FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 45
gennaio/marzo 2017

Indizi

 

LA POESIA DI JEAN-CLAUDE VILLAIN
Inseguire il mito

di Viviane Ciampi



Parlare di poesie e d’arte con Jean-Claude Villain, poeta francese della Borgogna ma “convertito” ai cieli azzurri del Mediterraneo, per amore e per fede profonda nella bellezza, significa parlare del mistero insondabile che sorregge la creatività, in un mondo che perde i principi e gli ideali e che però resistono a quei pochi che si ostinano a farli esistere perché non vogliono perdere il vero senso della vita. In un suo carteggio, che è anche dichiarazione di poetica, leggiamo: «[…]il Nord rappresenta un passato concluso, un tempo ormai alle spalle, una tunica da spretato abbandonata nelle brume e nella galaverna. Il Sud è un presente eterno che mi irriga di linfa della vita e nel quale esulto. Questo Sud, l’ho approfondito addentrandomi nel deserto per cercarvi un’esperienza limite, una rivelazione».

Ma altre esperienze di viaggio lo hanno portato a Cipro, in Turchia, nella Penisola Iberica, in Italia, e soprattutto in Grecia, suo paese d’elezione, poiché nella sua scrittura, ogni passaggio rappresenta un mito, una realtà che sussiste e resiste attraverso la parola. Le sue poesie – una specie di soffio lento e avvolgente – si muovono lungo un tracciato filosofico di particolare densità, come se nella sua parola vi fosse una concentrazione delle arti: la pittura, il teatro, il mimo, la danza, l’architettura, la musica. Dentro questo soffio vi si trova condensato il sole e i suoi giochi di abbacinanti raggi che planano sul mondo: «[…] mi trovai costretto a respirare ovunque l’aria del Mediterraneo. Potevo dire allora come Claude Monet: “l’affar mio è il sole”. La mia odissea s’ impregnava dei miti che interrogavo, per esempio ne Le Tombeau des Rois o in un lavoro teatrale dedicato al Minotauro: Labrys. Diventavo greco. Parecchie amicizie s’intrecciavano lungo il cammino del bacino mediterraneo, includendo il gioco delle lingue per reciproche traduzioni. Poesie, viaggi, traduzioni, amicizie, amori, erano tutt’uno, e questo tutt’uno si fondeva alla mia vita, aperta ai flussi della luce e del mare, a questo abbandono che, dalla vita all’opera e dall’opera alla vita, mi beneficiava d’infinita grazia».

Tuttavia si potrebbe andare avanti con l’Oriente che va di pari passo con le metamorfosi dell’opera e ci si accorgerebbe ogni volta di assistere a una vera e propria affiliazione al senso, con le sue referenze rituali per non dire mistiche. Perché Jean-Claude Villain fa parte di quelle persone che possiedono uno sguardo. Ma il discorso ci porterebbe molto avanti e dovremmo avere uno spazio ben più lungo di un semplice articolo o presentazione. Il poemetto inedito qui presentato – e ringraziamo il poeta di avercelo affidato – è dedicato a Bernard Noël (già tradotto da chi scrive, su Fili d’aquilone nel n. 19 sul tema dell’Eros), in ricordo di una loro passeggiata.

In questi versi di brulicante seduzione, Jean-Claude Villain ci dona l’accecante transitorietà d’un delirio amoroso, polverizza il mito di Eros. Entra in gioco il sesso – un sesso, senza alcun alibi – con la sua carnalità sensibile, complice, iniziatica, triviale e spirituale: angoscia e gioia, dolori e piaceri. Vi sono i corpi rivelati da un qualche evento, vi è il dialogo serrato di quei medesimi corpi incastonati tra fiocchi di passione e l’insolente lucentezza del sole che abbacina nella sua eternità d’estate ossessiva, penetrante tra le cose, lingua viva, canto purissimo.





CORPS, SILENCE SERTI

Pour Bernard Noël,
(en souvenir des promenades)

dehors
des étoiles tremblent dans la nuit

égal leur scintillement
ni feu
ni signe

continuité
brève de l’instant
à chaque aube abolie

que peut-il
ce grand corps stellaire
serti de silence
à l’altitude de l’abîme

 

 

 

dehors
la frise familière du nu

sous l’éclat du givre
cohorte des corps
arêtes vitrifiées
à leurs fractures

par transparence
des profondeurs fessues
saignent
gouttes femelles sur la neige
traces d’un sacrifice

pierres levées
des membres d’hommes
se dressent
vain espoir de tiédeur

point de paix pour l’abri

aimantée de fins cristaux
accessoires d’un rituel
feutré par le brouillard gélif
une ouate grésille
dans la gaieté des cuisses
serrant
la lourde proie des ventres

 

 

 

une main se tend
vers une silhouette
floue

formes qui se happent
corps qui se bordent
effluves salines
sorcières dans l’humide

à contre-jour appel
des nuques
des reins

un pied effleure
une cheville bascule
et l’eau flue jusqu’aux ventres

proches soupirs

de souples rondeurs s’éploient
dans la transparence des voiles

devenir n’est plus
soudain
qu’un présent
sans fin

 

 

 

têtes tournées
vers

l’eau
la lumière
un corps

et affaissés
les muscles
frigides devenus
autour des os
tournant pour tenir
tournant pour rien

ou plutôt le plaisir

des flux
des frottis
étirés à hauteur
des hanches

sans heure qui compte
l’eau s’égouttant
goutte
à
goutte
des corps
diaphanes ombrés
spectres happés dans
le couloir infini
du vide

 

 

 

comme dans une forge
un feu

pour attendrir
amollir
les formes qui pèsent

cuisses
fesses
seins

aisance qui tombe
majesté qui s’affaisse

royale souple
la démarche
ralentit pour les regards
les saisit
les attend
les cherche

un bras
élégant se lève
pour feindre un élan
caresser
une luisante chevelure

 

 

 

s’il fallait
tenir à cette tiédeur
ce serait
joues
contre joues
jambes
contre jambes

et après
tant de chaleur désirée
toute chair relâchée
assis dans les vapeurs
voici qu’aux sources venu
un repos commencerait

sur le marbre mouillé
pénombre
égouttement

et flasque sur les os
divine offerte
la peau
huiles
romprait dans cet intervalle
le fil du temps

 

 

 

au loin
hanches torses
bassins qui basculent

une musique muette
remue doucement les corps
fatigues tues
repos
nonchalance

qui
aguiche
qui

innocence
abandon

membres alanguis
souffles lents
qui peu à peu
s’absentent

une fête se prépare

parviennent aux tempes
de lointains parfums

plus loin une cérémonie
pour ce jour souverain
qui sera scellé

 

 

 

tarder encore
à retenir

inspir profond
synchrone des souffles
surpris par tant de langueur

tout s’arrête soudain
tout revient
au suintement
des peaux
au frémissement
des chairs

détente
frisson
humides

nulle tension
lente une main convie
un corps
une caresse
à peine

jouissance ce souffle d’air
venu d’une lucarne
vent doux entré
comme un rai

aveugle
une reconnaissance tactile
offre
une promesse
aux chairs

 

 

 

sylve
sangsue
serpent

tout signe de sillage

les suints ruissellent
figures fatales
dessinant des sillons chauds
sur des réseaux de rides

paupières plissées
vergetures des ventres
crevasses fissurant
les pieds

plaies

émolliente l’eau
ramifie le corps
végétale membrane
forêt fertile de lianes
doucement explorée

insidieuses
l’audace des doigts

l’aventure profonde
des langues

 

 

 

raie
un sein
une fente
vertige

entr’aperçu
l’axe de la terre
bascule

le corps
astre tournoyant
infini

ce serait
comme dormir radieux
toujours reposer
las effleuré
par une penne
le duvet d’un oiseau rare
tenu par des mains d’anges
déesses nues
dès l’aurore alanguies

et ivres
ensemble
sans vertige s’élançant
dans la lumière
traversés
retenus

 

 

 

deviner
voir
corps
et corps
fantômes anonymes
nus
dans la confusion des ombres

faiblement
frôler
des formes vaporeuses
transparentes
sans visage
sans être
seul pressenti
le sexe

à la complicité des peaux
subtiles
fluides
informes
traversées d’effleurements

jusqu’à l’intimité d’un viol
doucement consenti

 

 

 

ouvrir
non la porte
garder le chaud
l’humide
qui vident
font vibrer les ventres

ouvrir
la peau
les pores
dégager chevelues
des bras les aisselles
écarter molles
les cuisses
serrées à l’axe

du sexe

soudain ouvert
muet
toute pudeur
bue
dans la juste équivalence
des chairs


CORPO, SILENZIO INCASTONATO

Per Bernard Noël,
(ricordando passeggiate)

fuori
stelle che nella notte vacillano

uguale lo scintillio
né fuoco
né segno

breve
persistenza dell’istante
ad ogni alba cancellata

che cosa può
quel gran corpo stellare
di silenzio incastonato
ad altezza d’abisso

 

 

 

fuori
il fregio familiare del nudo

sotto il luccichio del gelo
schiera dei corpi
spigoli vetrificati
alle loro fratture

per trasparenza
sanguinano
naticute profondità
gocce femmine sulla neve
tracce d’un sacrificio

pietrefitte
di membri d’uomini
si drizzano
speranza vana di tepore

nessuna pace per il rifugio

di fini cristalli calamitata
accessori d’un rituale
felpato da una nebbia geliva
cricchia l’ovatta
in gaiezza di cosce
stringendo
la greve preda dei ventri

 

 

 

una mano si tende
verso una siluetta
sfocata

forme che s’afferrano
corpi che s’avvolgono
effluvi salini
streghe nell’umido

richiamo in controluce
delle nuche
delle reni

un piede sfiora
una caviglia si capovolge
e l’acqua fluisce fino ai ventri

vicini sospiri

di soffici rotondità si dilatano
nella trasparenza dei veli

divenire d’un tratto
non è più
che un presente
senza fine

 

 

 

teste voltate
verso

l’acqua
la luce
un corpo

e afflosciati
i muscoli
frigidi divenuti
attorno alle ossa
roteanti per tenere
roteanti per niente

o piuttosto il piacere

dei flussi
degli attriti
stiracchiati ad altezza
delle anche

senza ora che tenga
l’acqua che sgocciola
goccia
a
goccia
corpi
diafani ombreggiati
spettri risucchiati nel
corridoio infinito
del vuoto

 

 

 

come in una fucina
un fuoco

per intenerire
ammorbidire
le forme che pesano

cosce
natiche
seni

spigliatezza che crolla
maestà che si affloscia

regale delicata
l’andatura
a rilento per gli sguardi
li agguanta
li attende
li cerca

un braccio
elegante si alza
per simulare uno slancio
accarezzare
una lucente capigliatura

 

 

 

se dovessimo
attenerci a questo tepore
sarebbe
guance
contro guance
gambe
contro gambe

e dopo
tanto calore desiderato
ogni carne indebolita
seduto nei vapori
ecco che alle sorgenti arrivato
un riposo comincerebbe

sul marmo bagnato
penombra
sgocciolamento

e molle sulle ossa
divina profferta
la pelle
oli
arresterebbe in questo intervallo
il filo del tempo

 

 

 

di lontano
anche toraci
bacini che ruotano

una musica muta
muove con garbo i corpi
fatiche taciute
riposo
nonchalance

chi
seduce
chi

innocenza
abbandono

membra illanguidite
lenti respiri
che a poco a poco
si assentano

si preordina una festa

alle tempie giungono
lontani profumi

più in là una cerimonia
per quel sovrano giorno
che sarà sigillato

 

 

 

tardare ancora
a trattenere

profondo inspiro
sincronia dei respiri
sorpresi da tanto languore

d’un tratto tutto si ferma
tutto torna
al trasudare
della pelle
al fremito
della carne

distensione
brivido
umidori

alcuna tensione
lenta una mano invita
un corpo
una carezza
appena

goduria quel soffio d’aria
profuso da un lucernario
dolce ventre entrato
come un raggio

cieco
un tattile riconoscimento
offre
una promessa
alle carni

 

 

 

selva
sanguisuga
serpente

ogni segno di rigo

l’unto straripa
figure fatali
disegnano caldi solchi
su reti di rughe

palpebre sgualcite
smagliature dei ventri
crepe che incidono
i piedi

piaghe

l’acqua lenisce
ramifica il corpo
membrana vegetale
fertile foresta di liane
con quiete esplorata

insidiose
l’audacia delle dita

la fonda avventura
delle lingue

 

 

 

striscia
un seno
una fessura
vertigine

intravisto
l’asse della terra
si ribalta

il corpo
astro volteggiante
infinito

sarebbe
come un fulgido dormire
sempre riposare
stanco sfiorato
da un’ala
il piumino d’un raro uccello
tenuto da mani d’angeli
discinte dee
dall’aurora illanguidite

ed ebbri
insieme
senza vertigini scagliandosi
nella luce
traversati
trattenuti

 

 

 

indovinare
vedere
corpi
e corpi
fantasmi anonimi
nudi
in miscuglio d’ombre

debolmente
sfiorare
vaporose forme
trasparenti
senza volto
senza essere
solo percepito
il sesso

alla complicità delle pelli
sottili
fluide
informi
traversate da sfioramenti

fino all’intimità di uno stupro
dolcemente assecondato

 

 

 

aprire
non la porta
tenere il calore
l’umido
che svuotano
fanno vibrare i ventri

aprire
la pelle
i pori
liberare irsute
dalle braccia le ascelle
allargare cedevoli
le cosce
all’asse serrate

del sesso

d’un tratto aperto
muto
ogni pudore
bevuto
nella giusta equivalenza
delle carni


(Inedito)


Traduzione dal francese di Viviane Ciampi




Jean-Claude Villain
Nato in Francia (Borgogna) nel 1947, ha fatto prestissimo la scelta, per lui vitale, di raggiungere il Mediterraneo dove molto ha viaggiato. Non lo ha lasciato da più di quarant’anni e vive oggi tra il Sud della Francia, nel Var, e la Tunisia (Sidi Bou Saïd). Persegue un’opera poetica variegata, principalmente rivolta verso lo spazio mediterraneo di cui sposa i miti, il canto, e il tragico e lo percorre attraverso la scrittura, le amicizie, i viaggi, e le traduzioni.
È autore di una ventina di libri di poesia tutti accompagnati dal contributo di artisti plastici, di opere teatrali, saggi, studi sui poeti contemporanei, di versioni francesi, di cronache, di racconti e numerosi libri d’artista. Tradotto in numerose lingue, è stato pubblicato in molti paesi. Ha collaborato come critico letterario a riviste francesi e straniere. È altresì l’autore di molteplici studi e articoli su pittori contemporanei. Ha partecipato a vari festival e simposi in tanti paesi. I suoi più recenti libri sono Ithaques (Le Cormier, 2012) e L’ombre, l’effroi (Ed. Encres Vives, 2016).
Sono stati pubblicati tre saggi riguardanti la sua opera: « Jean-Claude Villain, damier de parole et silence », di Chantal Danjou nel 2001, Ed. L’Harmattan, « Les formes de l’amour dans l’œuvre de Jean-Claude Villain » di Constance Dima nel 2006, Ed. K. Sfakianaki (Université de Thessalonique), « Les traces de l’exil dans l’œuvre de Jean-Claude Villain » di Sylvie Besson nel 2009, Ed. Nouveau Recueil. Un dossier gli è stato dedicato dalla rivista Encres Vives nel 2003 e un video per Itiné’art.


viviane.c@alice.it