FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 49
maggio/agosto 2018

Consenso & Dissenso

 

BARET MAGARIAN, MELTING POINT

di Alessio Brandolini



Melting point è l’esordio dello scrittore e musicista inglese Baret Magarian, da tempo trapiantato a Firenze. Sono 10 racconti che sorprendono (un po’ meno gli ultimi due) per la bravura della narrazione (veloce e precisa) e l’acutezza dello sguardo che perfora muri, apparenze e con leggerezza sa oltrepassare la barriera del tempo, del razionale. Per l’esplorazione di mondi e luoghi, di personaggi così diversi l’uno dall’altro che si incontrano (o scontrano) in questo crogiolo che è la nostra vita e nel quale talvolta si può scorgere il momento esatto, quel punto di fusione suggerito dal titolo in inglese, lingua nella quale sono stati scritti i racconti per poi essere tradotti per lo più da Andrea Sirotti ed Elena Moncini.

“La tela del dolore” è la prima tappa di questo viaggio nella letteratura di Magarian, una storia misteriosa con al centro un “pacco pazzo” che contiene un manoscritto. Il terzo racconto s’intitola “Isola” ed è un piccolo gioiello (un romanzo in embrione) che contiene all’interno un’altra storia generata da uno slittamento temporale: tra ironia e follia, storia geniale e un po’ slegata ma “siamo tutti ad avere qualcosa di scassato in testa”.

Anche il successivo, “Cancellare le onde”, sorprende perché è l’opposto del canone del “realismo magico”: qui è la magia a farsi realtà quotidiana e “la complicata ragnatela di cicatrici allo stomaco” del protagonista è il segno che il proprio fallimento è stato così totale da venirne poi fuori rafforzato, tanto da intraprendere un nuovo e più soddisfacente cammino.

Il sesto racconto “Salvatore” è ambientato a Firenze e sviluppa la vena tragicomica dell’autore. Il successivo “Gli occhi piatti del Buddha”, ambientato in Sri Lanka, è forse il più elaborato e ambizioso e prova a dar forma a un mondo caotico, dove un luogo magico può trasformarsi in un inferno e, al contrario, una tragica avventura nella comprensione della propria esistenza, nel punto di fusione dei propri contrastanti sentimenti.

“Alba”, ambientato in Calabria, è nella linea di “Salvatore”, ma di un realismo più tragico. Chiudono il libro “Meltdown” e “Le vesti d’acqua”. L’umorismo sottile e la freschezza (lo scatto rapido) della scrittura di Baret Magarian si fondono alla sua capacità di descrivere la complessità del nostro mondo, dei sentimenti umani. Molti i riferimenti (ma inseriti con destrezza e discrezione) musicali, cinematografici e letterari. Bella la nota finale dello scrittore inglese Jonathan Coe che per primo, vent’anni fa, dopo aver letto alcuni suoi inediti, fiutò il talento e l’originalità della scrittura di Baret Magarian.


Baret Magarian, Melting point, Quarup, 2017, pagg. 156, euro 14,90


“Ero lì in piedi, al gelo, raggomitolato nel mio cappotto, a chiedermi cosa diavolo fare. A quel punto due uomini con indosso dei cappotti invernali parecchio costosi – sembravano usciti da qualche sartoria di Jermyn Street – apparvero dal nulla, e marciarono spediti verso di me. Avevano un aspetto alquanto borghese, perciò non mi preoccupai. Credevo che uno di loro stesse per chiedermi una sigaretta, ma mi sbagliavo. Parlò chiaro, mi ricordo, e disse “Che ci fai qui?”, “Niente, passeggiavo.”, “Vai a passeggiare da un’altra parte.” M’immaginai di aver invaso una proprietà privata o la scena di qualche attività illegale. Notai che uno dei due uomini aveva un accento forte. Ipotizzai che fosse ucraino o lettone. “Passeggio dove mi pare”, dissi, non proprio impaurito. Mi sentivo più stordito, indifferente. Passarono forse un secondo o due. Non successe niente. Si limitò a fissarmi con uno sguardo molto freddo, duro. È difficile descriverlo, ma in quel momento non aveva un aspetto proprio umano ai miei occhi. Sembrava quasi la replica incredibilmente sofisticata di qualche essere umano o un modello di cera. Avvertii una fenomenale stretta vicino all’addome e non riuscii a capire cos’era successo, ma quando mi afferrai il fianco vidi le dita zuppe di sangue. “Dài, amico,” disse “lo sai, è quello che volevi, è quello che cercavi, ti ho solo fatto un favore. Mi è bastato uno sguardo per leggertelo negli occhi.”

“Nel cadere a terra gli occhi mi si annebbiarono e vidi quei due allontanarsi, come se niente fosse. Mentre ero lì disteso non ci fu dolore per un attimo o due, solo sangue che spillava dal mio corpo e si spargeva a terra. Ma poi il dolore arrivò. Dette il meglio di sé. L’unico modo per descriverlo è questo: è come se qualcuno con una mazza da cricket in mano te la sbattesse dentro a ripetizione. Alzai lo sguardo e ricordo che c’erano una o due stelle nel cielo e sembravano molto luminose. Era strano, pensai, che la vita andasse avanti come sempre intorno a me, che il mondo non avesse davvero notato niente. Persi conoscenza, per poi svegliarmi e scoprire che l’altro tizio, quello che non mi aveva accoltellato, stava tornando indietro. Sulle prime pensai che tornasse per completare l’opera, ma capii quasi subito che aveva altre intenzioni. Mi sollevò e mi tenne tra le braccia, a testa in giù come una bambola rotta. Ricominciai a perdere i sensi. Ho vaga memoria di ciò che accadde dopo. Mi infilò in una macchina. Ricordo dei rumori come di campane. O forse un cellulare che squillava. Sentivo la macchina muoversi mentre guidava. E poi qualunque cosa accadde dopo è svanita.

“E dopo c’è stato il mio risveglio in ospedale. Ero in un reparto con altri sei o sette pazienti e mia madre era seduta lì, felicissima di vedermi aprire gli occhi. Passai un po’ di tempo a parlare con la polizia ma non trovarono mai l’uomo che mi aveva ridotto così. Mi sono fatto l’idea che abbiano abbandonato il caso pochi mesi dopo e fine della storia. Trascorsi due settimane in ospedale. Sentivo che ogni cosa mi era estranea, era irreale, come in un film. Ma mi sforzai di prenderla per vera. Anche se ogni tanto la mia mente andava alla deriva e io mi astraevo dalla realtà e mi sembrava quasi di non essere lì. Dovevano medicarmi lo stomaco, le piaghe, tutti i giorni, e quella era una bella impresa. Eppure mi resi conto di come è instancabile il corpo, della capacità che ha di reinventarsi. Sopravvive a quasi tutto e sa appianare le cavità, le incisioni.


Brano tratto dal racconto “Cancellare le onde”.




Baret Magarian
è anglo-armeno. A Londra ha svolto l’attività di giornalista freelance, scrivendo recensioni e articoli per The Times, The Guardian, The Daily Telegraph, The Independent, The Observer, The New Statesman e The Times Literary Supplement.
È stato anche regista teatrale d’avanguardia (Il misantropo di Molière, Josephine scritto da lui, Chinese Whispers di Grant Gordon, Cocktail Molotov, uno spettacolo di cabaret e canzoni).
Si è poi trasferito in Italia, dove ha recitato in video musicali e trailer di film, ha fatto il modello di nudo, ha cantato e suonato la chitarra in vari bar della Toscana. Ha pubblicato poesie su Collettivo R a Firenze, sul Journal of Italian Translation a New York e su Semicerchio e Contrapasso in Australia. Ha inoltre pubblicato narrativa breve in World Literature Today, Journal of Italian Translation, Darker Times e sulle riviste online Sagarana e El Ghibli.
Il suo romanzo The Fabrications (Pleasure Boat Studio) ha avuto recensione positive in America e Melting point, la sua raccolta di racconti in italiano, è stato paragonato a Kafka, Calvino e Pessoa da Jonathan Coe nella sua prefazione. La Tela del Dolore, un monologo, è stato presentato a Torino e Firenze con Roberto Zibetti in un performance di “total theatre” con film, musica dal vivo e quadri.


alexbrando@libero.it