FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 58
luglio 2021

Amici & Avversari

 

NEMICI?

di Elisabetta Frizzi



Mi è venuto a prendere nel pomeriggio. Uno di quei pomeriggi di fine estate con la luce già bassa e ovattata ma l’aria ancora umida che ti si appiccica addosso come un panno bagnato. Aveva fretta. Ha firmato le mie dimissioni e parlottato col dottore a bassa voce. Li potevo intravedere dal mio giaciglio, dove attendevo pronta e trepidante di poter finalmente tornare a casa. Del loro confabulare mi arrivavano solo echi non del tutto distinguibili dei quali percepivo alcune scarne parole. L’operazione è andata bene... Antibiotico sì, ancora per qualche giorno... Riposo... Dolorante. Potevo vedere il suo volto, oltre le spalle del dottore; la sua espressione era sollevata ma aveva proprio fretta di andarsene, si vedeva. Non solo, aveva uno sguardo che gli avevo letto non poche volte sul viso, colpevolezza sì, e vergogna.

***

Oddio che corsa, solo poche ore per finire di revisionare le bozze e quel finale che ancora non funziona. Lo dico ogni volta che mi devo organizzare meglio ma poi finisce sempre così, a poche ore dalla scadenza e ancora in alto mare. Bene, almeno la città è ancora immersa nei ritmi estivi e non c’è troppo traffico. Trovo persino parcheggio davanti alla clinica.
Entro, il dottore è lì e lei è già pronta per uscire. Firmo il modulo di dimissione e mi trattengo a parlare con lui. E’ lì, oltre il paravento, la intravedo ma abbasso subito lo sguardo sul dottore che fa da schermo tra me e quegli occhiacci. Sta producendo il suo migliore sguardo di disappunto, lo so bene, e tutto a beneficio mio. Non le darò questa soddisfazione, almeno non oggi. Che poi in fondo mi sento in colpa: l’intervento, il mio lavoro e l’averla lasciata sola ad affrontare tutto questo. Non sono mai venuto a trovarla, anche se è stato un ricovero breve e un intervento di quelli che i medici definiscono di routine. È un concetto, questo, che lascia i non medici sconcertati, quasi come se non avessero la vita di un essere vivente nelle loro mani ogni volta che operano. Il mio lavoro si potrebbe definire di routine, certamente non rischio di uccidere nessuno con un romanzo... al limite di annoiarlo a morte. Mi sto distraendo, invece il dottore prosegue soddisfatto a informarmi minuziosamente di come sia contento delle condizioni della sua paziente e a cosa devo provvedere al rientro a casa. Antibiotico e antidolorifico al bisogno, mi consegna le ricette e mi congeda offrendomi la mano che mi stringe in una presa delicata e decisa allo stesso tempo. Coraggio, siamo solo noi due ora.

***

Da quando è entrato in clinica non mi ha mai guardato negli occhi. Peccato perché stavo sfoderando uno dei miei famosi sguardi, quelli con il sopracciglio alzato degno della migliore Vivien Leigh. Mi ha baciato, dato una di quelle sue carezze ruvide e goffe a mano aperta e piena, quelle che di solito daresti a un grosso cagnolone un po’ tonto. Ma sempre con gli occhi bassi, stando ben attento a non incrociare i miei.
In macchina ha acceso la radio facendo almeno tre volte il giro completo di tutte le frequenze, apparentemente concentrato nell’affannosa ricerca di un notiziario. Almeno non ha messo una di quelle reti sportive che odio, dove ascoltatori trogloditi che a stento conoscono la loro lingua madre chiamano e sfoderano invece competenze calcistiche come se avessero appena finito il corso per allenatori di Coverciano. Mi ha rivolto sì e no qualche parola, generiche considerazioni sul tempo, sul caldo e su quell’estate rovente che tardava ad allentare la sua morsa. La città era ancora vuota, senza quel traffico folle e isterico che lo rende tanto nervoso al volante e spesso ancora dopo che è rientrato a casa.
Casa! Sono entrata con estrema lentezza, nella penombra delle persiane accostate, riappropriandomi gradualmente del suo odore e dei miei luoghi. La mia casa, tutta lì come se non fossi mai stata via. Fatico a ricordare quanti giorni siano trascorsi monotoni e uguali in clinica. Ma, a giudicare dal mio profumo che ancora aleggia in soggiorno, non credo sia passato poi molto. L’anestesia e i farmaci mi hanno frastornato parecchio. Non è solo quello però, mi accade in fondo ogni volta che ritorno a casa, quella magia per cui tutto mi appare insieme nuovo ed estraneo, come se lo guardassi per la prima volta e ne dovessi rientrare a poco a poco in possesso. Lui si deve essere accorto del mio spaesamento e mi lascia tempo. Mi versa da bere mormorando parole da cui a stento percepisco che ha fretta per una qualche consegna di un lavoro che ancora non ha finito. Bla bla bla. Sono troppo concentrata a cercare di provare a me stessa che tutto il contenuto di quell’appartamento mi appartiene davvero, per ascoltarlo. Ogni oggetto, ogni suppellettile, ogni mobile. Mi aggiro a lungo per il soggiorno soppesando ogni cosa, vedo il divano. Il mio divano. Mi ci sdraio infine mollemente e me ne resto languida a guardare la luce che piano piano affievolisce nell’avanzare del pomeriggio, mentre in sottofondo Lui ancora borbotta qualcosa sull’editore, le bozze, mannaggia a lui sempre all’ultimo momento.
Mi devo essere assopita, ormai è buio e Lui viene a sedersi sul divano accendendo la tv. Penso che anche Lui in fondo mi appartenga, al pari di tutto il resto del contenuto di quella casa. Decido di stabilire una tregua e mi rannicchio sulle sue gambe. E in quel momento sono di nuovo centrata nel mio mondo e nel mio spazio, lì nel mezzo del salotto. Mi abbandono e chiudo gli occhi sprofondando finalmente in un sonno rapido e vuoto.

***

Si è addormentata alla fine, sul divano accoccolata sulle mie gambe. Credo che mi abbia concesso una tregua ma sulla sua durata non ci scommetterei un soldo bucato. Temo che siano stati solo la stanchezza e i farmaci a farla crollare. Poco male, mi prendo ciò che viene per ora. Non ho voglia di affrontare il suo risentimento e sto cercando in tutti i modi di evitare di incrociare il suo sguardo. Il lavoro mi sta dando una grossa mano per il momento ma non durerà molto, la consegna è tra poche ore e poi mi toccherà inventarmi qualcos’altro. Sempre che io ce la faccia, del che dubito. Giulia mi ucciderà stavolta, me lo sento. Le ho fatto posticipare la data già due volte. Sei sempre il solito, non ce la fai proprio a rispettare una data che è una, non ti posso coprire sempre, ma quando cresci? Non riesce a scindere il piano personale da quello lavorativo e io, vigliacco, ne approfitto per trovare un appiglio alla mia indolenza.
Dorme profondamente, sogna di sicuro perché muove le palpebre e fa dei piccoli scatti. Qualcosa mi dovrò inventare. Domani. Per ora mi limito a prenderla in braccio e portarla a letto. La avvolgo un po’ nel lenzuolo che emana un odore di pulito e di sole. Ho addirittura fatto il bucato stamattina, proprio tutto pur di non finire il libro, maledetto me.

***

Mi deve aver portato Lui a letto perché è mattina e sono qui avvolta nel lenzuolo a fiori che profuma di bucato. Profuma molto, troppo, deve aver esagerato con l’ammorbidente come al solito. Sento fuori la via che si anima, la serranda del fruttivendolo che apre. Inizio a mettere a fuoco la stanza attorno a me e il letto, vuoto per metà. Non ha dormito, la consegna in fondo non era solo una scusa per evitarmi. Stiracchiandomi tutta mi tiro su e comincio a intravedere la possibilità di scendere dal letto. Mi gira ancora la testa e mi fa male tutto.
Lo trovo in cucina intento a prepararsi il secondo o terzo caffè. Ha lo sguardo già molto sveglio e emana un umore troppo energico per essere solo al primo. È anche lavato e sbarbato ora che lo guardo meglio, segno che le sue fatiche notturne devono essere state fruttuose. Infatti mi dà il buongiorno con un gran sorriso e mi annuncia, trangugiando il caffè, di dover uscire di corsa per fare un salto in biblioteca per un’ultima verifica e poi di dover incontrare Giulia per la consegna. Giulia. Nemmeno mi sveglio e devo già sentire quel nome. Non l’ho mai sopportata, lo sa, in genere ha il buon gusto di riferirsi a lei come “il mio editore”, oggi gli deve essere proprio scappato. Parla veloce e ad alta voce. Ancora dopo tanti anni non riesce a capire che per me il risveglio è un trauma dal quale è necessario riprendersi con estrema lentezza e che mi consente di recepire poche informazioni al minuto. Figurarsi nel mio stato attuale. Non sembra preoccuparsene minimamente. Finisce il caffè, infila una fetta biscottata in bocca, prende zaino e chiavi e lanciandomi un veloce e incomprensibile “A dopo!”, si chiude senza troppa delicatezza la porta alle spalle. Rimango lì e realizzo che non mi ha guardata, nemmeno stamattina.

***

Sono fuori. Oddio speravo proprio di farcela a uscire prima che si alzasse. Mi sono ingollato il caffè, ho parlato a raffica del libro terminato e del fatto che dovessi fare un ultimo salto in biblioteca e poi incontrarmi con Giulia. Dannazione. L’ho detto. Si sarà avvelenata. Mi è scappato, d’altra parte ero impegnato a riempire quel vuoto con un fiume di parole che scorressero veloci nascondendo il mio imbarazzo e non le dessero modo di chiedermi nulla. Stanotte è stata davvero produttiva, mi sono sbloccato e ho trovato come aggiustare il finale. In un giallo il finale è tutto. Potere della psicologia inversa: avevo deciso di tirarla per le lunghe sfidando le rampogne di Giulia pur di avere una scusa per non affrontare la realtà e invece è arrivato. L’ultimo punto dell’ultima frase. La biblioteca è una scusa, non ho proprio più nulla da aggiungere, neanche una virgola. Giulia non l’ho ancora avvisata in realtà. Penso che andrò a farmi due passi in spiaggia e, perché no, un bel bagno ristoratore.

***

E ora? Una mattinata o forse di più da sola, in casa, con questa spossatezza che mi rende pesante. Esco sul terrazzo. Avrà pure fatto il bucato ma questo lo ha proprio trascurato: erbacce, foglie secche e fiori appassiti in terra, piante assetate. Tutto ha un’aria triste e trasandata. Intorno un profumo molle e di disfacimento. La luce abbagliante che si riflette sulle piastrelle mi infastidisce, così rientro in casa e mi stendo sul divano. Quanto sono stata in clinica? Non riesco a ricostruire. L’idea che non mi sia mai venuto a trovare comincia a infastidirmi e un risentimento crescente si insinua nei miei pensieri. Non può sempre farla franca con la scusa del lavoro, perché glielo permetto ogni volta? Non è solo quello, non voleva venire, era a disagio. Perché la decisione è stata sua, solo sua, e Lui lo sa bene. Essere madre non era davvero una mia priorità, figurarsi, ma in un certo senso forse è la natura che sceglie per noi e io non volevo rinunciarci del tutto. Eppure l’ho lasciato fare. L’ho lasciato decidere. Mi sembra che ogni cosa della mia esistenza scivoli così, fra il mio fatalismo e le decisioni prese da altri al mio posto. Ma ora è come se il mio corpo, la mia natura, il mio intero organismo sentissero che questa opportunità la volevano e lottano contro una scelta che è stata quasi una violenza. Ne dobbiamo parlare, lo so, non posso restare da sola con questo rancore che mi cresce, quello sì, dentro.

***

Sono un vigliacco. Bracciata. Sono uno stronzo. Bracciata. Sono un bambino. Bracciata. Irresponsabile. Bracciata. Ha ragione Giulia. Bracciata. Scappo sempre da tutto. Il bagno ristoratore non ha funzionato, maledizione. Esco dall’acqua, mi asciugo rapidamente, mi rivesto e mi infilo in macchina. Guardo il plico dei fogli accanto a me sul sedile, compongo il numero di Giulia con le mani ancora umide. “Pronto?” “Sei uno stronzo, ti ho chiamato dieci volte, ma dove sei?” “Eh sì Giulia scusami, ho finito, sto venendo in ufficio a consegnarti tutto.” “Uhm, un miracolo… mi devo fidare? Veramente hai finito? Ma questo è rumore di onde? Non mi dire che sei al mare, brutto...” “Non ti sento, sto arrivando, cia...” Attacco il telefono e accendo il motore. Ora so quello che devo fare, il mare, alla fine mi ha rinfrescato la pelle e le idee.
Rientro a casa che è ormai tardi. Lei è ancora sul divano che dorme, non mi ha sentito. La guardo allungata sui cuscini. La luce opaca del tramonto la illumina in parte. È bella, sinuosa, il corpo ancora agile e tornito nonostante il periodo di inattività. La cicatrice si intravede appena nella penombra ed è lì a ricordarmi quello che ho fatto. Sono già stanco di questa guerra, non la voglio. Ho bisogno di lei e del suo perdono. Mi siedo accanto e comincio a carezzarla. Non appena apre i suoi occhi inizio a parlare con voce bassa e dolce, prima che quel rancore si riaffacci a fulminarmi.

***

Ah beh, pure al mare sei stato… Biblioteca, sì certo. Lo sento l’odore di salsedine sulla tua pelle, l’ho sentito appena sei entrato. Ma faccio finta di non essermi accorta di te e che nulla abbia turbato il mio sonno. Figurati, ho sentito persino la tua macchina mentre parcheggiavi sotto casa e quei tuoi passi pesanti che salivano i gradini. Non ti voglio dare la soddisfazione di essere qui pronta a parlare e a perdonarti. Sei tu che mi devi venire a cercare e, stavolta, non te la farò facile.

***

Che stronzo sono stato? Mi puoi perdonare? Ho deciso per tutti e due, mi sono imposto senza nemmeno chiedermi se era quello che volevi anche tu. Non lo so, forse alla fine la natura ci impone dei ritmi, dei momenti, delle occasioni e non è giusto ignorarli, piegare tutto alle nostre esigenze e ai nostri, di ritmi. Sono stato un egoista. Ti voglio bene dal primo istante che ci siamo trovati, proprio lì in spiaggia. Ci sono stato proprio oggi, sai? Da quel momento non posso immaginare di stare senza di te o questa casa priva della tua presenza, discreta e invadente, prepotente e schiva, libera eppure così dipendente. Ti chiedo scusa davvero, ora ho capito.

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Volevo farti gli occhiacci ma non ce l’ho fatta. Eri lì e hai cominciato a parlare con quella tua voce così calda che non ho potuto. Ti sono stata a sentire, rapita, attenta, e ho ascoltato tutto in silenzio, guardandoti fissa e concentrata fino all’ultima parola. Solo allora ho chiuso gli occhi. Poi ho strofinato il mio muso nella tua mano e ho cominciato a fare le fusa.


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