FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 54
gennaio/aprile 2020

Fiabe & Follia

 

LE VERDURE FANNO MALE

di Armando Santarelli



Onestamente, quando ho letto che il n° 54 di Fili d’aquilone era incentrato sul tema “fiabe e follia”, sono rimasto interdetto, dubbioso. Che c’entra - mi chiedevo - la fiaba con la follia? La fiaba ha a che fare con una sana fantasia, con una saggia finzione, con un intento morale, col sorriso e gli occhi spalancati di un bambino, col bene che trionfa sul male, insomma con tante cose e qualità umane, meno che… con la follia. Che c’entrano Biancaneve, Cenerentola, Pinocchio, Il brutto anatroccolo, Pollicino, Il gatto con gli stivali, La piccola fiammiferaia, con la follia?
Poi rifletto un po’ meglio: sì, una fiaba nasce dall’immaginazione, e questa può essere bizzarra, stravagante, folle, e probabilmente molte fiabe sono nate in momenti di folle incanto, di fervida immersione nelle più strane fantasticherie, di paure irrazionali o di gioiosa passione.
Sì, forse sono io che sbaglio, che ho una fantasia limitata, incapace di regalare a un bimbo un sogno, un’avventura immaginaria, uno stacco lieto da questo mondo fatto di realtà ben diverse da quelle magiche e ammalianti di una fiaba.

Eppure qualche fiaba l’ho inventata io stesso per i miei bambini, lo rammento benissimo. Quando i bimbi si stufano di vederti aprire lo stesso libro, quando si accorgono che una fiaba gliel’hai già letta, non puoi sfuggire a quelle paroline: “Papà, ma perché non me la racconti tu una favola?”.
Dicevano “favola”, ma intendevano fiaba, perché sono soprattutto queste che raccontiamo ai bambini nella loro più tenera età. Le fiabe che inventai in quei tempi lontani non dovevano certamente essere molto belle, se non le ricordo né io, né i miei figli.

Sì, scrivo da tanti anni, ma non sono capace di inventare fiabe. Tutt’al più potrei, sforzandomi, scrivere una favola, come in effetti mi è capitato di fare l’anno scorso. L’ho scritta per partecipare alla prima edizione del più umile concorso letterario del mondo, quello del mio paese, Gerano. La fata di questo concorso è Marina Durand de La Penne, instancabile promotrice di eventi culturali e sociali, e creatrice della Casa delle Antiche Scatole di Latta, museo che è unico nel suo genere in Italia.
Marina ha inventato – e l’estate scorsa organizzato per il secondo anno consecutivo – il concorso “La Favola del mio Borgo”. Partita in sordina, con l’appoggio di pochi amici, l’iniziativa ha ottenuto un riscontro meraviglioso, “costringendo” decine di persone a inventare una favola ambientata nel luogo natio, o incentrata su personaggi e accadimenti della vita del nostro paese.

Il circuito virtuoso derivatone è di tutto rispetto: abbiamo visto tante persone tornare a spremersi le meningi, inventare, scrivere. Tutti i partecipanti sono andati a caccia di episodi, aneddoti, soprannomi, denominazioni buffe e strampalate, storie arcaiche e scenette recenti, mitici personaggi del passato e “sagome” dei giorni nostri. E le favole selezionate da una commissione ad hoc ed entrate nelle terne finali (tre per quelle in dialetto, tre per quelle scritte in italiano), sono state lette dinanzi a una giuria che più popolare non si poteva: il pubblico presente in piazza, attento ad ascoltare la lettura delle favole e a votare la preferita tramite un simpatico sistema di palline colorate. Insomma, così, quasi scherzando, e con un pizzico di follia, nelle favole geranesi sono state coinvolte centinaia di persone!

Grazie a Marina e alla sua splendida idea abbiamo riscoperto una parte della nostra identità, un certo rapporto con la nostra storia, le nostre origini, i nostri usi, le nostre credenze. Magica, realistica follia, no?
La favola che ho scritto in occasione del 1° concorso era intitolata “Le verdure fanno male”. Mi ha ispirato, nel comporla, la lontana reminiscenza di un racconto russo, ed è incentrata su uno dei personaggi più amati del nostro paese, la carissima bidella Misiana. Eccola qui, la mia favola:


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LE VERDURE FANNO MALE

Al mio paese c’era una bambina chiamata Misiana. Era carina, sana, allegra, e quando crebbe diventò una ragazza bella e forte. E poi era spontanea, sincera, generosa, e tutti le auguravano un buon matrimonio e tanti bei marmocchi. Ma gli anni passavano, Misiana diventava adulta, e di fidanzati non si vedeva neppure l’ombra. Non che i pretendenti le mancassero, anzi. Come potevano non accorgersi di una donna piacente e simpatica, apprezzata anche nel lavoro di bidella che svolgeva nella scuola locale?

Il problema, narra chi la conosceva, era la sua antipatia per gli ortaggi. Gli ortaggi fanno bene, lo sappiamo tutti. Magari da bambini non ci piacciono, ma le favole ci aiutano a farceli apprezzare: la zucca che si trasforma in una splendida carrozza in Cenerentola, i fagioli magici di Giacomino, il cavolo sotto le cui foglie nascono i bambini, le verdure umanizzate del romanzo di Cipollino, i raperonzoli della nota fiaba dei fratelli Grimm.

Ma a Misiana gli ortaggi proprio non andavano a genio, neppure quelli delle favole. Le capitava, infatti, una cosa singolare: non poteva fare a meno di trovare una somiglianza fra gli uomini che la corteggiavano e qualcuna delle verdure dell’orto. Uno aveva un bell’aspetto, però era stupido come una rapa. Un altro era simpaticissimo, ma rosso e spelacchiato come una carota. Un altro ancora era dolce e buono, ma con uno spirito di patata, e uno invece intelligente ma malaticcio, e la faceva piangere peggio di una cipolla sbucciata. Il figlio del maestro elementare le piaceva, però lo trovava sempre dappertutto, come il prezzemolo. E il giovane padrone dell’Osteria Vecchia era forte, ricco, sicuro di sé, ma puzzava come un broccolo appena cotto.

Così, respingendo ogni uomo per quello strano vezzo di assomigliare tutti a un ortaggio, a Misiana non rimase neppure un vecchio del cavolo. Nessuno la rimproverò mai per questo, né il suo carattere si inacidì per essere rimasta nubile e non aver avuto la gioia di un figlio. D’altra parte, lei diceva che di figli ne aveva avuti tanti: le decine e decine di alunni della scuola del nostro paese, per molti dei quali era stata come una mamma.

Misiana vive ancora. Non rimpiange nulla, è stata una donna buona e benvoluta, e che a sua volta ha saputo voler bene. E quando non sarà più fra noi, sapremo che è volata in un luogo dove ogni ortaggio, ogni fiore, ogni pianta le sarà gradita, perché quello sarà il giardino del Signore.


armando.santarelli@inwind.it