FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 55
maggio/agosto 2020

Cenere

 

CINEREO, O LA SABBIA DEL TEMPO

di Matteo Moscarda



Gli scrittori sono la razza più bastarda che esista, perché tutti, dal primo all’ultimo, da quello geniale al peggiore degli scribacchini, tutti gli scrittori sono convinti di aver scoperto l’acqua calda e si comportano sempre come se stessero facendo un favore all’umanità, come se stessero donando gratuitamente il loro genio, un qualche nettare divino di cui sono gli unici custodi, quando in realtà gli scrittori non servono a nulla, né gli scribacchini né quelli geniali, tutti gli scrittori sono ugualmente inutili, e se questo è senza dubbio vero per gli autori di narrativa, è quasi completamente vero anche per gli autori di saggistica, che nella quasi totalità dei casi non sanno far altro che produrre tesi di laurea.

Anche gli autori di saggistica più acclamati dalla critica non sono altro che dei tesisti, dei parassiti delle poche intuizioni altrui, non fanno altro che rubare il meglio da dieci, venti, trenta libri mediocri, magari anche una sola intuizione per libro, e poi metterle tutte insieme, queste buone intuizioni, e scrivere i raccordi tra di esse: oggi gli scrittori di saggistica non sono che dei raccordatori e dei tesisti, sono dei manovali, degli artigiani della cultura, a conti fatti dei redattori, e non degli intellettuali. E nessuno può venirmi a dire che non è così, perché lavoro nell’editoria dagli anni Cinquanta, l’ho inventata io l’editoria di qualità in Italia, sono stato sempre al centro di tutti gli eventi più importanti tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta, e anche quando ero in seconda o in terza linea comunque c’ero, e io per venti, trent’anni, ho sempre visto dei libri veri, ho sempre lavorato a libri veri, ho sempre supportato autori veri, che non erano soltanto dei raccordatori o dei tesisti, ma che erano ancora degli intellettuali, almeno finché è stato possibile essere un intellettuale con le proprie idee, in Italia. Almeno fino agli anni Settanta, ma anche poi negli anni Ottanta, e persino fino ai primi anni Novanta, in Italia abbiamo fatto libri di tutto rispetto, che gli editori stranieri prenotavano con uno, due, tre anni di anticipo, vendere i diritti, in quegli anni, era un gioco da ragazzi, non te ne accorgevi nemmeno, era scontato che un libro al quale avessi lavorato io fosse stato già comprato da Penguin o da Suhrkamp prima ancora che io e l’autore avessimo finito di lavorarci, a volte prima ancora che l’autore avesse avuto l’idea e io avessi cominciato ad affiancarlo.

Ma poi è cominciata la crisi, prima ancora che ce ne accorgessimo la domanda per la saggistica si è dimezzata, la stampa digitale ha dato vita a un esubero di ibridi, realtà editoriali e letterarie che fino a qualche anno prima non sarebbero mai esistite adesso inondavano gli scaffali delle librerie, rubando spazio ai libri veri, ricacciandoli al secondo o al terzo piano, nei ghetti della non fiction, o in sottosezioni che nessun cliente si sarebbe mai preso la briga di cercare. Sono stati i primi anni della saggistica pop, della lordura della saggistica, dell’infezione della saggistica, gli unici anni in cui si sarebbe potuta affermare una figura come quella di Mario Tancredi Roversi, il più bastardo tra tutti gli scrittori che abbia mai conosciuto, e sono stati tantissimi, e bastardo in tutte le accezioni della parola.

Dire che ho inventato io l’editoria italiana è una palese esagerazione, non c’è niente di più lontano dalla verità, ma che Mario Tancredi Roversi l’ho inventato io, su questo non ci piove, potrei firmarlo col sangue, non c’è ma che tenga. Del suo successo, del suo exploit, chiunque conosce ogni dettaglio, per cui non ho motivo di ribadire l’ovvio. È anche noto che l’idea alla base del suo primo best-seller fu un’idea mia, quella di denunciare per la prima volta pubblicamente, facendo nomi e cognomi, gli attori delle cooperative umanitarie coinvolti in un giro di sfruttamento dei loro cosiddetti tutelati; certo, il fatto che quell’idea sia stata mia è noto soltanto agli operatori del mondo dell’editoria, e non alla massa, ma questo mi basta, perché d’altronde noi che lavoriamo nell’editoria non conosciamo altro che l’editoria e i suoi operatori, per cui a conti fatti tutto il nostro mondo sa tutto quello che deve sapere. Ciò che il nostro mondo ancora non sa, e che io voglio che sappia anche la massa, è che Mario Tancredi Roversi non è meglio degli sfruttatori che ha sempre denunciato, anzi, è uno sfruttatore lui stesso, il più grande degli sfruttatori e degli ipocriti. Per vent’anni, e dico venti, ha recitato la parte dell’amico leale e ossequioso, riconoscente per il successo di cui io sono il principale responsabile, io che l’ho raccattato dalle fogne e gli ho indicato una strada, la strada per il successo. Per vent’anni Roversi mi ha vampirizzato, mi ha succhiato conoscenza e tempo, mi ha usato per continuare a crescere, per guadagnarsi un’immunità, per avere la garanzia che qualsiasi cazzata potesse combinare, qualsiasi denuncia potesse beccarsi, tutta la stampa sarebbe stata lì a difenderlo, come sempre avviene con i nostri autori. I nostri autori, una volta che diventano nostri autori, capiscono chi comanda davvero, quanto meno all’interno di questo nostro mondo circoscritto, capiscono che chi ha la stampa dalla sua diventa praticamente invulnerabile, e questo è il nostro caso, non perché abbiamo mai corrotto nessuno, ma semplicemente perché la stampa è dalla nostra parte, per sua natura, politicamente, noi siamo l’editoria e la stampa, noi siamo il bene, e i nostri autori imparano presto a capire che non c’è niente di più vantaggioso che stare dalla parte del bene. E così Roversi, che l’ha capito subito, ha capito subito la fortuna che aveva avuto a essere stato raccattato dalle fogne, a essere stato piazzato dalla parte buona dell’editoria e della stampa, l’unica che c’è, in realtà, l’unica che detta legge. E così per vent’anni ha recitato, e ha recitato perfettamente, finché non ha vinto il Premio, l’ultimo dei tanti ma anche il più ambito, e dopo un anno mi ha scritto che aveva deciso di ritirarsi. Questo è successo sette anni fa.

Il giorno stesso che Roversi mi ha scritto che voleva ritirarsi ho fatto un biglietto aereo per la settimana dopo, il primo varco che ho trovato nell’agenda, e una settimana dopo l’ho raggiunto a casa senza preavviso, gli faccio cambiare idea o lo ammazzo, pensavo, e ovviamente non lo avrei ammazzato mai, ma il desiderio era forte, perché sono pochi gli autori sui quali ho investito tanto, Roversi nell’arco di vent’anni è diventato una roccaforte, uno di quei rari compromessi tra critica e vendite, mai troppo popolare, mai famoso per la massa, ma comunque in una terra di confine interessantissima, quella del prestigio, dei premi, delle giurie letterarie, una fonte inesauribile di prestigio, questo era per noi averlo in catalogo, per quanto non sia mai stato troppo prolifico, in vent’anni ha sfornato soltanto sette libri veri e propri, incluso il primo best-seller, ma quei sette libri si sono sempre presentati a testa alta, sono stati subito accolti bene, hanno fatto il loro dovere nei primi tre mesi, quelli fondamentali, e sono tutti stati degli eventi, ognuno a modo suo; oltre a quei sette libri veri e propri ne sono usciti altri, certo, i vari libelli, pamphlet, allegati della gazzetta sportiva, tutte quelle cose che uno scrittore è obbligato a fare per non essere dimenticato, per alimentare l’attesa del prossimo libro vero e proprio, ma Roversi, da questo punto di vista, non è mai arrivato davvero a prostituirsi, come quasi tutti gli scrittori, Roversi diversamente da quasi tutti gli scrittori italiani non si è mai prostituito, e io devo dire che l’ho sempre stimato, per questo, o forse ho soltanto creduto di stimarlo, se teniamo in considerazione che Roversi per vent’anni è stato soltanto un ipocrita, nei miei confronti e in quelli della casa editrice che l’ha portato dove l’ha portato.

Ed è stato per questa stima presunta, illusoria, che mi sono catapultato a casa sua, una settimana dopo, senza preavviso, e che sono rimasto a Milano per una settimana, per andare a trovarlo ogni giorno, per riuscire a dissuaderlo da quella sciocchezza, da quel colpo di testa. Avevo paura che si volesse uccidere, sapevo che aveva tonnellate di inediti ed ero terrorizzato di perderli, già in quel periodo Roversi aveva inediti a sufficienza per camparci altri vent’anni, mi sarebbe bastato che li tirasse fuori dalla cassaforte e che me ne consegnasse una copia, prima di suicidarsi, ci avremmo pensato noi a completarli, riproducendo esattamente il suo stile, una cosa che qualsiasi professionista dell’editoria sa fare, clonare uno scrittore, avremmo clonato Roversi e dai suoi inediti incompleti avremmo tratto altri sette libri e avremmo continuato a pubblicarli per altri vent’anni. Per questo non potevo togliere gli occhi di dosso da Roversi, non mi potevo distrarre, dovevo convincerlo a riprendere a scrivere o quantomeno a darmi una copia dei suoi inediti incompleti, ma per quanto possa aver insistito, durante quella settimana, è stato tutto inutile, Roversi diceva di aver capito che per vent’anni aveva seguito la pista sbagliata, che per vent’anni non aveva fatto altro che prostituirsi, e io lì a garantirgli che lui no, lui non si era mai prostituito, tutti gli altri scrittori italiani sì, non sono altro che delle puttane, ma lui no, lui era l’unico ad aver trovato il compromesso, a non essersi mai venduto, lo credevo davvero, ma lui niente, non voleva saperne, sembrava che avesse subito un trauma cranico, era impenetrabile, invalicabile, una fortezza.

E così alla fine sono tornato a casa, ma da quel giorno ho continuato a scrivergli ogni giorno e a prendere un aereo per Milano ogni mese, e questo per tre anni, per tre anni sono andato a Milano ogni mese, una volta al mese, e quindi trentasei volte in tre anni, nel tentativo di convincerlo a riprendere a scrivere o a darmi una copia degli inediti, ma lui niente, era una fortezza, e questo balletto è andato avanti per tre anni, appunto, finché non è scaduto l’ultimo contratto e Roversi mi ha scritto, una mattina, dicendo quanto fosse felice di sentirsi finalmente libero da quella schiavitù. Al che mi sono davvero girati i coglioni, e ho preso l’ultimo aereo per Milano, il trentasettesimo, stavolta davvero pensando e immaginando di andare lì per strozzarlo, perché soltanto allora mi è stato chiaro che tutta quella tiritera era stata inutile, che fin dall’inizio Roversi aveva soltanto aspettato la scadenza del contratto, che il suo piano era stato questo fin da subito, e che io avevo preso trentasei aerei per nulla, per cercare di espugnare una fortezza abbandonata. E quando sono arrivato lì ci sono andato vicino, a strangolarlo, perché dopo avermi fatto accomodare Roversi ha detto che aveva un regalo per me, e io per un attimo mi sono illuso, ma poi quel bastardo mi ha dato un vaso, una vaso cinese col coperchio, di quelli che andavano tanto negli anni Ottanta, cloisonné si chiama quel tipo di decorazione, Roversi mi ha dato questo vaso cinese e ha detto ecco, i miei inediti, sono tutti qui. Io sono rimasto pietrificato, perché ho capito subito, quel deficiente ha sempre scritto a mano, forse per questo non si è mai prostituito, perché scriveva a mano, non aveva il tempo materiale per prostituirsi o per masturbarsi, aveva sempre le mani occupate a scrivere sulla carta vera, e io sapevo che qualcosa la scriveva anche al pc, ma per lo più lui gli inediti li aveva scritti tutti su carta, e io l’ho capito subito che fine avevano fatto, tutti gli inediti, non ho messo nemmeno per un secondo in discussione che mi stesse prendendo in giro, e la cosa divertente è che non ho avuto la forza di fare niente, ho preso e me ne sono andato, forse perché avevo paura di strangolarlo davvero e di rovinarmi la vita, me ne sono andato e mi sono portato via il vaso cinese, e arrivato a casa l’ho messo sulla madia all’ingresso, e ho chiesto a mia moglie di non chiedermi nulla, di non commentare il cattivo gusto di quel vaso, perché io volevo che stesse lì, a ricordarmi quanto ero stato stupido.

Tre anni dopo quel giorno è uscito Cinereo, quello che oggi tutti considerano il capolavoro di Mario Tancredi Roversi, il punto più alto della sua produzione, il culmine di un percorso ventennale coerente e integerrimo, come ha scritto quel coglione su Corriere. Il culmine di un percorso ventennale fatto con noi, tutelato dalla nostra stampa, coccolato dai nostri stagisti e dai nostri redattori, il culmine di vent’anni di tutoraggio da parte mia, il capolavoro di Roversi, che con noi ha pubblicato sette opere vere e proprie e diversi libelli, quel capolavoro sappiamo chi l’ha pubblicato, e non è mia intenzione nominare in questa sede quello che io considero un editore spregevole, e soltanto in ultimo per via dei suoi legami politici, io qui non lo nomino per non contribuire nemmeno tanto così alla sua immeritata visibilità. Quel bastardo di Roversi ha pubblicato altrove, dopo avermi e averci vampirizzato per vent’anni, quel bastardo ha pubblicato col nostro peggior nemico ideologico, e dopo avermi illuso per tre anni che ci fosse una speranza, ma soprattutto dopo avermi dato a bere di aver distrutto, di aver ridotto in cenere, tutti i suoi inediti.

In realtà, dal giorno in cui mi scrisse che si sarebbe ritirato, e per tutti i sette anni successivi, Roversi non ha fatto altro che lavorare a quegli inediti, e renderli un’unica opera monumentale e coesa, che oggi gli è valsa l’ennesimo riconoscimento, stavolta internazionale. E io avrei dovuto lasciarmi questa storia orrenda alle spalle, dimenticarmene, così come mi ha raccomandato il medico, per via della pressione alta, ma anche il mio analista, per via della depressione, io avrei dovuto dimenticarmi di questa mostruosità commessa da Roversi, e l’avrei fatto volentieri, se quegli inediti non parlassero di me, se non fossero un’unica interminabile sequela di illazioni e insulti e di travisamenti a mio danno, pari soltanto allo scempio compiuto da Mann a danno di Schönberg, un’immane insulto alla mia persona al quale quell’essere spregevole e ributtante ha dedicato sette anni della sua vita, e tutto questo per denunciare, a detta sua, la corruzione che domina l’editoria italiana, prendendo me, pur senza nominarmi, quale emblema del potere occulto, dell’editor che modella e fa prostituire l’autore e gli succhia l’energia vitale fino a ridurlo in cenere: mi ha trasformato in un personaggio, un personaggio spregevole e ributtante, ma soprattutto un personaggio perfettamente riuscito, memorabile, sconvolgente, vivido, geniale, qualcosa ai livelli del Max Aue di Littell, un personaggio eccezionale, per quanto lontano anni luce da ciò che io sono davvero, e che chiunque mi conosca potrebbe confermare. Mario Tancredi Roversi mi ha ridotto in cenere, mi ha mortificato e distrutto, senza mai nominarmi esplicitamente, ma facendo sì che chiunque, nel nostro mondo dell’editoria, mettesse in dubbio la mia integrità morale, la mia condotta morale.

Cinereo, il suo capolavoro, qualcosa a metà tra l’autofiction e il reportage e l’opera mondo, si conclude con una scena immaginaria in cui io torno a casa e metto il suo vaso cinese su una madia all’ingresso, affinché mi ricordi sempre quanto sono stato stupido: nella finzione del libro, quel vaso non contiene i suoi inediti ma le ceneri di suo padre. Il vaso è ancora lì, sulla madia all’ingresso, e dopo un anno io non ho ancora trovato il coraggio di aprirlo, anche perché so che, a vista, non saprei distinguere degli inediti dalle ceneri di un morto. Potrei farne esaminare il contenuto, ma sento già l’eco delle risate di Roversi all’idea che io l’abbia fatto e abbia scoperto che il vaso contiene soltanto sabbia, all’idea che io abbia perso ancora del tempo appresso a lui, dopo tre anni di suppliche e vent’anni di tutoraggio. Non credo che avrò mai la forza di dedicargli ancora un solo secondo, nemmeno per prendere quel vaso e gettarlo in un cassonetto, a prescindere dal fatto che contenga degli inediti, le ceneri di un morto o la sabbia del tempo.

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