FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 55
maggio/agosto 2020

Cenere

 

I REDUCI

di Armando Santarelli



Una processione tanto sciatta e disordinata non la ricordava nessuno in paese; la Piazzetta Vecchia ribolliva di espressioni di stupore e di sdegno. Ma i giovani col camice e la mantellina rossa della Confraternita di San Giorgio continuavano tranquillamente a parlottare e a scherzare. Il suono della campanella ci chiamò nella Chiesa di San Sebastiano per la messa; io, guardando la statua del Santo trafitto, pensavo che come frecce, di lì a poco, si sarebbero scagliate contro quei ragazzi le reprimende del professor Mattei. Non vedevo l’ora di scambiare due parole con lui. Sapevo che mi sarebbe toccato il ruolo dell’interlocutore che, per non sfigurare, “deve” ogni tanto dire qualcosa. Ma era il prezzo che si pagava volentieri per il brillante eloquio di chi aveva sempre sostenuto che una buona conversazione avrebbe dovuto rappresentare “una ricreazione fisica non meno che spirituale”.

L’avevo osservato a lungo quando, all’arrivo della processione, si era quasi accasciato contro il portale della chiesa. Tutti i capi di vestiario che indossava – il doppiopetto risicato, i pantaloni troppo larghi, le scarpe a punta, il cappello di feltro – erano in disaccordo fra di loro. Ma la contraddizione più curiosa della sua persona era delineata nel volto, dove una barbetta risorgimentale e le rughe dell’età contrastavano con la delicatezza delle fattezze, in special modo della bocca piccola e infantile, nella quale sembrava possibile riconoscere l’immaturità emotiva del figlio unico che – come lui stesso mi aveva rivelato – la madre aveva coccolato ben oltre l’adolescenza e il padre aveva innalzato, nei discorsi di famiglia, al rango di “kronprinz”.

“Ma io mi considero un mezzosangue”, amava precisare con una punta di civetteria quando il discorso cadeva sulle sue origini: “Ho lo spirito nell’amata Firenze del mio babbo, ma il mio cuore è qui, a Trellano, la terra della bell’anima di mia madre”.

Tuttavia, dopo il ritiro dal lavoro, in paese tornava solo per le feste patronali e nei mesi estivi. Non sapevo molto di lui, né avevo mai avuto la curiosità di parlargli, finché un giorno mi venne incontro con un sorriso di sorprendente amabilità: “Sei il nipote di zì Vittorio, vero? Di certo saprai che tuo nonno era quello che fabbricava le mongolfiere e sparava i fuochi d’artificio… Ognuno aveva il suo compito, ragazzo mio, anche se erano tutti “zio“ o “compare”. Invece, vedo che adesso non portate neppure i nomi dei vostri versatili nonni”.

Rimasi di sasso, ma era una sorpresa piacevole la mia, perché quell’uomo distinto, ultimo rampollo della nobile famiglia de Horatiis, non mi aveva affatto comunicato quella naturale soggezione che ci pervade in presenza di persone che stimiamo importanti o di cui temiamo il giudizio. Scambiammo solo poche parole, perché andava di fretta. Ma il riferimento a mio nonno e la cortesia con cui si era espresso avevano lasciato il segno; fui io, da allora, a cercare le occasioni per approfondire la sua conoscenza.

Finita la messa lo attesi sul sagrato della chiesa e gli chiesi se potevo accompagnarlo per la rituale passeggiata in Piazza Maggiore.

Fece un gran sorriso: “Caro Giulio, il piacere è mio”.

“Professore, ho visto quel gesto di… di sconforto”.

“Ah, ragazzo mio”, replicò scuotendo la testa, “magari fosse solo sconforto! Ci rimproverano che siamo pedanti, che viviamo di nostalgie, di elogi del tempo che fu… Ma l’hai visto coi tuoi occhi: un ragazzino che faceva il mazziere! Che reggeva il simbolo dell’ordine della processione! Noi la mazza ce la disputavamo scomodando le tasche! E prima di noi i nostri papà e i nostri nonni se la contendevano a suon di messe e di novene! Dimmi, chi erano quei giovanotti che per poco non sbattono lo stendardo addosso alla gente? E Iolanda Marchesi? Gettare soldi sulla statua di San Sebastiano, e i ragazzini in camice e cotta che si litigano le monete! Finis Poloniae!”

“Ha ragione”, sussurrai, ma dovetti reprimere una risatina. Solo qualche mese prima, il professore aveva dato alle stampe un volumetto in cui esaltava ogni aspetto della vita in paese, comprese “le toccanti processioni, che non son meno di una decina e sempre pregne di imperitura devozione!”.

Avevo letto con piacere il libretto, dove aveva condensato la storia del paese, intrecciandola spesso con quella di famiglia. Aveva dedicato un intero capitolo alla sua amata dimora, “La Romitina”, ultimo possedimento di un patrimonio un tempo molto cospicuo. Adorava quella che definiva “la vecchia casa che si appresta a diventare antica”. Nel libro aveva commentato: “Oh, non avere problemi economici, come i miei antenati di due generazioni fa! Avrei pensato solo a te, Romitina, e a divorare classici e libri di storia!”.

Con lo stesso candore, non aveva dissimulato la nostalgia per i tempi in cui anche i più anziani, vedendolo passare, lo salutavano per primi, togliendosi rispettosamente il cappello.

“Non che fosse giusto, non era giusto né bello”, osservava quando qualcuno glielo faceva notare, “ma se dicessi che quella deferenza non inorgoglisse l’imberbe giovinetto, beh, sarei un bugiardo”.

“Che tristezza”, riprese a dire mettendomi una mano sulla spalla. “Ah, i nostri tempi di timorati di Dio! E adesso, questi cristianucci, la cristianità stabilita…”.

Non avrei voluto rincarare la dose, ma non potei trattenermi: “Professore, oggi abbiamo toccato il fondo. Quasi nessuno voleva mettersi il camice, tanto che Don Enrico aveva minacciato di non farla uscire, la processione. Poi, un paio di anziani hanno insistito e gli hanno fatto cambiare idea”.

Lo vidi sussultare: “Dunque, ha ceduto! Ah, Don Giuseppe si starà rivoltando nella tomba! Lui sì che era l’incubo dei senza fede! Ti hanno mai raccontato come umiliò il bolscevico di casa nostra? In verità, nutriva stima per il segretario del Partito Comunista, Gildo Proietti, perché era un uomo onesto e francamente si rivelò un buon sindaco. Ma quando nel 1952 i comunisti vinsero le elezioni, il parroco, alla vigilia della festa di San Sebastiano, bussò alla casa di Gildo e gli disse serafico: ‘Caro Sindaco, sai bene che Papa Pacelli ha scomunicato voi comunisti, perciò domani non presentarti alla santa messa. Se lo facessi, sarei costretto a non far uscire la processione, e il paese ne soffrirebbe’. Ah-ah-ah! E non solo! Nessun bambino ebbe mai un padrino comunista, l’Arciprete non li avrebbe battezzati! E quando qualche compagnuccio insorse, li incenerì nell’omelia: ‘Non si agitino, i negatori di Dio! La Chiesa ha come scopo la salus animarum, e io sono un ministro della Chiesa, non una banderuola!’ Ah-ah-ah! A quel punto, però, successe un fatto inaudito. Gildo obbedì al parroco, ma non aveva digerito l’umiliazione, e si mise in testa di far aderire alla Chiesa Valdese tutti gli elettori comunisti. Telefonò ai valdesi di Roma, li invitò in paese e organizzò una riunione nella sede del partito.

Quelli cominciarono: ‘Siamo credenti, ma la laicità delle Istituzioni è indiscutibile, per noi’.

‘Ottimo’, commentò Gildo, ‘è un principio fondamentale, questo!’

‘Ci riconosciamo in un’ideale di povertà evangelica, e per noi ci si può salvare solo seguendo l’insegnamento di Cristo’.

‘Perfetto, allora vuol dire che siete dei veri cristiani’.

‘Al Papa non riconosciamo nessuna autorità spirituale, né veneriamo i santi, come fanno i cattolici’.

Gildo gongolò: ‘Benissimo, che ce ne facciamo di tanti peccatori che sono stati elevati agli onori degli altari?’.

‘Inoltre, non veneriamo la Madonna, perché non crediamo…’

‘Alt!’ esclamò il nostro Sindaco. ‘Non credete alla santità della Madre di Cristo? Non dovremmo più venerare la nostra Patrona, per la quale facciamo l’infiorata più antica d’Italia? No, non se ne fa niente, scusate l’incomodo, arrivederci e grazie’. Ah-ah-ah! Si professava ateo il vecchio Gildo, ma la devozione per Maria lo commuoveva. Pochi lo ricordano, ma qualche volta partecipò persino alle rogazioni. Tu ricordi i fedeli che a maggio salivano la Via dei Colli pregando? Dopo, le nostre parrocchiane proseguivano su per la montagna e andavano a raccogliere i narcisi, per adornare gli altari della chiesa. Ah, come amava quei candidi fiori la mia povera mamma! Non glieli facevano mancare mai, i nostri fidi coloni! Per loro, noi eravamo ‘democratici’. Sai che cosa voleva significare?”

“Lo so, nel linguaggio del popolo voleva dire socievoli, aperti”.

“Ricorda caro Giulio, chi non lascia un buon ricordo, poca gioia ha nell’urna! Ai miei predecessori è stato concesso, a me non so… Io, per parte mia, ho scritto col cuore le mie noterelle, eppure ho avuto i miei bravi censori. Chissà se hanno davvero meditato su quel titolo: Il piacere di raccontare Trellano. Il piacere! Ma chissà che cosa ne avrebbero detto i miei antenati! Proprietari e gestori di boschi immensi, costruttori di mulini e di frantoi, di palazzi e case coloniche. Però, che cosa avrebbe mai potuto fare un povero Preside di Scuola Media costretto in città da cento incombenze…”

“Professore, non sarebbe stato facile per nessuno conservare tutto quel patrimonio. Ci sono quelli cui è andata peggio. Ha presente il palazzo Tiberi? Lo sa che è stato venduto all’asta?”

“Davvero? La bellissima dimora della signora Tiberi? E che le è successo?”

“I suoi discendenti sono andati in fallimento. E all’asta il palazzo è stato venduto per un centinaio di milioni. L’ha acquistato Paolone, il figlio del vecchio Oreste”.

“Buon Dio! Abbatterà i capitelli e raschierà gli affreschi dalle pareti, immagino. Che splendida magione era! Ricordo un piccolo ascensore che avevano ideato per portare i cibi dalle cucine alla sala da pranzo; e poi la corte col pozzo, che sembrava il chiostro di un convento. Figliolo, Omnia tempus habent! Proprio a uno dei Tiberi, il padre della signora, fu riservato l’ultimo funerale more nobilium! La salma, nella bara scoperta, seguì, per le strade del paese, il percorso della processione, il privilegio che spettava ai nobili agnati. Ma sai, i tempi cambiano. E poi… abbiamo insito il germe dell’autodistruzione, noi. Il mio prozio Torquato, geniale costruttore, ma amante del vizio e del gentil sesso, dissipò gran parte dei suoi averi giocando a poker. E che dire di zio Piergiorgio, il più faceto di tutti gli spiriti? Si era convinto, e aveva convinto anche i suoi, che sarebbe morto all’età di settantun anni, proprio come suo padre, nonno Eraldo buonanima. Così, dopo i sessant’anni, si diede alla bella vita: donne, gioco, viaggi, si concesse tutto; ma il felice elisir lo fece campare sin quasi a novant’anni, col generoso contributo dei parenti ovviamente, perché già settant’anni aveva dato fondo a tutte le sue sostanze. Sei mai entrato, al cimitero, nella cappella gentilizia della mia famiglia? Troverai un epitaffio: ‘Uomo eclettico e bonario, di carattere beffardo e burlesco, amante della vita, seppe coniugare serietà e lepidezza, impegno e svago. E se verrà ricordato anche per le sue bizzarrie, non trascurino, i posteri, l’operato di insigne ingegnere e capace amministratore’. Straordinario, vero? Ah, caro zio Piergiorgio! Che non seppi amare se non nel segreto del cuore, perché troppi pregiudizi occupavano la mia testa di bambino! Zio onesto, leale, libero, e per questo odioso a chi ragionava col cervello altrui! Sai Giulio, non erano teneri i commenti che lo riguardavano, a cause delle sue stranezze. Ma quando decise di concorrere come Sindaco, ebbene, bastarono due comizi a Piazza Maggiore per ottenere una vittoria quasi plebiscitaria. E il giorno della proclamazione a Sindaco invitò gli elettori nelle cantine di Via Sotto le Mura, sparò alle botti con la pistola e strillò: ‘Beviamo, adesso!’

Il professor Mattei scosse il capo più volte: “Che tempi! Che spontaneità! Mi pare di rivederlo nonno Eraldo, seduto all’ombra del casale del Poggio, la pipa in bocca, sempre pronto a dare consigli e pareri, coi quattro codici e l’inseparabile vocabolario Melzi sul tavolo di pietra! E Giotto, il fido fattore dalla voce chioccia che pende dalle sue labbra… Vegliò nonno buonanima ogni notte durante l’agonia, diceva che voleva essere lui a raccogliere l’ultimo respiro del suo padrone. Com’è lontano, tutto ciò! Come appare assurdo! Eppure, nessuno si lamentava, la vita scorreva laboriosa e lieta per tutti… Che nostalgia di Bruno, l’ultimo maniscalco, che mi faceva vedere come ferrava i cavalli, promettendomi di mettermi a parte dei suoi segreti, se avessi studiato con profitto! E di Giovannino, che arrivava da Pietrafesa coi suoi dieci asinelli, che proseguivano da soli, memori della strada, quando il padrone indugiava a parlare col babbo! Quanti volti, quante persone belle, quanta poesia della vita! E ora, la fede oltraggiata, la processione déchirée…”.

Avevamo incrociato parecchie persone mentre passeggiavamo, e il professore, pur porgendo e ricambiando i saluti con garbo, aveva evitato di fermarsi. Ma quando ci trovammo di fianco a Gino, il vecchio procaccia, troncò il discorso e lo chiamò: “A Gino non si nega mai un saluto. Buongiorno, come stai carissimo?”.

L’anziano si voltò e fece un mezzo sorriso: “Non c’è male professore, e lei?”.

“Bene, grazie, anche se oggi… Giulio, devi sapere che Gino è stato il procaccia più bravo di tutta la zona. Ma prima ha lavorato anche per la mia famiglia, vero?”

L’uomo si limitò ad annuire, allora il professore proseguì: “Come va, mi chiedevi? Gino, hai visto la processione, no?”.

“Non ne parliamo… Sono arrivati in ordine sparso! È da ridere”.

“Siamo scesi in basso, non c’è che dire. Stasera andrò dal parroco, bisogna fare qualcosa. Comunque, i segni c’erano già, caro Gino. I cuori non si scaldano più al suono della diana e allo scampanio mattutino…”

Il vecchio procaccia fissò il professore, i suoi occhi vacillarono per un istante; poi lo vidi stringere nelle mani l’inseparabile coppola e piegare la testa da un lato.

“Professore”, cominciò, “lei ha ragione per quello che è successo oggi. Ma non si abbatta più di tanto. Vuole sapere perché le nostre processioni erano così belle, così… come si dice, solenni? Vuole sapere perché partecipavano tutti, perché c’era quella devozione, pure un po’ di fanatismo? Glielo dico io: la fede, sì. Ma c’era qualcos’altro: quando avevo passato dieci ore a vangare, a Fraschetto o alle Cannavine, non mi pareva vero che potessi mettermi il camice e andare a spasso con la processione. Perché mio padre stava lì, pronto a comandarmi a qualche lavoro pure di domenica, se c’era bisogno. A quei tempi mica esisteva la televisione, le macchine, il pallone, i divertimenti. Erano le feste i divertimenti…”.

Il professor Mattei aprì la bocca a un sorriso, e si voltò verso di me: “Hai sentito, Giulio? Non è un’osservazione peregrina, altroché! Non ci avevo pensato, devo ammetterlo. Ti ringrazio caro Gino, riesci sempre a dire cose interessanti. Mi ero ripromesso di rivedere le mie note, dovrò aggiungere anche questo, se voglio essere onesto. Beh, ora sono costretto a lasciarvi, scusatemi. Rosetta, la vicina, mi ha promesso un piatto di fettuccine fatte in casa. Buon pranzo anche a voi e buona domenica”.

Quando si era allontanato, fissai il vecchio procaccia: “Gino, scusa, eri sincero, o volevi… insomma hai voluto esagerare un po’?”.

Tacque un istante, prima di rispondere: “Senti, quello che ho detto è vero, mica mi invento le cose. Però, è pure vero che tanta gente ha ancora un certo risentimento verso di loro. Lui un po’ mi fa pena, è vedovo, è rimasto solo… Ma siamo sempre stati uno di qua e uno di là. Lui monarchico e io comunista, lui religioso e io miscredente. E prima uguale: lui ricco e io povero, lui istruito e io ignorante, loro signori e noi servi. Non t’ha detto dei suoi antenati? Gran signori, grandi benefattori, dice sempre così. Ma va’… Avevano in mano tutto, erano i nostri padroni, comandavano a piacimento. Questa è la verità”.

“Era una società diversa, Gino, se hai il potere non vuoi perderlo. Si comanda solo in un modo, non cambiando niente”.

“Anche questo è vero. Sor Carlo è morto quasi povero perché era troppo buono. E il professor Mattei, sì… è un po’ come lui. S’era sempre visto poco in paese, adesso viene spesso. L’hanno visto al cimitero, gira fra le tombe e le lapidi, scrive e scrive. Si ficca dentro le case dei reduci dell’ultima guerra e si fa raccontare tutto quello che si ricordano. Memmo e Giuseppe m’hanno detto che mentre raccontavano, lui ogni tanto zompava di gioia. Loro parlavano di fame, di morti in Grecia e in Russia, e lui tutto contento… Voglio vedere se scriverà quando, al tempo del Puzzone, i suoi hanno pestato e purgato Bebetto, perché non voleva piegarsi. O di quando andavano a chiedere a suo nonno di prestargli un po’ d’olio e lui rispondeva: ‘Te lo presto, te lo presto, però manda tua moglie a ritirarlo’. Sono sempre stati dalla parte giusta, se lo ammettesse non parlerei così. Uno di noi, vuole essere. Allora si consoli, ci riuscirà, fra poco saremo dalla stessa parte, staremo assieme, finalmente”.

“Dove?”

“A camposanto”, rispose duramente.

Dopo un cenno del capo, voltò le spalle e scomparve dietro l’angolo della chiesa.

Mi incamminai anch’io verso casa, sconcertato dalla metamorfosi del procaccia. Aveva iniziato a parlare nel modo che conoscevo, per poi svuotare quell’atteggiamento con le aspre, amare parole successive, in cui riconoscevo il risentimento di un uomo deluso dal presente e non riconciliato col passato.

Un’umanità sgomenta, disorientata dalla dissoluzione del suo mondo era passata in pochi minuti dinanzi ai miei occhi. E in un istante mi sembrò di comprendere ogni cosa: il professor Mattei, gli anziani che interrogava ogni giorno, il vecchio procaccia: erano tutti dei reduci. E avrebbero voluto che li ascoltassimo, che capissimo che c’era una verità profonda nel dolore di ognuno.

Sì, bisognava far presto: i più, stavano sulle sedie di paglia imbottite di cuscini, dinanzi a una stufa o a un focolare, o sdraiati nei letti, con accanto una badante; o in case altrui, con l’ordine di non aprire a nessuno; o negli ospedali, dove non volevano stare, dai quali fuggivano col pensiero ogni giorno verso la Piazza Maggiore, e poi sulla Via della Costa, e poi più su, all’Ara di Valle, perché, come dicevano sempre, “la lepre, dove nasce muore”.

armando.santarelli@inwind.it