FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 56
settembre-dicembre 2020

Caos

 

FRATELLO VENTO

di Carola Cestari



Boris aiutò il nipote ad alzarsi da terra e guardò con attenzione la ferita al ginocchio. Con sollievo notò che si trattava solo di una sbucciatura. In fondo non era successo nulla: era inciampato mentre correva con un compagno di giochi. Il ragazzino però, continuava a piangere, più per lo spavento che per il dolore. Asciugandogli le lacrime con la mano grinzosa, per distrarlo, decise di raccontargli una storia.

Iniziò dal giorno in cui, da bambino, scese dal treno e sollevò il bavero per difendersi dal freddo. Quel cappotto glielo aveva dato il fratello maggiore, ormai cresciuto: era scuro e di qualche taglia troppo grande. L’aria gelida si faceva spazio facilmente al suo interno. Boris piangeva silenziosamente: in cuor suo pregava addirittura di poter annegare nelle proprie lacrime. Sarebbe stato un bel modo di morire, pensava, al caldo, mentre intorno a lui, in quel momento, soffiava un vento gelido e la neve cominciava a cadere. I fiocchi giungevano a terra, uno dopo l’altro, così come il gruppo di ragazzini appena scesi, a grappoli, da quel vagone sporco e maleodorante. Erano stati necessari tre lunghi giorni di viaggio per arrivare a Kolyma, nella Siberia settentrionale, nel mezzo del nulla delle steppe russe e al centro del suo nuovo futuro.

Boris aveva compiuto dodici anni la settimana precedente, ma si sentiva ormai un adulto da quando suo padre era stato prelevato a forza dai militari, con l’accusa di azioni sovversive contro lo stato. Sua madre si era recata in cerca di notizie presso il comando di polizia, ma non era più tornata. A quel punto i fratelli maggiori si erano dati alla macchia, temendo rappresaglie, ma Boris si era rifiutato di lasciare la casa, di abbandonare le galline e il cane, per fuggire verso il nulla. Sarebbero tornati, pensava, e lui li avrebbe attesi. Cercarono di convincerlo, ma a nulla valsero le loro parole. Lui rimase lì. A tornare invece, furono i soldati, che lo trascinarono in un centro di smistamento per dissidenti e da lì, lo fecero partire con altre centinaia di figli di indesiderati verso le zone di confine, dove si trovavano i campi di lavoro dei famigerati gulag.

Ora Boris si trovava in piedi sul binario, tremante, mentre spirava un vento che creava mulinelli con le parole, i singhiozzi e le urla: il suo sguardo terrorizzato vagava tutt’intorno, senza vedere null’altro che desolazione, spazi vuoti e ghiaccio. Ma il vento non si fermò in quella radura affollata di corpi. Spirò fra i monti, si insinuò nelle valli e galleggiò sui fiumi, attraversando i confini delineati dagli uomini e invisibili alla natura, fino ad arrivare in Polonia, dove un altro treno stava scaricando sulla banchina il suo carico. Le stesse folate acuminate e gelide investirono il corpo del tredicenne Aaron, arrivato ad Auschwitz con i genitori e la sorella Hanna: i due ragazzi si trovavano entrambi in piedi, a centinaia di chilometri di distanza, su due diversi binari, ignari l’uno dell’altro. Solo quel vento gelido li conosceva entrambi e soffiava feroce intorno a loro, ululando e spaventandoli.

Aaron scese dal treno e si incamminò in fila mentre intorno i soldati urlavano in una lingua dura e sconosciuta contro persone spaesate e stanche, sporche e affamate, dopo i giorni di viaggio. Vecchi, bambini e donne furono velocemente separati dagli uomini. Bruscamente apostrofati, intimoriti dalle armi spianate, fino a quel primo colpo di fucile. Aaron fu scosso da un tremito e cercò l’origine del rumore. Vide un uomo a terra. Capì che aveva cercato di trattenere a sé la moglie e il neonato che lei teneva in braccio, contravvenendo agli ordini. Non vi era stato spazio per la discussione. Gli avevano sparato diritto al cuore, senza esitazione. La donna era stata strattonata via, urlante e recalcitrante. Un silenzio improvviso era calato in mezzo alla folla, dividendo per sempre il tempo in un prima e un dopo, dove nulla ebbe più senso e tutto divenne un incubo caotico, ferale e inimmaginabile.

Aaron era alto di statura, come il padre e quando gli fu chiesta l’età non ebbe esitazioni a sostenere di essere un quindicenne, per poter essere inserito nel gruppo degli uomini atti al lavoro. Tutto sembrava assurdo in quel luogo sconosciuto dove i soldati non avevano neppure le fattezze di persone, avviluppati nei loro pesanti cappotti. Se alzava lo sguardo, vedeva solo filo spinato, torrioni e baracche di legno. Dov’erano le botteghe e le strade? Che posto era mai quello, dove esisteva solo un binario? Guardò più in alto: un temporale si stava avvicinando e nuvole scure, pregne di pioggia, avrebbero a breve scaricato su di loro gocce pesanti e fredde, che li avrebbero intirizziti nell’attesa di venir destinati ai dormitori. Ma dov’era il loro Dio mentre accadeva tutto ciò? Si nascondeva forse in quelle nubi minacciose? Era adirato con loro e li stava mettendo alla prova? Mentre ancora pensieroso cercava di capire dove si trovava, non poteva evitare di spaventarsi di fronte ai modi brutali con cui i militari spingevano e strattonavano anziani ritenuti lenti e inefficienti nel comprendere gli ordini o disporsi nelle file corrette.

Aaron sentiva attorno a sé il vento che l’avvolgeva nelle sue spire, come un pericoloso serpente. Folate ghiacciate indugiavano sul suo viso, gelandone i muscoli in un ghigno triste. Guardava le foglie che si alzavano dal suolo in vortici confusi che giravano attorno ai suoi piedi e sembravano far presagire il suo futuro. Poi correvano via veloci come la corrente di un fiume, spirando fra i monti per raggiungere Boris, ignaro che a una tale distanza un suo coetaneo stesse vivendo esperienze simili ma allo stesso tempo diverse, come differenti erano le lingue che parlavano e il nome del Dio che pregavano, la sera, nelle cuccette delle loro baracche.

I due giovani passarono vari mesi nei rispettivi inferni, maledicendo i loro aguzzini e lottando per sopravvivere alla fame che li accompagnò in ogni singolo momento delle loro estenuanti giornate di lavoro, alle percosse gratuite e ripetute, anche ai sensi di colpa che li divoravano quando capitava loro di scampare alla morte, a dispetto della loro volontà. Ogni giorno sembrava uguale al successivo e a quello precedente: nessuna speranza abitava in quelle baracche e la morte non sembrava di certo più terribile della vita.

Nel giro di poche settimane perirono la sorella e la madre di Aaron: l’una troppo piccola per resistere alla fatica, l’altra colpevole di aver sottratto un po’ di cibo. Resistette il padre e per Aaron era un conforto rivederlo la sera, potersi stringere a lui la notte in cerca di tepore e scambiare qualche parola di conforto.

Un pomeriggio non fece più ritorno e il giovane capì che il suo corpo doveva essersi arreso. O forse l’aveva fatto la mente, ormai obnubilata dalle privazioni e dagli orrori. Impotente, Aaron guardò il cielo e scorse l’usuale fumo nero che usciva dai camini dei forni crematori: una cenere sottile ricadeva a terra, ricoprendo ogni cosa di polvere. Capì che suo padre era ormai parte di quegli impercettibili granelli che fluttuavano nell’aria che respirava.

Passò il tempo, lentamente e dolorosamente per i due ragazzi, fino a quando la guerra finì. Poco alla volta, ci fu il ritorno alla vita. Il mondo riprese con lentezza il suo andamento e il caos sembrò trovare, temporaneamente, una sua collocazione stabile, trasformandosi in pace. Ma non fu semplice per Aaron che non aveva più nessuno. Con mezzi di fortuna, tornò al suo paese e si recò nella casa di famiglia, che trovò occupata da persone sconosciute e ostili. Non aveva con sé i documenti di proprietà né gli era rimasta la forza di battersi: emigrare fu l’unica soluzione che riuscì a ipotizzare.

La logica conseguenza fu tentare di raggiungere alcuni lontani parenti che vivevano negli Stati Uniti, per apprendere un’altra lingua e conoscere nuovi luoghi. Gli anni del campo furono tumulati nelle viscere più profonde e per molto tempo non ne volle più parlare. Essere sopravvissuto gli sembrava una condanna, più che una fortuna.

A centinaia di chilometri di distanza, anche il giovane Boris riuscì a scappare in modo fortuito. Lavorava in una miniera di minerali; il lavoro era sfiancante e l’ottundimento della mente totale. Ogni giorno poteva essere l’ultimo: per la fame o per la fatica, per un piede messo in fallo o per il capriccio di un sorvegliante. Il caos era sovrano e tiranno della sua esistenza: non aveva nessun controllo su di essa, che dipendeva totalmente dal caso e dalla volontà altrui. Un giorno, probabilmente a causa di una sacca di gas intrappolata in una falda, ci fu un’esplosione.

Il ragazzo, come i suoi compagni, soffriva a causa di pidocchi e scabbia ed era solito graffiarsi a sangue la cute, scorticandosi con le unghie perché il prurito non gli dava tregua. Il suo corpo presentava vistose cicatrici. A seguito della deflagrazione, si trovò catapultato lontano dagli altri, dietro a un cespuglio, in un’area poco visibile. Appena sollevò il capo, vide il caposquadra accorrere e cercare di capire dai corpi smembrati, sparsi ovunque, chi dei lavoranti fosse deceduto. Sentì chiamare il suo nome, essendo stato trovato il capo maciullato di un prigioniero con evidenti abrasioni e scambiato per lui. Ritenuto morto, nella confusione che seguì, non fu più cercato. I feriti furono uccisi e il lavoro riprese velocemente.

Boris attese un tempo che gli parve interminabile, per poi correre via, ferito e debole, in mezzo alla neve e alle sterpaglie, fino al rudere di un vecchio edificio dove si nascose. Qui svenne per il dolore e lo spavento. Delirò a lungo, si svegliò e vaneggiò, sempre temendo di essere catturato. Il giorno dopo riprese il cammino. Quelle terre steppose non offrivano né riparo né cibo: si coprì con le pelli degli animali che riuscì a cacciare e si nutrì con i pesci catturati nei fiumi. Si spostava come una preda, guardingo e timoroso, finché fu trovato da una coppia di anziani contadini, che lo curarono e rifocillarono. Rimase con loro per più di un mese, nascosto in un pertugio sotto le assi della cucina.

Risaliva per mangiare e riscaldarsi: grazie a loro poté riposarsi e riprendere le energie, soprattutto la fiducia nel genere umano. Kolyma non rappresentava più solo rassegnazione, caos e dolore, ma anche la gratuità di quei poveri contadini che rischiavano la vita e il poco che avevano per uno sconosciuto. Boris, seppure sofferente, ricominciò a guardare al futuro con esitante speranza e si adoperò per raggiungere i fratelli. Era venuto a sapere che nel frattempo avevano lasciato la Russia e attraversato l’oceano per cercar lavoro nel continente americano.

Lavorò e risparmiò per poterli raggiungere: arrivò negli Stati Uniti e si recò a Chicago, dove aveva appreso che si erano trasferiti. Si stupì però subito, di trovarvi un vento impetuoso e freddo che gli ricordò quello delle steppe. Gli sembrò un buon auspicio questa volta, perché quelle folate che all’inizio odiava, erano poi divenute compagne di fatica. Le anelava quando, a fine giornata, usciva dalla miniera nella quale l’aria era stagnante e soffocante. La brezza gelida e viva che lo riaccoglieva all’uscita, gli sembrava quasi una carezza.

La ricerca dei fratelli fu lunga e faticosa, ma alla fine riuscì a riabbracciarli. Si erano ormai integrati nel nuovo paese e per aiutarlo a fare altrettanto, lo iscrissero a una scuola locale. Lì, un mattino in cui era salito sul tetto dell’edificio per ascoltare il suono delle correnti d’aria, incontrò un altro ragazzo di origine straniera, di nome Aaron. Fu così che i due giovani si incontrarono e condivisero le loro storie rocambolesche e terribilmente simili, che nessuno dei due aveva avuto fino a quel momento, il coraggio di raccontare. Erano cresciuti fra privazioni e percosse: ci volle del tempo per intendersi e fidarsi, ma divennero inseparabili.

Questo raccontava l’anziano al giovane nipote, che aveva ormai scordato la scaramuccia con il compagno di giochi e ascoltava rapito i ricordi di guerra. Il ragazzino comprese l’origine del suo nome, datogli in ricordo dell’amico. Con la curiosità tipica dei bambini, gli domandò se il vento fosse mai stanco di soffiare, visto che lo faceva da anni, fin da quando anche il nonno era un bambino, come lui. L’anziano guardò le foglie autunnali indomite che gli turbinavano attorno in un caos di colori variegati: nel giallo gli sembrò di scorgere il viso dell’amico, in quelle rosse la madre e la sorella, mentre la polvere che le circondava gli ricordò il padre. Si voltò verso il nipote e con un sospirò gli rispose: “Spero proprio di no. Mi auguro che non smetta mai”.

carola.cestari@libero.it