FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 48
gennaio/aprile 2018

Piccolo & Grande

 

INFINITO RESTO

di Ilaria Seclì



*

Il borgo il globo l’astro il cerchio
irradia ignoto lontano estinto
fin qui pulviscoli oro mercuriali danze
villaggio dei villaggi girotondo
fin qui pomeriggi bianchi senza desiderio
novembre che respingi l’elettrico del mondo
affondi dita calde tra gli ulivi
fino a stanze vittoriane velluti rossi
verde salvia per il buono che rimane
vita che respiri il necessario
mano che ti allunghi e porgi
mano che ricevi e custodisci
occhio che occhio trova
dice confida ama
gazza che atterra e poi risale
per la luce inaugurale
l’avvento senza eventi
aurora che ignori mezzogiorno
per Santa Caterina d’Alessandria
per i cingoli che aspergono silenzi
tagliano l’aria rigano un registro
per grazia di un decoro trasparente
la donna curva fa tornare i conti
tra gli appena vivi e i non più presenti
l’aria buona nessun suono s’inimica
l’aria buona che il globo ha divorato


LETTERA

Lo ricordo bene il silenzio del primo bosco, così profondo che vedevo le impronte del pettirosso e la direzione che il vento snodato e mite dava alle formiche.

L’occhio si accorgeva di movimenti impercettibili e suoni precisi o lontani, visioni su una tela nivea. C’erano attrezzi spaventosi e fissi, forse per la legna. Qualcuno da queste parti si fa chiamare boscaiolo e abita qui vicino, mi dicevo. Faceva la paura che il bosco fa nelle pagine delle favole scure, guardare più in là metteva i brividi, trama fitta di tronchi, abbagli improvvisi di luce e voci di creature nuove. Sapevo di starci dentro, sono nata per questo momento pensavo, quindi non mi voltavo per assicurarmi della tua presenza.

Per quanto l’aria si facesse nera andavo, il picchio mi stordiva e incoraggiava fino a quando ho capito che ero sola, e ho cominciato a trasformarmi in corteccia insetto muschio foglia tana becco.

Una di quelle cose che il bosco non può temere e fa addormentare lì, ai suoi piedi.


I GIORNI DELLA NEVE

(Nessuno sa nessuno vede
guarda il cielo)


Rit. Più veloce della luna quando cala
la neve se n’è andata e più veloci
della neve certi passi a tramontana

Ago filo nozze d’oro
astri dell’inizio con ritratto
bottoni sparsi bottoni allungati
nell’incerto obbedire dei giorni
ago filo silenzio e neve
patria che ritorna mette pace
nome trattenuto in bocca
pronunciato taglia l’aria
il cielo che guarda è buono
muta e non muta, si muove fisso
è buono. Le sante alture
il ritorno degli occhi ai passi
esultate donne di Betania
il nuovo mondo cammina
non sarà mai più freddo
per via del decoro eterno
Più veloce della luna quando cala
la neve se n’è andata e più veloce
della neve certi passi a tramontana


La donna che vede la neve
da latitudini non sue ripara
nelle forme che ritornano
dai vetri di bottiglia e danza
una danza solo sua di una neve
che non è la stessa e dimentica
per un tempo da bruciare
la vecchia da accudire
un’altra assenza e storia
per un brindisi estraneo
caduto nell’esilio tra gli ulivi
Più veloce della luna quando cala
la neve se n’è andata e più veloce
della neve certi passi a tramontana

La grafite non è mai così appuntita
e la cruna non si arrende a un filo
si rilassi invece e guardi la città
che si arrotonda, come piove gialla
pioggia silenzio cielo buono
ancora sfuggi all’uncino del tiranno


*

In un punto dove tutto imbruna
io ti vedo splendere.
Sedie alberi panchine vuote
volpi inermi sui cigli delle strade
giardini dove non arrivano voci:
sanno ciò che non ammette altro.
Nel dondolio di raggi tra le ombre
nella lamina di offesa e grazia
calce su maglioni di operai
unica difesa al gelo di dentro
che è qui, l’inverno. O suoni perduti
solo il silenzio vi rimpiange
e annoda l’uniforme della storia
di unità fasulle, glorie vane, nulla.
O suoni e voci di fabbro
odori di pini su sentieri sterrati
passeggiate domenicali di scarpette
tra pigne e ghiande nel laboratorio
cosmico umanissimo, nel patto
del grande che tiene il piccolo,
beato piccolo, e poi non più.
Taverne e dopo lavoro della noia
di briscole, resoconti di paese
dove sostavano fino a sera
rosse guance tra respiri vivi.
Suoni di vespe e tricicli
che fanno sobbalzare devote mogli
aprire portoni per la messe copiosa.
Le poche parole. E poi non più.
E poi non più


*

La resina ha succhiato legni
pietrischi zampette funghi
conchiglie foglie petali insetti
lava che indurisce si fa gemma
centro di vita silenzioso
che il mondo rapisce e vende
rapisce e vende, e non si offende
la culla del sole sua unica ombra
immemore invetriata spicchio
mondo fisso innocuo
tregua di pioggia nei deserti
cono che illumini l’utile
vampa custodia scrigno
sacre e sporte vene di conifere
riposta urna di Vaucluse
nel silenzio di quelle lande
nel silenzio sacro delle notti
nel silenzio indisturbato
nel silenzio scuro delle fiabe
nel silenzio operoso fabbro
nel silenzio perpetuo dono
nel silenzio senza applausi
nel silenzio dell’estinzione
anello infine, e non al dito


*

      a Romano Sambati
      e Carlo Michele Schirinzi

      (L’alloro è contento
      in pasta piccola piccola
      olio sopra, compimento)

O cilicio o grazia
o cornucopia di crepe
o raccolto senza raccolto
mal nato involuto tempo
perfetto atto in perpetuo
albescente respiro, compimento
Tiro di sigaretta, in fine
Tu riposi in occhio che sfiata
spinge sfonda inabissa
Mondo a latere corpo a corpo
a latere, a piè di altrui pagine
mano tua su neve difesa neve
o ruggine o cieli o crateri
o cenere lupi agnelli gessi
spatole lame e malaluna
e fionda opale e poi opale
in tacita messe e lattescenza
per dire tensione tremenda
in sole colature di eterno
e stremo corpo a corpo
di Elementi in dio rami deserti
in resistenza antica lampada
pigmento fuoco e acqua
fuoco e acqua compimento
e tu ripeti tremenda tensione
all’occhio che sa e fa dell’atto
atto a fuoco – gelo – infinito resto


ilariasecli@libero.it