Proprio non lo volevo, quell’impegno. E non lo voleva neppure mio cognato, medico di famiglia di Rocca Canterano, grazioso paese non lontano da Subiaco. Ma se un tuo paziente e amico ti dice: “Dotto’, c’iò un regalo per te”, e da un cesto di vimini tira fuori un batuffolo di peli scuri, che ti guarda con occhi spauriti e dolcissimi e poi si strofina scodinzolando contro la mano che gli hai teso, beh, allora è difficile poter opporre un rifiuto.
“Non ho molto tempo per occuparmene, ma farò del mio meglio”. Così replicò mio cognato al contadino di Rocca Canterano, il quale chiuse il discorso con parole decise e incoraggianti: “Dotto’, è figlio di due pastori tedeschi bellissimi. Ti darà soddisfazione, i cani lupi so’ bestie intelligenti e fidate”.
Nel pomeriggio, quando raggiunsi la nostra proprietà di campagna, mio cognato mi salutò con uno strano sorriso: “C’è una sorpresa, guarda un po’ lì dietro”. Aggirato il deposito degli attrezzi agricoli, mi si parò dinanzi un botolo rotondo e peloso, così bello e proporzionato che pareva uno di quei peluche che si regalano ai nipotini per le feste natalizie. Ma quel giocattolino scuro agitava la coda, mi pestava i piedi, insomma chiedeva di prestargli attenzione, incurante di chi avesse di fronte, fiducioso, ignaro che avrei potuto respingerlo o addirittura fargli del male. Lo presi in braccio, e lui mi fissò un istante, poi tentò di leccarmi. Ebbi un solo pensiero: “Senti, piccolo, hai già un padrone, ma ti vorrò bene come se fossi mio”. E subito chiesi a mio cognato se avesse già scelto un nome e dove avesse intenzione di tenere il cucciolo nelle notti che avrebbe trascorso in un terreno recintato, ma con falle e buchi in più punti.
Mio cognato sembrò spiazzato: “Sì, dobbiamo comprare una cuccia. Comunque, qui ci sono tanti ripari, non credo che corra pericoli. Piuttosto, mettiamoci d’accordo; un giorno verrò io e un giorno tu, così per le prime settimane starà sempre con qualcuno. Ti piace il nome “Iron”? Si pronuncia “àiron” in inglese, no?”.
“Sì, mi piace”.
Tuttavia, sul primo punto non la pensavo come lui: “Abbiamo trovato sventrati gattini e gatti adulti, qui la notte circolano animali di ogni specie. Finché non cresce ancora un po’ teniamolo al chiuso”. Mio cognato rifletté un attimo: “Va bene. Il posto migliore mi sembra la baracca dove tuo nonno rimetteva il fieno. La mattina ci alterneremo per venire ad aprire, okay?”.
“D’accordo”.
Quel pomeriggio lo facemmo giocare a lungo, poi, all’imbrunire, lo chiudemmo dentro la baracca, girando una pesante chiave di ferro, che nascondemmo nella cavità di un vecchio albero. Tornai a casa contento, ma anche consapevole della responsabilità che mi ero assunto; sentivo che quella creatura era già entrata nella mia vita, e che parte del mio tempo e delle mie energie, ora, sarebbero state assorbite da lei.
Il tempo da dedicare ad Iron cominciò quella stessa notte. Ero preoccupato, nervoso, e non ne comprendevo la ragione; il motivo si delineò nella mia mente quando mi ero già coricato, e mi fece agghiacciare il sangue. Come un invasato, saltai dal letto, e cominciai a vestirmi in tutta fretta.
“Ma che hai fatto?” chiese mia moglie, “sei impazzito?”
“No, preoccupato. Nella baracca c’è un buco, non grosso, ma sufficiente per una volpe o un predatore non grande. E Iron è piccolo, lo può spacciare qualsiasi altro animale”. Mia moglie scosse il capo: “Non credo che possa succedere, ma ti conosco, vai dal cane, tanto non dormirai se non risolvi il problema”. Nemmeno la sentivo: parla pure, io penso a quel cucciolo indifeso, e se per caso è successo quello che temo mi spaccherò la testa contro il muro.
Dieci minuti e sono già in campagna. Parcheggio la macchina, supero di corsa il vialetto che porta alla baracca di legno e lamiera. Per la fretta ho dimenticato di prendere una torcia, perciò recupero la chiave a tentoni, e solo dopo ripetuti tentativi riesco a infilarla nella toppa. Apro la porta: buio completo, non si vede assolutamente nulla, ma soprattutto non si sente nulla, nemmeno il più piccolo rumore. Ricordo benissimo il pensiero che mi attraversò la mente: quando le pupille si abitueranno al buio, vedrò un corpicino inerte sul pavimento, e maledirò la mia incoscienza…
“Iron, Iron, Iron”. Lo chiamo, ma non si muove nulla, il silenzio è totale. Ho capito, penso, l’hanno predato e portato via, magari una volpe o un cane lo sta divorando qui vicino…
“Iron”, mormoro disperatamente, “perché, perché, perché…”. All’improvviso, un fruscio, un altro, poi il rumore di peste sull’assito, e dinanzi ai miei occhi stupiti compare un fagottino che avanza timidamente, a testa bassa. “Oh Dio, grazie, grazie. È il mio cucciolotto, è Iron!” Mi inginocchio, lo prendo in braccio, lo bacio una, due, dieci volte, mi rotolo con lui sul fieno, pazzo di gioia. Gli spiego quel che è successo, gli prometto che non dovrà più temere nulla, e subito provvedo a tappare il buco della baracca incastrandovi con forza pezzi di legno e residui di materiale edile. Mi siedo accanto al cane, lo accarezzo, gli dico che l’indomani faremo la prima passeggiata insieme, poi serro la porta con la gioia di chi sente di aver recuperato una vita, una creatura, un amico che credeva scomparso.
Il giorno successivo feci la prima corsetta insieme ad Iron; corsetta non è neppure il termine giusto, perché dopo neanche dieci minuti il cucciolo diede segni di stanchezza, e al ritorno dovetti prenderlo in braccio. Il suo cuore batteva, le sue zampe si ancorarono saldamente alle mie braccia, mentre iniziava a leccarmi. Una domanda si affacciò alla mia mente: che cane sarebbe stato? Sapevo bene che ogni animale ha il suo carattere: e dunque ci sono cani timidi, ci sono quelli paurosi, quelli ubbidienti, quelli sfrontati, quelli coraggiosi… La risposta venne da sola, immediata; dipenderà anche da me e da mio cognato come sarà, perciò dovremo fare bene la nostra parte.
Per lungo tempo, io e mio cognato dividemmo equamente il compito e il piacere di stare con Iron. Nessuno era geloso dell’altro; il nostro intento, la nostra gioia, era veder crescere armoniosamente il cucciolo, che ricambiava entrambi con uguale affetto ed entusiasmo. Iron non era affatto il cane di un solo padrone: se io e mio cognato arrivavamo insieme al podere, lui saltellava una volta dalla mia parte, una volta dall’altra; e se erano presenti i nostri figli, il cucciolo si infilava in mezzo alle loro gambe, li sollecitava al gioco, li provocava come a dire: “Ho capito che vi unisce qualcosa, e io voglio giocare con tutti voi”. Potete pensare che stia antropomorfizzando l’indole e le azioni di Iron; ma il cane si comportava proprio così, sembrava consapevole che mostrandosi più affettuoso con qualcuno avrebbe potuto offendere la sensibilità degli altri.
Tuttavia, la preferenza arrivò, e furono le circostanze a imporla. Mio cognato, specializzatosi negli studi ecografici, abbinava questa disciplina con la professione di medico di famiglia. Quando iniziò a tenere corsi di ecografia in centri medici sparsi in tutto il centro Italia, il suo tempo libero diminuì drasticamente; in questa situazione, fui ben felice di dovermi occupare per intero del cane.
Intanto, Iron cresceva forte, ben proporzionato, e con una caratteristica unica, che aveva ereditato chissà da chi: una lieve criniera di peli circondava lateralmente il suo capo, creando una specie di cornice intorno al muso, rendendolo ancora più bello. Presto, l’incedere un po’ goffo del cucciolotto di qualche mese prima si tramutò in un’andatura agile, sicura, e sempre rispettosa della mia. Quando andavo a correre, Iron si teneva sempre alla mia destra, distanziato di circa un metro da me; diventato enormemente potente e veloce, ogni tanto si lanciava in folli, gioiose corse sui prati che costeggiano le strade rurali del mio paese. Ancora qualche settimana e accadde qualcosa di stupefacente. Avevo fatto tardi al lavoro, e si era fatta sera. Tuttavia, non volevo rinunciare alla mia corsetta, perciò andai in campagna, mi cambiai e iniziai a correre insieme ad Iron. Pur essendo buio, la bianca strada ghiaiosa permetteva di avanzare con relativa sicurezza. Ma non erano cambiate solo le condizioni di luce; Iron – notavo con sorpresa – non correva al mio fianco come sempre, ma davanti, e lo fece sino a quando non riguadagnammo il cancello del mio podere. Due giorni dopo, correndo di giorno, Iron riprese a muoversi come sempre, cioè standomi di lato. La curiosità diventò insopprimibile; lo riportai a correre col buio, e di nuovo il cane percorse tutto il tragitto precedendomi di qualche metro, come a dire: “È più pericoloso a quest’ora, e io vedo meglio e ho più fiuto di te; perciò sto io avanti”. Stentavo a credere che un animale fosse in grado di operare una tale distinzione; ma Iron ripeté sempre questo comportamento, e mio padre – inizialmente indifferente e incredulo – si aggiunse sbalordito al novero dei testimoni del fatto che un cane sceglieva di correre accanto o davanti al padrone a seconda che questi corresse con la luce o nel buio della notte.
Non c’è cinofilo che non sia in grado di narrare episodi come questo, e che non condivida la nota affermazione che fa di questo animale il miglior amico dell’uomo. Sono famosi i casi di cani che, deceduto il proprietario, non hanno mancato un solo giorno di recarsi al cimitero, giacendo per ore sulla tomba del loro padrone. Napoleone non amava i cani; ma quando scoprì che quelli utilizzati nelle battaglie rimanevano per giorni a vegliare e mugolare di dolore accanto ai corpi dilaniati e inerti dei loro padroni, mutò completamente i suoi sentimenti verso queste creature.
La realtà incontrovertibile è che il lupo che ha accettato l’amicizia dell’uomo – e purtroppo anche le catene e le sevizie che gli abbiamo inflitto – riunisce qualità indubitabili, perché il cane è leale, tollerante, buono, coraggioso, fedele sino alla morte. Né ha perso il coraggio del nobile antenato da cui proviene; la letteratura canina è piena di storie di creature che hanno sacrificato la vita per difendere i loro padroni.
Ho rischiato di sperimentare anch’io un epilogo del genere, di nuovo qualcosa in cui si può stentare a credere; posso replicare soltanto che da quel pomeriggio Iron diventò per me una creatura da considerare alla stregua di un essere umano responsabile e capace di amore. Amore? Sì, amore, e amore incondizionato.
Correvamo insieme, tranquillamente, lungo la strada che corre intorno alla mia proprietà. Nei prati adiacenti pascolavano come sempre un paio di greggi. Uno di questi, il gregge di “Mezza Botta”, era difeso da tre pastori maremmani, di solito pigri e tranquilli, ma pericolosi se si entrava nello spazio di loro dominio. Ero sempre stato molto attento a passare alla larga dalle pecore, magari deviando la corsa su un prato, in modo da rimanere a debita distanza dagli animali. Ma quel pomeriggio commisi l’errore di avvicinarmi troppo al gregge, e la reazione dei cani fu immediata. Due di loro iniziarono ad abbaiare furiosamente, il terzo si mosse deciso verso di me. Istintivamente accelerai la corsa, anche perché il cancello del mio podere non era lontano, e contavo di arrivarci prima che i cani mi fossero addosso. Fatti una cinquantina di metri, mi voltai, e vidi che tutti e tre i cani pastori si erano messi a rincorrermi; accelerai ancora, solo per rendermi conto con terrore che non avrei mai potuto raggiungere in tempo il cancello e barricarmi dietro di esso. Continuavo a correre, ma con lo sguardo cercavo disperatamente un albero, un bastone, una pietra, una qualsiasi difesa per una situazione che pareva senza uscita. La mia salvezza porta due nomi: Iron e Piero, un maratoneta di buon livello di Castel Madama. Nel corso dei lunghi anni di allenamento per le campagne della sua cittadina, Piero aveva subìto tre o quattro inseguimenti (e due attacchi) da parte di cani randagi. Mi aveva detto che in questi casi la difesa non può certo consistere nel rimanere inermi, a meno che non si abbia la forza d’animo di immobilizzarsi come una statua, confondendo o scoraggiando in qualche modo l’aggressività del cane. Dunque, diceva, alla seria minaccia di un attacco si deve reagire contrattaccando, cioè mostrando al cane che non si ha paura di lui, che siamo pronti, a nostra volta, a fargli male.
Non c’era più tempo per riflettere, e la necessità mi suggerì di reagire nel modo indicato da Piero. Con la forza della disperazione invertii la corsa, gridai con veemenza “Dai Iron, dai!” e mi lanciai contro il gruppo dei maremmani. E qui ebbi la prova dell’assoluta, misteriosa, commovente simbiosi fra padrone e cane, perché Iron capì perfettamente la situazione, capì che l’attacco era l’unica possibilità concessaci. I tre cani pastori erano grossi, ma Iron, che allora aveva quattro anni, e dunque era nel pieno della sua maturità, non era meno forte e massiccio di loro. Lo vidi partire verso il maremmano che guidava, con un vantaggio di qualche metro, la corsa del branco. Senza la minima esitazione, mentre anch’io mi avvicinavo con tutta l’intenzione di lottare, Iron si gettò contro il cane, sbalzandolo indietro di un paio di metri, poi si lanciò insieme a me sul cane di destra, che iniziò a svicolare lateralmente, e infine si piazzò dinanzi al terzo maremmano, il quale, disorientato dalla nostra reazione, si limitava, immobile, ad abbaiare. Sparigliato il gruppo, fra noi e i tre cani si crearono una decina di metri di terra franca; i maremmani abbaiarono ancora per un buon minuto, ma nessuno di loro si fece avanti di un centimetro. Iron, ritto e fiero dinanzi a loro, li scrutava, e ogni tanto faceva risuonare il suo latrato di vittoria. Dopo un altro minuto di tregua, i cani si voltarono e ripresero a trotterellare verso il gregge come se niente fosse accaduto. A me, che ancora tremavo, rimaneva una sola cosa da fare: abbracciare il mio Iron, colmarlo di parole di ringraziamento, di ammirazione, e bagnarlo con qualche lacrima.
Da allora, mi fu più chiaro quanto dobbiamo all’animale più intelligente e fedele all’uomo, e quanto possano essere cinici, colpevoli, indifendibili le persone che abbandonano il loro cane per i propri comodi. Immaginate una creatura che è stata capace di amare una sola persona, che vive per lei, e che si aspetta un po’ di affetto, di compagnia, di cibo. E immaginatela, adesso, abbandonata in un ambiente ostile – magari ai margini di un’autostrada, senza la presenza del suo padrone, senza cibo, spesso senza speranza. Ci vuole un cuore indifferente o crudele per compiere atti del genere, e in questi casi mi vergogno di appartenere al genere umano.
Dopo una vita trascorsa in simbiosi con Iron, e fatta di corse, avventure, abbracci e tanti altri gesti di vero amore reciproco, vennero i giorni del dolore. La scoperta fu tanto improvvisa quanto preoccupante. In una fredda giornata invernale, mentre correvamo, mi accorsi che Iron non riusciva a tenere il mio passo. Non era mai successo, così arrestai la corsa, mi voltai e lo vidi quasi inciampare sulle zampe posteriori. La sera dopo la nostra corsa fu regolare, ma in capo a qualche giorno Iron ebbe di nuovo problemi, tanto che negli ultimi metri si trascinò penosamente sino alla cuccia facendo leva sugli arti anteriori. Il veterinario fu chiaro e, suo malgrado, spietato: degenerazione dei nervi spinali, ovvero perdita progressiva e inesorabile della mobilità delle zampe, e possibilità di doverlo sopprimere, in modo da alleviare le sue sofferenze. Quando uscii dall’ambulatorio veterinario, impiegai un’ora a compiere il tragitto Tivoli-Cerreto, che normalmente richiede una ventina di minuti. Le lacrime scendevano dietro i miei occhiali da miope, e quasi non vedevo la strada; il dolore era così insopportabile che dovetti fermarmi due volte per abbracciare Iron, in un estremo tentativo di scongiurare quella condanna, di trasmettergli nuove energie, di allungare la sua vita per donargli e ricevere ancora l’amore che ci accomunava da nove anni senza una sbavatura, senza un solo malinteso, una singola pecca. Ripeto, sono consapevole di usare parole che normalmente adoperiamo per i sentimenti verso gli umani. Ma so anche che non esiste proprietario di cani che possa esimersi dal pronunciare con convinzione quell’irrinunciabile, eloquente espressione: “Sono cristiani, non animali”. E del resto, quando un cane alza verso il padrone i suoi occhi colmi di dedizione, di fiducia, di lealtà, è difficile pensare che non stia provando quel sentimento che è al vertice di ogni altro, e che si chiama amore.
La malattia di Iron progredì rapidissima. Dopo un mese di inutili cure, un pomeriggio io e mio cognato trovammo Iron immobile accanto alla porta della casetta di campagna. Il nostro amato compagno ci aveva risparmiato anche l’ultima pena, quella di doverlo sopprimere. Bagnando con lacrime amare la terra che lo avrebbe accolto, demmo sepoltura alla bestia che ci aveva donato e offerto più amore di tanti umani. E io ripensai alle parole più belle mai dedicate al fedele amico dell’uomo, quelle del romanziere americano Jonathan Carroll: “I cani sono angeli minori, e lo dico senza alcuna ironia. Amano in modo incondizionato, perdonano all’istante, e sono i più sinceri degli amici, disposti come sono a fare qualsiasi cosa possa renderci felici. Se attribuissimo alcune di queste qualità a una persona, la definiremmo speciale. Se questa persona le possedesse tutte, diremmo che è un angelo”.
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