I
Quale nostra immagine
a somiglianza sua?
Di un altro io più grande
invecchiato nel corpo
sbriciolato nell’anima
basterebbe un chiodo,
una spina, una sola
ottusa epifania
nel groviglio degli ulivi.
II
Forse si è nascosto in noi
rimpicciolito, in miniatura,
come sepolto in un guscio
di smalto, nelle giunture
incalcolabili dei tèndini,
nel talco delle ossa...
lì introflesso che si contorce
e geme nell’attesa di rinascere.
III
Nido e cella, seme
d’argilla, uccello tessitore
di intrecci grandi e piccoli,
lingua drenata sulle tracce
visibili e invisibili
che nemmeno i cani
hanno fiutato.
Corda d’arco che geme
e non si allenta, volo
radente di freccia,
bersaglio opaco
che scheggia la memoria.
IV
Questa sostanza cieca
che rimane nella carne,
nel principio della nostra voce
come nella brace per un istante
la forma di ciò che è bruciato...
V
Rosa scomposta, cetra,
cesta d’amore, insonne
creta, irredimibile voce
che non resta, soffio
che sale e non si arresta.
VI
Prendersi cura di noi,
nel calco del nostro respiro
combinazioni astruse
(ingabbiate entelechie?)
Prendersi cura di noi
sostanze inconcluse
ipersensibili
luminescenti opache
imperfettibili.
VII
Non c’è acqua né terra,
non ci sono sponde,
solo quest’isola deserta
appena abbozzata
come le altre senza un nome
sulla schiuma del mare.
Un’isola madre,
un’isola sposa
sulla linea dura
dell’orizzonte.
VIII
Così tra il tutto e il niente
in un torpore sul mare di vele
sferite, di corde e catene,
quel dono obliquo di chi ama
per possedere amore.
Le parole incantate di Calipso,
il rifiuto di un uomo
che muore immortale (*)
e vince sconfitto.
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