Franklin, soprattutto perché le due strofe finali mi sembrano più un'autonoma variazione sul tema che un seguito, anche se una variazione può benissimo seguire direttamente il tema. Nella prima (o nelle prime due strofe) c'è l'immagine di una sconfitta, di un dolore, di una rovina interiore che si manifesta in silenzio, senza ammettere testimoni, vissuta come una lacerazione senza possibilità di cura in una mente che, sia pure rotta a tutte le intemperie, non può evitare di affondare in quel mare oscuro e tempestoso, pur rimanendo apparentemente salda.
Nella seconda (o nelle ultime due strofe) l'immagine iniziale è simile, ma vista da un'altra angolazione: la ferita, quella che prima era la rovina, diventa una metafore della morte, un qualcosa che cerchiamo disperatamente di non accettare, di non ammettere, almeno finché non siamo costretti a farlo perché è diventata troppo estesa e assorbe tutto il nostro essere. Quando questo accade, quando il falegname inchioda il coperchio della bara, è come se le nostre palpebre, che fino ad un istante prima godevano della luce del sole e della vita, venissero anche loro inchiodate da quel tenero falegname, consegnandoci per sempre al buio.

 

J1280-F1215

The harm of Years is on him -
The infamy of Time -
Depose him like a Fashion
And give Dominion room -

Forget his Morning Forces -
The Glory of Decay
Is a minuter Pageant
Than least Vitality.

    Il male degli Anni è su di lui -
L'infamia del Tempo -
Deponilo come una Moda
E lascia spazio alla Sovranità -

Dimentica la Forza dei suoi Albori -
La Gloria del Decadimento
È uno Sfoggio più minuscolo
Della più esigua Vitalità.

Quando il corpo è ormai vecchio e stanco bisogna saperlo mettere da parte per lasciare spazio alla sovranità dell'anima, senza rimpiangere le energie della giovinezza, perché cercare di abbellire il decadimento, di rivendicarne le glorie, è uno sfoggio inutile: sarà sempre soccombente di fronte all'energia e alla vitalità di un corpo giovane, anche del meno dotato.
Nel manoscritto c'è una variante per gli ultimi due versi: "Is a denuded Pageant / Beside Vitality." ("È un denudato Sfoggio / Distinto dalla Vitalità."), dove la "gloria del decadimento" diventa uno sfoggio senza attrattive, che non ha niente a che vedere con la vera vitalità.

 

J1558-F1588

Of Death I try to think like this,
The Well in which they lay us
Is but the Likeness of the Brook
That menaced not to slay us,
But to invite by that Dismay
Which is the Zest of sweetness
To the same Flower Hesperian,
Decoying but to greet us -

I do remember when a Child
With bolder Playmates straying
To where a Brook that seemed a Sea
Withheld us by it's roaring
From just a Purple Flower beyond
Until constrained to clutch it
If Doom itself were the result,
The boldest leaped, and clutched it -

    Alla Morte provo a pensare in questo modo,
Il Pozzo in cui ci depongono
Non è che un Aspetto del Ruscello
Che minacciava non per ucciderci,
Ma per invitarci con quello Sgomento
Che è il Gusto della dolcezza
Allo stesso Fiore Vespertino,
Che ci adesca solo per accoglierci -

Ricordo quando ero una Bambina
Vagante con Compagni più arditi
Sin dove un Ruscello che sembrava un Mare
Ci tratteneva col suo ruggito
Di un Fiore Purpureo al di là
Finché indotto ad afferrarlo
Fosse pure Rovina il risultato,
Il più ardito balzò, e lo afferrò -

La morte vista nella sua profonda e contraddittoria natura. Da una parte un pozzo profondo e oscuro dove non si può che essere deposti e giacere, dall'altra come qualcosa che ci attira perché sembra prometterci il fiore purpureo (o vespertino, ovvero purpureo e declinante come il tramonto) dell'immortalità.
Il ruscello, con il suo flusso continuo, è il simbolo dell'incessante fluire della vita e della morte. Nella prima strofa è descritto con questa connotazione di flusso; sembra volerci annientare, ma lo fa soltanto per farci provare quello sgomento che vivifica per contrasto la dolcezza dell'abbandono a quel fiore della sera in attesa di accoglierci nel suo grembo. Nella seconda l'immagine diventa più concreta, il ruscello visto con occhi di fanciullo si trasforma in un mare senza fine e il fiore è ora una preda purpurea, che ci aspetta sull'altra sponda; afferrarlo significa probabilmente la fine di tutto, ma nulla potrà impedirci di farlo perché soltanto impossessandocene riusciremo a svelarne i segreti.

 

 


Le poesie di Emily Dickinson non hanno un titolo, a parte rarissime eccezioni. I numeri che le precedono si riferiscono alla numerazione attribuita nelle due edizioni critiche, curate rispettivamente da Thomas H. Johnson nel 1955 ("J") e da R. W. Franklin nel 1998 ("F").

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